Rivista Anarchica Online


storia

Anarchici e lotta armata in Italia
(1969-1989)

di Giorgio Sacchetti

Un'analisi storico-politica di un ventennio fondamentale nella storia del movimento anarchico in Italia, caratterizzato dalle stragi di Stato e dallo sviluppo delle organizzazioni e delle pratiche lottarmatiste.


L'anarchismo italiano negli anni Settanta e Ottanta del ’900 è presente nell'agone del conflitto sociale e politico che attraversa il paese, trovandosi spesso in contiguità con l'attivismo dei gruppi dell'estrema sinistra.
Già durante la Seconda guerra mondiale si era evidenziata una frattura teorica sul nesso violenza-rivoluzione, frutto di riflessioni maturate nel dibattito post-Spagna, destinata a ripercuotersi sul lungo periodo. Nel 1939-1945, mentre l'anarchismo latino optava in genere per la partecipazione diretta alla guerra antifascista, quello anglofono si attestava invece su posizioni in prevalenza antibelliciste e pacifiste. Quest'ultima opzione, concretizzatasi in una campagna internazionale contro tutti i bombardamenti e a difesa delle vittime civili della guerra, era il risultato di un vivace dibattito promosso, negli ambienti intellettuali progressisti inglesi e tra gli esuli antifascisti a Londra, dall'italiana Maria Luisa Berneri. Di ciò rimane un lascito teorico, una traccia per ricostruire una mappa delle culture libertarie e pacifiste del Novecento.
C'è una linea di continuità fra l'impegno politico, l'attivismo messo in campo negli anni Quaranta da questi precursori e i movimenti che irromperanno nel mondo anglosassone due decenni dopo. I temi della rivoluzione nonviolenta e dell'anti-bellicismo marcano però la differenza fra i percorsi antropologico culturali dell'anarchismo anglofono rispetto a quelli dell'omologo sud-europeo e di quello italiano in particolare. Quest'ultimo infatti, attraversato il deserto degli anni Cinquanta dialogando proficuamente con le dissidenze radicali e socialiste, rimane vieppiù legato e assimilabile agli stilemi classici dell'estrema sinistra tardonovecentesca, al suo armamentario ideologico e ai suoi miti (antifascismo militante, rivoluzione tradita, ecc.).
Per tale motivo un focus sul movimento anarchico italiano negli anni Settanta-Ottanta, effettuato sotto il prisma monotematico della violenza, illuminante benché passibile di effetti distorsivi, ci induce a collocare la nostra narrazione all'interno della galassia extraparlamentare di sinistra.
La mappa si rivela complessa: perché tutto non può essere ridotto alla categorizzazione «pacifisti» versus «rivoluzionari»; perché il tasso di radicalità che si riscontra nelle prassi anarchiche non è quasi mai connesso alla propensione all'azione violenta terroristica.
Nella dizione «Movimento anarchico italiano» si comprendono, oltre ai gruppi autonomi (cioè non-federati), le sigle delle organizzazioni costituite in ambito nazionale: la Fai (Federazione anarchica italiana), fondata nel 1945; i Gia (Gruppi di iniziativa anarchica), scissione anti-organizzatrice del 1965; e i Gaf (Gruppi anarchici federati) attivi come tali nel 1970-1978 e poi presenti come area culturale.
Allo stesso tempo, nel crogiolo di quei decenni, si individuano i tre anarchismi contemporanei, che grossomodo corrispondono alle aree politiche e antropologiche differenziate del libertarismo: una «ufficiale» incarnata dalla Fai; l'altra di riflessione teorica, caratterizzata da un dinamismo editoriale e culturale notevole; la terza infine, inafferrabile e sulla bocca di tutti, quella «anarco-insurrezionalista».

