Rivista Anarchica Online


ricordando Giancarlo De Carlo

Anarchico, a modo suo

di Franco Bunčuga

Nel centenario della nascita del noto architetto (12 dicembre 1919), uno dei suoi allievi, e nostro collaboratore, ne traccia un profilo umano, politico e professionale.


De Carlo, sin dai suoi primi anni di formazione, in varie forme, in vari modi e in varie occasioni ha avuto modo di conoscere e frequentare alcune delle figure più rappresentative del movimento anarchico e partecipare ad alcuni eventi storici, quali il convegno di Carrara e indirettamente quello successivo di Canosa di Puglia.
Non sono poche, nei primi decenni del dopoguerra, le figure di rilievo nel mondo dell'architettura e della pianificazione territoriale dichiaratamente anarchiche e militanti in specifiche organizzazioni politiche. In Francia Michel Ragon, sindacalista anarchico, membro della Federazione Anarchica Francese, collaboratore di “Le Monde Libertaire” oltre che critico di storia dell'arte e dell'architettura e urbanistica moderne. In Inghilterra Colin Ward, che subito dopo la guerra entra nella redazione di “Freedom” e nel 1961 fonda e dirige, fino al 1970, il mensile “Anarchy”. Nel 1971 diventa poi il responsabile all'istruzione della Town and Country Planning Association, per la quale cura le pubblicazioni del “Bulletin of Environmental Education”. E in Italia come non nominare Carlo Doglio, influente esponente del movimento anarchico italiano, poi consulente a Ivrea di Adriano Olivetti e docente di Urbanistica, grande amico e mentore di Giancarlo De Carlo. Doglio pubblicherà nel 1953, tra i tanti altri, un testo fondamentale per un approccio critico all'urbanistica contemporanea, L'equivoco della città giardino, uscito per la prima volta a puntate su “Volontà” nel 1953.
Figure di storici, urbanisti e architetti che a pieno titolo possiamo definire anarchici; De Carlo invece, pur facendo parte di questo ambiente culturale, è sempre stato anarchico a modo suo, anche se indubbiamente è dal mondo anarchico del dopoguerra, soprattutto italiano, che nascono le sue prime scelte professionali e i suoi primi incarichi progettuali.
Come Carlo Doglio, anche De Carlo sceglie l'impegno civile nel periodo della ricostruzione, e come strumento di intervento politico per cambiare la società sceglie coscientemente l'architettura. Non per cambiare il mondo cambiando le regole dell'economia o la gerarchia dei poteri, ma per contribuire a cambiare il mondo cambiandone la forma, cambiando le relazioni – spaziali – degli individui e passare così da un'architettura gerarchica e piramidale a una orizzontale, libera, complessa e mutevole.
I luoghi creano le città, poi gli individui ne producono la forma e la personalità unica e irriproducibile. Ogni architettura di De Carlo, anche la più trascurabile, è un pezzo della sua città ideale.

