Rivista Anarchica Online


dibattito

Gandhi e l'anarchia

di Ivan Bettini

Ci sono comuni sensibilità tra i due pensieri. Mohandas Karamchand Gandhi (1869 - 1948) è stato uno dei teorici della nonviolenza. Il suo pensiero ha come fine il Sarvodaya, cioè benessere e potere per tutti. In questo scritto si mettono a confronto punti di contatto e differenze. Secondo l'autore, Gandhi potrebbe essere definito anarchico. Secondo noi, no. Il dibattito è aperto.


Diciamo subito che né Gandhi né i suoi più stretti collaboratori e continuatori della sua opera si sono mai dichiarati anarchici. Il termine da loro utilizzato per definire il proprio pensiero e la propria azione è infatti Sarvodaya, che significa “potere e benessere di tutti”. È vero però che, come ha fatto acutamente osservare Geoffrey Ostergaard in un pionieristico articolo pubblicato su “Anarchy” nel 1964, “una rosa è una rosa è una rosa”. Vista da vicino, la dottrina del Sarvodaya appare chiaramente come una species del genus anarchico1. Non a caso Gandhi e i suoi collaboratori furono spesso definiti “anarchici” – in senso spregiativo – dai loro critici e detrattori, britannici e indiani.

Ahmedabad (India) - Un monumento a Gandhi
foto di Belyaev71/Depositphotos.com

Affinità tra Sarvodaya e anarchismo

Il terreno comune tra il Sarvodaya e l'anarchismo occidentale “classico” – quello, per intenderci, di Godwin, Proudhon, Bakunin, Kropotkin e Malatesta – è in effetti molto vasto.

1. Gandhi e i gandhiani condividono con gli anarchici la critica dello Stato – definito “violenza concentrata e organizzata” – e l'obiettivo di sostituirlo con forme di autogoverno e cooperazione volontaria tra liberi individui. L'ideale è per Gandhi, come per Proudhon, una “illuminata e ordinata anarchia”, in cui “ciascuno governa sé stesso, e governa sé stesso in modo tale da non costituire un ostacolo per il proprio prossimo”2.

2. Gandhi e gli anarchici concordano inoltre sul fatto che il dovere supremo di ogni individuo sia quello di obbedire alla propria coscienza, e che quest'obbligo morale sia superiore all'obbligo politico di obbedire alle leggi dello Stato.

3. Gandhi condivide poi con gli anarchici quella peculiare teoria del potere secondo la quale i sistemi politici e sociali di natura gerarchica e oppressiva esistono e si mantengono a causa della più o meno volontaria sottomissione, cooperazione e obbedienza da parte del gruppo subordinato. Questa “teoria della servitù volontaria” vale per Gandhi sia nella sfera politica – “Nessun governo potrebbe resistere se il popolo cessasse di obbedirgli” – sia in quella economica – “I ricchi non potrebbero accumulare ricchezze senza la collaborazione dei poveri”.

4. Gandhi e gli anarchici convergono anche nell'individuare le condizioni necessarie affinché una società di individui liberi e eguali possa davvero realizzarsi e mantenersi.
La prima di queste condizioni è l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione: “Le risorse materiali necessarie per vivere dovrebbero essere liberamente disponibili a tutti come lo sono, o dovrebbero essere, l'aria e l'acqua di Dio”. Di conseguenza, “i mezzi di produzione di tali risorse saranno sotto il controllo democratico delle masse”.
Una seconda condizione, alla prima strettamente correlata – cara tanto a Gandhi quanto a Kropotkin – è l'abolizione della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, e il riconoscimento della dignità del lavoro compiuto con le proprie mani.
La terza condizione, infine, è la decentralizzazione: se si vuole evitare la tirannia, in tutte le sue forme, il potere deve essere diffuso. L'unità di base dell'organizzazione sociale deve avere dimensioni tali da consentire la partecipazione diretta di tutti gli individui che ne fanno parte. Essa deve essere completamente autonoma per quanto riguarda gli affari interni, e collegata su basi federali con le altre unità di base per cooperare alla soluzione dei problemi comuni. Questa decentralizzazione politica implica poi la decentralizzazione economica. Ogni unità di base o federazione di unità di base dovrebbe costituire una comunità autosufficiente (che non significa chiusa), almeno per quanto riguarda il soddisfacimento dei bisogni fondamentali.