“Dinamitardi da strapazzo”

Nel dibattito si individuano gli snodi decisivi dell'anarchismo nei cosiddetti «anni di piombo». E si deve tenere conto però della compresenza di due fattori costitutivi che sempre alimentano fenomeni o terroristici o ascrivibili alla categoria della violenza politica: l'esistenza di una componente partecipativa genuina spontanea da una parte, l'utilizzo a fini di provocazione degli apparati dello Stato dall'altra.
Nel convulso lasso di tempo che va dal 1968 ai primi anni Settanta si consuma il rapporto tra anarchici e galassia extraparlamentare, passando prestissimo da contiguità e sintonia alla totale incomunicabilità.
All'autunno caldo e alla stagione dei movimenti si giustappone quella di un terrorismo diffuso. Nel 1969 si verificano in Italia 145 attentati; 96 di questi sono qualificabili, per il tipo di obiettivo colpito, per la rivendicazione o per l'identificazione degli autori, di marca fascista. Gli altri, sebbene ascrivibili ad un medesimo disegno, appaiono di origine incerta; mentre infiltrati, servizi e provocatori lavorano alacremente alla confezione delle trame, rimestando nel torbido. Per le bombe del 25 aprile alla Fiera di Milano, che causano feriti non gravi, sono accusati gli anarchici; segue una campagna di mobilitazione, con scioperi della fame e proteste clamorose, per reclamare l'innocenza degli arrestati (che poi saranno assolti).
Lo scontro generazionale si acuisce. I giovani spingono per inserirsi nel grande movimento di rivolta in atto in Europa. La Fagi (Federazione anarchica giovanile italiana) contesta gli «anziani» minacciando di staccarsi dalla Federazione qualora non si adotti una linea più rivoluzionaria, e critica la «prudente» gestione redazionale di «Umanità Nova». La Fai risponde da una parte riconoscendo l'esigenza del rinnovamento, dall'altra mettendo in guardia le strutture federali dalle possibili infiltrazioni di provocatori prezzolati e «dinamitardi da strapazzo».
Dopo il 12 dicembre il movimento ripiega su posizioni difensive impegnandosi in una campagna per la verità sulla strage di Piazza Fontana e sulla morte di Pinelli «suicidato» in questura, per la scarcerazione di Valpreda e degli anarchici detenuti. Il che comporta: una chiusura verso quei gruppi ritenuti sospetti o velleitari; la costituzione di un comitato d'intesa fra le componenti federate (Fai, Gia e Gaf), il Cnpvp (Comitato nazionale pro vittime politiche), Croce nera anarchica, Comitato politico giuridico di difesa. Ciò per rispondere ai continui tentativi di provocazione e infiltrazione messi in atto da fascisti e polizia.
Nel 1969-1971 si concentra il massimo del ricambio generazionale e, a fronte di questo repentino mutamento di pelle, per i «vecchi» si pone brutalmente la questione del controllo. Tanto più che nell'immaginario giovanile libertario ormai si è fatta strada la convinzione che la redazione di «Umanità Nova» sia «un covo di riformisti».
Nell'immaginario poliziesco invece lo schema interpretativo è: «idealisti» versus «violenti». Il ministero dell'Interno disegna un quadro allarmistico dell'ordine pubblico in Europa: anarchici francesi che effettuano stage di formazione politica in Italia; anarchici italiani coinvolti in attentati a Zurigo; anarchici spagnoli appartenenti al famigerato Grupo Primero de Mayo in procinto di rapire diplomatici di paesi occidentali.
Il X Congresso della Fai (Carrara, aprile 1971) evidenzia le questioni politiche aperte: sulle concezioni del programma malatestiano; sul rifiuto dei metodi autoritari delle avanguardie; sul rifiuto della violenza come sistema di negazione-costruzione rivoluzionaria e della sua accettazione come extrema ratio. Su quest'ultima insidia teorica si invischia il gruppo «Durruti» di Firenze, cui è affidata la Cdc (Commissione di corrispondenza), dichiarando di appoggiare la Raf (Rote Armee Fraktion), avallandone le posizioni e ritenendole compatibili dal punto di vista libertario. Le posizioni guerrigliere del «Durruti», appoggiate dal gruppo siciliano «La Sinistra Libertaria», non hanno però seguito nella Fai.
Per le elezioni politiche del 1972 un convegno generale del movimento ribadisce, dopo la candidatura-protesta di Valpreda promossa da «Il Manifesto», la posizione astensionista di sempre con il fermo proposito però di continuare la lotta per la liberazione di Valpreda e compagni. Se contro la montatura statale poliziesca non servirà la guerriglia, neppure saranno utili – si afferma – il voto e le «manovre del Manifesto». Si acuisce così la crisi di rapporti con la sinistra extraparlamentare.