Giancarlo De Carlo

Anarchici di oggi e anarchici di ieri

Il composito movimento anarchico uscito dalla repressione fascista e dalla partecipazione alla lotta partigiana nel primo dopoguerra poteva sembrare di avere un futuro nella ricostruzione della società lacerata da profonde divisioni e da una guerra interna spesso fratricida. Nel movimento erano attivi personaggi quali Cesare Zaccaria, Pio Turroni, Giovanna Berneri, oltre lo stesso Carlo Doglio, e tanti altri che avevano partecipato alla guerra di Spagna, alla lotta partigiana e a volte anche ufficialmente alla guerra di liberazione dal fascismo in Europa. Nell'immediato dopoguerra il congresso di Carrara nel '45 cercò di riunire le diverse anime del movimento anarchico per tentare una sorta di rifondazione e il dibattito continuò nel '48 con quello di Canosa. De Carlo partecipò con Doglio a entrambi.
De Carlo aveva partecipato alla guerra partigiana aderendo al MUP di Lelio Basso, e a Milano con Pagano partecipava alle riunioni nello studio dell'architetto Albini, alla bottega del quale poi iniziò la sua esperienza progettuale. Ad avvicinarlo al pensiero anarchico furono le lunghe discussioni con Doglio, che lo nascondeva nel periodo in cui era in clandestinità, e le notti passate a leggere e commentare Pëtr Kropotkin. Quando De Carlo capì che l'anarchico Kropotkin, insieme a Élisée Reclus, William Morris e altri, poteva considerarsi uno dei padri di uno dei principali filoni dell'urbanistica moderna, ecco che aveva capito la sua strada.
«De Carlo non ha mai voluto che l'urbanistica diventasse altro rispetto all'architettura, e su questo era perfettamente d'accordo con Doglio, architettura e urbanistica per loro dovevano essere la stessa cosa. Alla fine Doglio arriva a dire: l'urbanista deve essere architetto, ma non basta perché in realtà l'urbanista è colui che dà forma alla società, dunque è il politico, ma non il politico dei partiti, che assolutamente i partiti non erano nella testa né di De Carlo né di Doglio. Dunque è un'azione che viene dal basso e anarchica in senso stretto».
A Canosa De Carlo presentò una relazione su Il problema della casa, indicandone la soluzione nella dimensione urbana e preconizzando un “atteggiamento di partecipazione” – opposto a un “atteggiamento di ostilità” – che gli uomini assumeranno di fronte a questo tipo di pianificazione urbanistica, in cui «il piano è un'opportunità di svuotare i modi di vita attuali attraverso il mutamento delle rappresentazioni: bisogna prima cambiare i modi di vita, le rappresentazioni muteranno di conseguenza». In questa prospettiva, il piano urbanistico per De Carlo diventa un atto rivoluzionario.
A Canosa, De Carlo e Doglio trovarono in Cesare Zaccaria un personaggio di riferimento per l'evoluzione del loro pensiero politico; De Carlo probabilmente ne condivise anche l'importante svolta del 1958 quando, in una lettera inviata alla rivista “Volontà” (significativamente conservata tra le minute di De Carlo), questi dichiarava finita la sua militanza anarchica «nel chiuso d'uno od altro club», e piuttosto lo spostamento di tale militanza nel campo professionale, «nell'aperto dei molteplici contatti di cui si anima, alla mia stessa statura, la mia vita quotidiana».
Così De Carlo, quando gli chiedo se l'incontro con gli anarchici a Carrara abbia avuto qualche influenza sulla sua futura concezione dell'architettura: «Forse; sul modo di affrontare un progetto osservando i suoi temi da tutti i punti di vista possibili, senza stabilire a priori che un punto è migliore di un altro, perché si è persuasi che l'ordine delle cose cambia e ogni tentativo di fissarlo in una gerarchia non è altro che un'affermazione di potere; che importante non è il risultato, ma il percorso che si compie per cercare di raggiungerlo, accogliendo tutti gli apporti positivi che durante il viaggio si incontrano, ponendosi di fronte agli ostacoli con spirito inclusivo; che il dubbio è una chiave che può aprire le varie porte del problema; che il processo è il vero scopo e l'oggetto ha valore di verifica tentativa. Questo credo di aver imparato dal pensiero anarchico e di averlo trapiantato nel mio modo di fare architettura. Il convegno di Carrara era stato una conferma dal vivo che mi aveva dato molta fiducia».

