Rivista Anarchica Online





Dialogo con i non umani

Inizio questa puntata della mia rubrica scusandomi per la lunga assenza da queste pagine, che da una parte è dovuta ai troppi impegni, dall'altra è legata a una consapevolezza sempre più forte in me, che è quella che scriviamo troppo. Camminando in un bosco dovremmo domandarci se le nostre parole valgono più dei meravigliosi alberi che ci circondano. Per quanto mi riguarda penso che rispetto a molte cose che ho scritto forse sarebbe stato meglio preservare gli amici alberi.
Per questo ho deciso di prendere una penna in mano solamente quando lo ritengo necessario e non per delle scadenze fisse, ed eccomi qua a parlare di qualcosa che si muove proprio dalla critica al nostro modo antropocentrico di vedere e stare nel mondo.
Sempre più frequentemente l'antropologia culturale si occupa di studiare i viventi non umani, ovvero della lettura delle specie animali e vegetali, degli agenti atmosferici e dell'ambiente in senso lato, nella sua variabilità culturale. In realtà, da sempre negli studi di antropologia culturale c'è stato un interesse per la sfera del non umano come aspetto della cultura.
Negli ultimi anni però, grazie ad autori come Philippe Descola, Tim Ingold, Bruno Latour ed Eduardo Viveiros de Castro, siamo davanti alla cosiddetta “svolta ontologica”: la relativizzazione della dicotomia natura/cultura, vista non più come fondamento universale e imprescindibile, ma piuttosto come fatto culturale a sua volta, caratteristico di alcuni contesti e non di altri, alternativo al naturalismo occidentale. Ci troviamo finalmente davanti a studi che si occupano di una rilettura critica dell'antropocentrismo, un pensiero antispecista. La “svolta ontologica” ci propone di non pensare più alle differenze come a differenze di soggetto, quindi a differenze tra diverse rappresentazioni del mondo, bensì a differenze appunto ontologiche, perché non esistono soggetti ma prospettive.