Assimilazione mediatica tra anarchismo e terrorismo

Le piazze sono intanto incandescenti. Con l'ascesa elettorale del Msi (Movimento sociale italiano) la sinistra extraparlamentare si radicalizza e lancia la parola d'ordine dell'antifascismo militante. A Pisa il giovane anarchico Franco Serantini è colpito a morte dalla polizia proprio mentre manifesta contro un comizio del Msi.
A Milano è ucciso il commissario Luigi Calabresi (la responsabilità dell'omicidio sarà addossata, dopo un lungo iter processuale, ai vertici di Lotta Continua).
Nel terzo anniversario di Piazza Fontana tutte le manifestazioni indette dagli anarchici e dai gruppi extraparlamentari sono messe sotto controllo preventivo dalle forze di polizia attraverso pedinamenti, intercettazioni telefoniche e dossieraggio. Il bilancio della giornata del 12 dicembre 1972 è preoccupante: bomba a un comizio antifascista a Napoli con tre feriti, incidenti a Roma, Genova e Milano. Tira aria di provocazione.
Il 17 maggio 1973 Gianfranco Bertoli, figura controversa di anarchico individualista, lancia una bomba davanti alla questura di Milano causando quattro morti e 45 feriti fra i passanti. L'intenzione sarebbe stata quella di attentare alla vita del ministro dell'interno Rumor, lì presente fino a poco prima per commemorare Calabresi. Fai, Gia e Gaf condannano l'attentato e dichiarano che Bertoli non ha mai fatto parte del movimento anarchico organizzato. In sede giudiziaria sarà poi individuato il mandante della strage nella sigla neofascista Ordine Nuovo, senza però infliggere condanne alle persone coinvolte.
Nel 1974, con la strage di Brescia e l'attentato al treno Italicus, si giunge al culmine di una situazione definita dal Ministro dell'Interno Taviani «somigliante a quella del Cile prima dell'avvento di Pinochet». Si realizza anche una grossa mobilitazione per Giovanni Marini, condannato a dodici anni di carcere «per antifascismo», in realtà per l'uccisione del neofascista Carlo Falvella avvenuta durante una colluttazione (a Salerno nel luglio 1972). La parola d'ordine è: difendersi dai fascisti non è reato!
L'anarchismo dei primi anni Settanta rafforza le tradizionali campagne antifasciste in Italia e in ambito internazionale (Spagna, Portogallo, Cile, Grecia).
Nel corso dell'XI congresso della Fai, quando il giovane delegato iberico interviene per esprimere solidarietà ai rivoluzionari baschi che hanno appena «giustiziato» Carrero Blanco l'assemblea risponde con un'ovazione. I destini della Spagna, e il mito rivoluzionario del 1936, permangono nel patrimonio emozionale dei libertari. Del resto nella lunga storia della lotta clandestina antifranchista c'è anche una tradizionale consolidata partecipazione personale e diretta di militanti italiani.
Mentre la campagna sulla «strage di Stato» tiene ancora banco, la contingenza sociale, le condizioni del «proletariato giovanile» e una certa irrequietezza culturale creano i presupposti per lo sviluppo gioioso del cosiddetto movimento del Settantasette, spinta al rinnovamento dalle conseguenze durature. La Fai aderisce al «Convegno sulla repressione» indetto a Bologna nei giorni 22-24 settembre 1977.
Le ragioni di una siffatta mobilitazione internazionale risiedono nella denuncia degli «accordi di potere con la Dc» perpetrati dalle amministrazioni locali di sinistra, nella volontà di contrastare «autoritarismo e oscurantismo staliniano incarnato dal Pci e dal Sindacato di Stato». Nel capoluogo emiliano va in scena la sfida all'establishment democristiano-comunista. Gli anarchici, che partecipano con un lungo spezzone al corteo che si snoda irridente e trasgressivo in città, sono la cerniera fra l'ala creativa e i nuovi gruppi di Autonomia.
Il fronte libertario della lotta assume dimensioni europee mentre si sviluppano anche situazioni di adesione all'area del lottarmatismo. Quando muoiono tragicamente nelle carceri tedesche gli esponenti della Raf Andreas Baader, Gundrun Ensslin e Jan Carl Raspe, la Crifa (Commissione di relazioni dell'Internazionale delle federazioni anarchiche) emette un comunicato di denuncia verso l'assimilazione mediatica fra terrorismo e anarchismo. Da una parte si protesta contro un «assassinio di Stato»; dall'altra si riafferma la propria posizione critica contro la pratica ideologica marxista leninista della Raf, contro la violenza d'avanguardia.