Anarchici e raccomandazioni

Zaccaria procura anche a De Carlo una delle sue prime commesse da architetto: l'arredo di due navi.
«Cesare Zaccaria [...] era ingegnere navale e si era formato in Italia, ma la sua cultura era sostanzialmente anglosassone. [...] insieme a Giovanna Berneri, faceva a Napoli la rivista “Volontà”, che esprimeva la posizione più moderna dell'anarchismo italiano: la più colta e razionale. Zaccaria era un uomo di cultura scientifica e forse per questo ligio al principio che le minoranze non debbono essere costrette ad accettare le decisioni della maggioranza; altrimenti la ricerca si impoverisce, scompare la trasgressione e l'infrazione, quindi la possibilità di scoperte inaspettate. Ma voleva riportare quel principio in un quadro di razionalità. L'appello alla razionalità risultava qualche volta strano a quelli che aderivano all'anarchismo per via sentimentale. Ma a me sembrava necessario, come un efficace antidoto al pittoresco libertario. È ancora una volta il riproporsi del dualismo tra l'esuberanza bakuniniana e il collettivismo razionalista kropotkiniano.
Zaccaria era il più kropotkiniano degli anarchici italiani e anche questo mi aveva interessato. Del resto è stato proprio lui a mettermi in contatto con gli anarchici inglesi che a Kropotkin direttamente si riferivano. A Canosa avevo presentato uno studio sulla condizione delle abitazioni in Italia e Zaccaria l'aveva pubblicato su “Volontà” e poi lo aveva passato a Vernon Richards che lo aveva pubblicato in inglese su “Freedom”.
Da Zaccaria mi sono venuti due appassionanti lavori: ho collaborato con lui all'allestimento di due navi. [...] Zaccaria si occupava di riprogettare la carena e l'equipaggiamento tecnico e gli impianti, io di riprogettare tutto quello che stava al di sopra».
Anche il padre di De Carlo era ingegnere navale, come Zaccaria. Cosa rara all'epoca, dopo la separazione dei genitori De Carlo fu affidato al padre che per impegni di lavoro lo spedì in Tunisia dai nonni e col quale non ebbe mai molte frequentazioni. Zaccaria insomma fu per lui un secondo padre, fu fondamentale per la sua crescita culturale e professionale e a lui rimase legato sempre da una forte stima e un grande affetto.