La copertina di
Dialoghi con i non umani

Una mediazione continua

Il lavoro dell'antropologo non sarebbe più quello di interpretare ciò che incontra sul campo alla luce delle categorie scientifiche occidentali che ci vengono insegnate all'interno dell'istituzione scuola, dove per lo più avviene un mero scambio economico e di potere gerarchico, ma di entrare nei mondi “altri”, sconosciuti alla nostra esperienza, che si incontrano sul campo.
Non più «noi» che interpretiamo «loro», ma loro che ci trasformano, che minano le nostre certezze etnocentriche. Il campo non è un'entità già data che attende di essere studiata e scoperta dall'antropologo. L'oggetto di studio dell'antropologo non è un dato pronto per essere osservato e l'antropologo non può essere in nessun caso un osservatore neutro, questo non significa che bisogna fondersi nella relazione con l'oggetto di studio o accoglierne tutte le istanze. La conoscenza antropologica è un lavoro di mediazione che comincia dal campo, da lì inizia un lavoro simbolico di costruzione di senso, un'interazione discorsiva, una negoziazione di punti di vista tra differenze e somiglianze culturali.
Sono in molti anche a pensare che la stessa parola «cultura» ormai sia superata e che debba essere sostituita da mondi plurali e da ontologie multiple, reali quanto la «nostra» ontologia, nella quale però la natura è una e identica per tutte le differenti culture. Prendere sul serio le culture indigene vuol dire cioè assumerle come mondi, con le loro leggi e le loro realtà.
Negli ultimi mesi in Italia è uscito un lavoro che proprio di queste tematiche si occupa, curato dagli antropologi Emanuele Fabiano e Gaetano Mangiameli, dal titolo Dialogo con i non umani (Mimesis, 2019). In questa raccolta di saggi etnografici le autrici e gli autori ci illustrano scorci di mondi “lontani” in cui i non umani condividono una condizione umana originaria, dialogano con la controparte umana e operano con autorevolezza pari o superiore a quella degli umani; in secondo luogo, adottano una prospettiva di seria accoglienza nei confronti della differenza culturale, all'insegna del principio sopra citato del “prendere sul serio l'indigeno”.
Più che fungere da complementi, le relazioni tra umani e non umani sono talmente profonde da risultare costitutive dei primi e dei secondi. Nel saggio di Emanuele Fabiano, antropologo che da anni studia la popolazione Urarina che vive nell'Amazzonia Peruviana, l'autore spiega la relazione inter-specifica che intercorre in questa comunità tra umani e animali; questa relazione produce una configurazione relazionale unica, che possiede implicazioni sul piano corporale, cognitivo e affettivo, attraverso quei modi della percezione che sono capaci di conferire agli umani la possibilità di sentire come un animale e di converso agli animali la facoltà di intendere il linguaggio e le abitudini della famiglia umana di adozione.
La dotazione sensoriale viene acquisita in un contesto eminentemente relazionale, a partire dalla tessitura di relazioni e collaborazioni tra persone umane e non umane, nelle attività che strutturano la vita quotidiana, la caccia, la preparazione degli alimenti e il vivere comune. Siamo davanti a una ontologia relazionale che caratterizza il mondo amazzonico e nella quale né gli umani né i non umani preesistono alle relazioni che li definiscono.
Un soggetto può diventare propriamente umano solo incorporando l'alterità e ciò può avvenire mediante la condivisione di sostanze risultanti dalla convivenza, dalla commensalità e dalla convivialità. Per gli Urarina, con i non umani avviene un coinvolgimento costante all'interno di un processo di creazione mutua, che si perpetua e si rinnova grazie alla trasmissione di sostanze e abitudini tra specie differenti. Si potrebbe affermare allora che le persone non umane e umane si costruiscono mutuamente e vengono quotidianamente modellate dall'azione di altri, processo che consente la costruzione di una comunità di simili, la persona nel mondo urarina viene concettualizzata come risultato di un processo di costruzione possibile attraverso relazioni inter-specifiche.
Per comprendere bene questa tematica ci viene in aiuto Viveiros de Castro quando ci parla di “prospettivismo” in Amazzonia, ovvero quella teoria secondo cui ogni specie di esistenti vede se stessa come umana (anatomicamente e culturalmente), poiché ciò che vede di se stessa è la sua “anima”, un'immagine interna che è come l'ombra o l'eco dello stato umanoide ancestrale di tutti gli esistenti. L'anima è sempre antropomorfa, è l'aspetto degli esistenti che essi vedono quando guardano verso o interagiscono con gli esseri della stessa specie - è questo che, in verità, definisce la nozione stessa di specie.
Per capirci meglio, quando un giaguaro guarda un altro giaguaro, vede un uomo, un indio; ma quando guarda un uomo - quello che gli indios vedono come un uomo - vede una scimmia, poiché è la selvaggina più apprezzata tra gli indios amazzonici. Così tutto ciò che esiste nel cosmo vede se stesso come umano; ma non vede le altre specie in quanto tali. L'umanità è sia una condizione universale sia una prospettiva strettamente deittica e autoreferenziale.
Quindi per gli amerindi gli animali non sono umani, ma non sono umani per loro, e sanno allo stesso tempo che loro non sono umani per gli animali che tra loro si vedono come umani. Ecco perché ogni interazione inter-specifica nel mondo amerindio è un affare internazionale, una negoziazione diplomatica o un'operazione di guerra che deve essere condotta con la massima circospezione. È per l'appunto cosmopolitica.
Credo che sia sempre più urgente rompere la cornice concettuale dualistica e antropocentrata nella quale siamo incastrati; umano non deve essere il modello paradigmatico di ogni manifestazione appresa, comunicata e condivisa. Parliamo di una ontologia relazionale nella quale nulla, né gli umani né i non umani, preesistono alle relazioni che li costituiscono.

Andrea Staid