Decomposizione/ricomposizione delle forze radicali

Il XIII Congresso della Fai (30 agosto - 4 settembre 1977), vota un importante documento su lotta armata e insurrezionalismo.

«[...] Il fatto è che da alcuni anni a questa parte sono sorte, da parte di alcune frange della sinistra extraparlamentare, delle proposte (e delle pratiche) tendenti a rifondare il significato della lotta armata. Queste proposte, così come vengono formulate dalla gran parte dei gruppi che le praticano, partono da un'errata valutazione politica della fase stessa, incapace di cogliere i reali rapporti di forza esistenti e quindi la permanenza di notevoli possibilità di lavoro politico e organizzativo tra la classe [...] L'obiezione secondo la quale l'estensione odierna di pratiche di lotta armata starebbe a dimostrare il successo di tale strategia, nei fatti non sta in piedi. Se successo vi è, oggi è quello del capitale e dello Stato [...]».

Il marzo 1978 – con il rapimento brigatista di Aldo Moro in atto – ha il suo principale momento di confronto nel III congresso dell'Ifa cui partecipano oltre cinquecento delegati e osservatori da venti paesi (Europa occidentale e dell'est, America latina, Australia, Giappone...). Nell'occasione il collettivo Living Theatre rivolge un appello affinché il consesso conduca il movimento anarchico all'approntamento di efficaci «mezzi non violenti», gli unici capaci di sconfiggere i modelli di violenza di cui l'umanità è schiava.
Nel merito il congresso internazionale – mentre ribadisce che «il diritto, individuale e collettivo, all'insubordinazione, alla rivolta e all'insurrezione è imprescrittibile e non codificabile in quanto fatto naturale e spontaneo» – afferma il rifiuto malatestiano di quelle «forme d'azione politica fondate sulla violenza cieca e non necessaria, sull'assenza di rispetto della dignità umana degli stessi nemici, e più ancora dei neutrali e degli innocenti».
Ideologie modernizzanti e attori sociali inconsueti, esito dell'azione dirompente che si promana dai mutati scenari geopolitici mondiali, si affacciano sulla sfera pubblica marcando discontinuità.
Gli Ottanta – sotto il carisma universale di Reagan, Wojtyla e Thatcher – sono anni della transizione e del congedo definitivo dal passato. L'Occidente si resetta. Il contesto politico culturale conduce alla decomposizione/ricomposizione delle forze radicali e a nuove forme di antagonismo che – dopo quelle di generazione, classe e genere dei decenni precedenti – si orientano ora su ambiente e territorio.
In questa fase di transizione la «Critica armata libertaria», ai margini dell'anarchismo sociale organizzato, trova la sua espressione tra gli ultimi fuochi ereditati dagli anni Settanta e il delinearsi successivo di un nuovo fronte ecologico e antinucleare.
La genealogia storica dell'anarco-insurrezionalismo contemporaneo in Italia, ovvero la vulgata mediatico-poliziesca, si racchiude all'interno di un ciclo intenso e ben individuato. Ci sono i miti guerriglieri guevaristi, a cui si attribuisce una linea di continuità con la protostoria, «illegalista-violentista» e di azione diretta, dei movimenti libertari. C'è la notevole esperienza pubblicistico editoriale che fa capo alla rivista «Anarchismo» e all'intellettuale Alfredo Maria Bonanno. Ci sono infine la caduca vicenda di Ar (Azione rivoluzionaria) e i prodromi del cosiddetto «eco-terrorismo».
Per quanto riguarda Ar sarà la medesima rivista a farle da portavoce, pubblicandone un corposo documento intitolato Contributo per un progetto rivoluzionario libertario nel quale si precisano i compiti dell'organizzazione clandestina:

«[...] Costituire teste di ponte in fabbrica per colpire il cuore del capitale e del nascente Stato-Partito è il compito primario che sta di fronte alle organizzazioni combattenti in questa fase, se esse vogliono operare finalmente quella saldatura fra la lotta allo sfruttamento e la lotta anti istituzionale. La guerriglia in fabbrica non potrà essere innestata che dalle organizzazioni clandestine [...]».