Spazio e società anarchica

Attraverso legami nel mondo anarchico, De Carlo perviene anche alla direzione della rivista “Spazio e società”. «La rivista, in origine Espaces et Societés, viene fondata in Francia nel 1970 da Henri Lefebvre [marxista libertario, sociologo, filosofo, geografo, urbanista e partigiano, come era stato De Carlo] e Anatole Kopp [che] aveva prodotto importanti progetti in Algeria già a partire dagli anni Sessanta, dove aprì un suo studio di architettura. [...] Personaggi come Kopp, russo con studi in occidente, e Lefebvre, entrambi critici con il PCF [Partito comunista francese], erano ben accetti in Algeria, e cercando una “terza via” spesso si avvicinavano a teorie di pianificazione di origine libertaria».
Per lo stesso motivo Doglio e De Carlo, appartenenti a una sinistra critica non allineata con il Partito comunista italiano, potevano in quegli anni dialogare con l'università algerina e gestire un progetto di cooperazione internazionale all'interno dell'École Polytechnique d'architecture et d'Urbanisme ad Algeri.
Doglio aveva abitato a Londra dal 1955 al 1960, dove ebbe un'importante attività di editorialista e lavorò per la BBC, divenne membro della Fabian Society ed entrò nella direzione della International Society for Social Studies di Lelio Basso, anch'essa coinvolta in quegli anni nei programmi internazionali di sviluppo algerini. C'era, in quegli anni ad Algeri, una feconda presenza di intellettuali libertari e di gruppi rivoluzionari internazionali, dai Montoneros argentini agli esuli uruguaiani, dalla anarchica Comunidad del Sur sino alle Black Panthers americane, oltre a militanti dei vari gruppi europei, tutti tollerati e discretamente controllati dagli efficienti servizi segreti algerini.
Doglio in quegli anni, tra il 1972 e il 1974, fu uno dei protagonisti della creazione della Scuola di architettura ad Algeri: «L'esperimento si chiuse dopo alcuni anni e i colleghi che erano stati docenti lì rientrarono in Italia sul finire degli anni ’70.1 In Italia il più attivo era Riccardo Mariani, amico di De Carlo e di Carlo Doglio, perché anche lui di cultura anarchica. Per memoria va ricordato, De Carlo ci teneva molto a ribadirlo, che la cultura anarchica è basata sul principio che non esiste lo Stato. Le persone trovano un equilibrio nella convivenza e nel non danneggiare l'altro. Cioè non c'è bisogno dello Stato per equilibrare i rapporti tra le persone. La convivenza si trova autonomamente attraverso il rispetto del prossimo. Carlo Doglio, amico di Lefebvre, promosse un rapporto tra Riccardo Mariani e Lefebvre stesso: nacque così l'idea di fare l'edizione italiana di Espaces et Societés [...] che venne poi diretta dallo stesso Mariani, come traduzione della rivista francese, con qualche articolo italiano e alcune firme prestigiose come quelle di Giuseppe Samonà. [...] Giancarlo De Carlo e Carlo Doglio erano anarchici.[...] Guardando il colophon dei primi numeri della rivista, Riccardo Mariani è il redattore capo italiano e poi tutto il gruppo è francese. Nel comitato scientifico, nel gruppo di redazione, non spunta mai il nome di Carlo Doglio perché credo scelse di non voler fare ombra. Un vero maestro fa le cose senza bisogno di apparire, d'altronde lui non aveva bisogno di fare carriera, chi non fa così non è un maestro.
L'editore era “Moizzi e Spinelli”, anche Spinelli era un anarchico, queste relazioni andrebbero capite.
Nell'ultimo numero di questa edizione ci fu una variazione della redazione a cui si aggiunse a Riccardo Mariani anche Giancarlo De Carlo, Luigi Colajanni, Daniele Pini, Gaddo Morpurgo. [...] So che ci fu una differenza di vedute, forse una lite tra Riccardo Mariani e Giancarlo De Carlo, e dopo questa esperienza De Carlo prende in mano la rivista che ricomincia dal numero uno. [...] De Carlo, a mio avviso, non ha la cultura sociale di Carlo Doglio e in questo senso è un poco meno anarchico di lui. Di fatto De Carlo era abbastanza egotista.»
Nel 1977 Riccardo Mariani ad Algeri mi raccontava che lo legavano a Doglio e al movimento anarchico anche una sua breve direzione di Umanità Nova, giornale anarchico fondato da Errico Malatesta nel 1920, allora come oggi organo della F.A.I. (Federazione Anarchica Italiana).

Il cerchio si chiude

Ci sono due momenti nelle lunghe conversazioni che ho fatto con De Carlo alla fine degli anni ’90 in cui lui riflette sul suo sentirsi anarchico, all'inizio e alla fine del discorso. Un momento in cui ricorda soprattutto le sue radici e i suoi maestri, l'entusiasmo dell'immediato dopoguerra e la delusione della dispersione del movimento negli anni ’50 e ’60, dal quale si distacca subito dopo Zaccaria (come farà più tardi lo stesso Doglio), e una nuova riflessione libertaria dopo i fermenti della fine degli anni ’60 e degli anni ’70. Nel mezzo, una battaglia solitaria per salvare i fondamenti della sua visione e la coerenza della sua pratica.
1. «Ho già detto altre volte che non mi sembra di poter dire che sono anarchico. In verità credo che non lo possa dire nessuno, se non quelli che all'anarchismo hanno dedicato tutta la loro vita, vivendo il loro impegno in modo cristallino – senza riserve, con generosità assoluta – e magari sono morti per la loro causa. Degli altri si può dire che tendono a essere anarchici: l'anarchismo è un limite verso il quale ci si dirige con la consapevolezza che non lo si raggiungerà mai, perché si sposta mentre si cerca di avvicinarlo. [...] Io sono arrivato all'anarchismo in modo del tutto pragmatico, cercando man mano che procedevo nella mia personale formazione».
2. «La mia vita è fare l'architetto; nel mio modo di fare l'architetto si rispecchia la mia vita. Sono due piani sovrapposti che combaciano e se si vuol capire l'evoluzione delle mie idee politiche credo si debba guardare quella sovrapposizione, in trasparenza. Comunque mi ricordo di averti detto che io non so bene se sono anarchico. E ora debbo ripeterlo. [...] Posso aggiungere che la mia consapevolezza di essere anarchico, o piuttosto del mio tendere a essere anarchico, si è rafforzata con gli anni. Ho avuto un periodo di mezzo in cui forse non ero concentrato come lo sono adesso su questa tendenza. Era il periodo in cui molti pensavano che fossero necessari strumenti più efficaci, più diretti, di quelli che offre l'anarchismo. [...]
Ho capito che organizzazione ed efficienza – intese come ordine, linearità di cause ed effetti, gerarchie, sospensione critica, soggezione al potere, ecc. – applicate alla società non sono valori, ma disvalori perniciosi. Così sono tornato con più attenzione ai pensatori anarchici, ho riletto molti dei loro scritti e ho riflettuto sul senso che può avere l'efficienza – di che natura può essere – per raggiungere risultati significativi.
Ho cercato anche di acquistare un po' di quella misura storica che caratterizza gli anarchici; che raramente si aspettano risultati immediati da quello che fanno. Quasi tutti gli anarchici di valore che mi è capitato di incontrare erano indignati e furiosi, ma pazienti. Credevano – come ti ho già detto – che i mezzi sono più importanti dei fini e penso proprio che in questo sia la più chiara differenza tra l'anarchismo e tutti gli altri movimenti politici. Per gli anarchici i mezzi modificano i fini – e anche chi li persegue – lungo la rotta che si percorre per raggiungerli. Ti dirò che questo mi è sembrato un buon punto anche per l'architettura e l'urbanistica, e così l'ho adottato come chiave delle mie volte».
«[...] gli anarchici sono caduti in crisi profonda quando si sono scontrati con la linearità dei processi che venivano proposti dal pensiero occidentale. Gli anarchici infatti, proprio perché danno importanza ai mezzi, finiscono col suggerire processi complessi e tortuosi, descritti da curve, esitanti e itineranti. Sono processi della stessa natura di quelli che dovrebbero indirizzare i progetti architettonici e urbanistici. Per questo mi interessano e non solo in astratto ma anche concretamente, sul piano operativo oltre che concettuale.
Ma tornando all'inefficienza, mi sembra che quella che pare congenita all'anarchismo cominci a essere considerata una qualità: una qualità etica e anche politica. Qualcuno ha cominciato a sospettare che quel modo di essere inefficienti porti a essere efficaci, perché consente di essere più candidi e quindi più fiduciosi, più inclusivi e quindi più consapevoli e coerenti: apre maggiori possibilità di mettersi in contatto con altri processi che non sono lineari, come quelli della natura».
Dopo quasi quarant'anni dalla pubblicazione del suo primo articolo su “Volontà” di Zaccaria, nel 1986 De Carlo inizia nuovamente a contribuire alla nuova “Volontà”, nel numero monografico Ripensare la città che da nuovo redattore curò nel 1986, per poi partecipare ancora agli altri volumi monografici della rivista che ho curato sul tema: L'idea di Abitare del 1989 e La città è nuda del 1995. Riannodando così un filo ideale che non si era mai interrotto.
Sono poi degli ultimi anni '90 le lunghe conversazioni fatte insieme nel suo studio milanese, che hanno portato al testo edito da Elèuthera nel 2000, così ampiamente citato in questa dissertazione.
Il cerchio si chiude.

Franco Bunčuga
Questo scritto è un estratto riassuntivo del testo che apparirà nell'opera collettanea: Giancarlo De Carlo l'architetto di Urbino, edizioni Plug_in 2019. All'opera si rimanda per note e apparati.

1. Del gruppo facevo parte anch'io, su suggerimento di Daniele Pini, assistente di De Carlo e selezionato poi da Carlo Doglio che esaminava i candidati al Servizio Civile per conto del Ministero. Io fui tra gli ultimi a rientrare, nel 1978.