Antimilitarismo ed ecologismo

Nel corso del 1979 la questione della lotta armata in ambito anarchico torna in ballo con il processo di Parma contro Ar, conclusosi con pesanti condanne.
Le indagini di polizia si ampliano in tutto il paese concentrandosi su Torino (dove è stato ferito il giornalista de «L'Unità» Nino Ferrero), su Livorno (dove vi è stato il tentato sequestro dell'armatore Tito Neri), su Firenze, Pisa, Lucca, Parma e Roma. Nel contempo un'ondata di arresti e perquisizioni effettuate a scopo antiterroristico colpisce, con intenti di criminalizzazione, militanti impegnati nei vari movimenti di lotta.
Il procuratore Pier Luigi Vigna apre la Caccia in tutta la Toscana (così titola «La Repubblica» del 29 marzo 1979), mentre si indica come capo dell'organizzazione terroristica il professore universitario genovese, latitante, Gianfranco Faina e si cercano possibili legami con la Raf tedesca e, in Italia, con Prima Linea. «Umanità Nova» interviene per ribadire le note posizioni della Fai sulla lotta armata ma anche per denunciare la prassi scorretta di coinvolgimento messa in atto da Ar. Allo stesso tempo denuncia la montatura poliziesca e solidarizza con gli anarchici arrestati e detenuti.
Sull'effimera storia di Ar – riconducibile a un arco temporale ristretto fra il 1977 e il 1979 – scrive «Crocenera»:

«È quasi superfluo notare che Azione Rivoluzionaria fu sempre un aggregato occasionale, cioè senza una struttura stabile ben definita, e che venne formalmente sciolta, come esperienza, nel 1979, dopo che s'era sciolta di fatto già nel 1978. Nondimeno, con il pretesto di quegli episodi, le sanzioni penali sono state volutamente spropositate sia per i protagonisti di allora che per tutti i compagni successivamente arrestati e dichiaratamente anarchici e libertari. Spropositate, s'è detto, ma spesso anche giuridicamente infondate e chiaramente pretestuose [...]».

Antimilitarismo ed ecologismo, specie dopo il disastro di Chernobyl, sono le battaglie del nuovo decennio. A Forlì, nel maggio 1988, la rivista «Senzapatria» organizza l'incontro Ripensare l'antimilitarismo. È l'occasione per evidenziare le diversità esistenti di prassi e di approccio teorico nella vasta area libertaria.
Violenza e nonviolenza sono la cifra di una discussione complessiva che mette in luce i contrasti fra le tre principali tendenze presenti: il pacifismo non anarchico di «Azione Nonviolenta», la Fai, i non federati dell'area di «Anarchismo».
Nell'ambito dell'ecologismo radicale è emersa intanto, a livello europeo, la figura simbolo dell'anarchico svizzero attivista antinucleare Marco Camenisch, protagonista di clamorose azioni dirette ambientaliste fin dagli anni Settanta. Sul piano teorico si è anche sviluppata, a partire dal milieu accademico statunitense, una coinvolgente riflessione e una vera e propria scuola di pensiero ispirata all'ecologia sociale di Murray Bookchin, che correla le tematiche ambientali a quelle politiche e dell'assetto della società.
La Val Bormida, dove si profonde – sul finire degli Ottanta – un forte impegno nella lotta popolare contro un inquinamento ambientale gravissimo, conseguenza diretta di attività produttive dissennate e incontrollate messe in atto dalla famigerata Acna di Cengio, è tra i primi banchi di prova. Nell'occasione la grande stampa, in costanza di tensioni politiche ed elettorali che attraversano il paese, di forti mobilitazioni territoriali e anche di alcuni attentati con danni materiali a tralicci e impianti industriali, conia – allo scopo di ridefinire in termini criminali un fenomeno di opposizione sociale – l'espressione onnicomprensiva e impropria di «ecoterrorismo».

Giorgio Sacchetti

Questo articolo è la sintesi di quanto pubblicato dall'autore sul «Giornale di Storia Contemporanea», vol. 1/2018 (XXII), pp. 121-148, con il titolo Anarchici e lotta armata in Italia (1969-1989).