5. Nella scelta degli strumenti da adottare per raggiungere il Sarvodaya, i gandhiani condividono la critica tradizionalmente mossa dagli anarchici ai partiti politici e alla politica parlamentare. I partiti sono “macchine per la conquista del potere statale”, la cui natura è intrinsecamente violenta e tendenzialmente totalitaria. Per questo Gandhi propose più volte, senza successo, ai militanti dell'Indian Congress Party di sciogliere il partito e di diffondersi nei settecentomila villaggi dell'India rurale per costruire dal basso, attraverso un paziente lavoro di istruzione e coscientizzazione, un nuovo ordine economico e sociale.
Come gli anarchici, anche i gandhiani sono dunque sostenitori dell'azione diretta. Il popolo deve diventare consapevole della propria forza, e imparare ad autorganizzarsi e a risolvere da solo i propri problemi. La rivoluzione può essere fatta solo dal basso, e non dall'alto.

6. Troviamo infine in Gandhi un tema – quello dell'antispecismo e della liberazione animale – che era marginale nell'anarchismo “classico” (anche se erano animalisti ante litteram Lev Tolstoj, Élisée Reclus e Erich Mühsam) ma è diventato centrale in quello contemporaneo.
Sulla base dei principi secondo cui “è nostro dovere comportarci nei confronti degli animali come se la loro vita fosse ad essi altrettanto cara quanto lo è la propria agli esseri umani” e “quanto più una creatura è indifesa, tanto più essa ha diritto ad essere protetta contro la crudeltà degli uomini”, Gandhi era vegetariano, contrario alla caccia e alla vivisezione3.

Differenze tra Sarvodaya e anarchismo

Le affinità tra Sarvodaya e anarchismo occidentale sono dunque numerose. Non mancano ovviamente le differenze. Le principali riguardano l'atteggiamento di Gandhi nei confronti della religione, il suo radicale ascetismo, l'opposizione alla dottrina della lotta di classe e il rifiuto della violenza come strumento di azione politica.

1. Per quanto riguarda l'atteggiamento nei confronti della religione, la stragrande maggioranza degli anarchici occidentali – sulle orme di Bakunin – ha accompagnato alla critica dello Stato una altrettanto feroce critica della religione, considerata strumento di istupidimento e sottomissione delle masse. Anarchismo e ateismo sono storicamente gemelli.
Il Sarvodaya gandhiano è invece profondamente religioso:
“Tutte le parole che ho pronunciato e tutte le azioni che ho compiuto nei lunghi anni della mia vita pubblica sono scaturite da una sincera esigenza religiosa”. Bisogna però riconoscere che la religiosità gandhiana è aperta e aliena da ogni fanatismo e “spirito missionario”. Religione significa infatti per Gandhi ricercare appassionatamente Satya (la verità) – termine che egli utilizza in modo interscambiabile per definire Dio, l'unità di tutte le cose e ciò che è buono e giusto – e agire con compassione e benevolenza nei confronti di tutti gli esseri viventi: “Quanto più è estesa la compassione nella vita di un essere umano, tanto maggiore è in essa la religiosità”. La religione non è dunque per Gandhi una questione di “ortodossia” ma di “ortoprassi”.

2. È vero che anche tra gli anarchici occidentali ci sono (e ci sono sempre stati) pauperisti e puritani. Ma l'ascetismo di Gandhi e degli attivisti del Sarvodaya è molto più radicale, e ben pochi anarchici occidentali sarebbero disposti a condividerlo.
L'ideale gandhiano richiede infatti di rinunciare ad ogni bene materiale che non sia strettamente necessario (aparigraha); di limitare il consumo di cibi e bevande alla quantità minima richiesta dal buon funzionamento del proprio corpo e della propria mente (aswad); di praticare la castità (brahmacharia)4. Soprattutto quest'ultimo principio appare del tutto estraneo alla tradizione anarchica occidentale, che ha invece posto l'accento sul libero amore e l'esercizio gioioso della sessualità.

3. Rispetto alla dottrina della lotta di classe, possiamo dire – semplificando (ma non troppo) – che il movimento anarchico occidentale, nelle sue componenti maggioritarie, ha generalmente condiviso con i marxisti la visione materialistica della storia, l'analisi della società capitalistica, sia pure con una minore enfasi sul ruolo “messianico” del proletariato industriale, e l'appello alla lotta di classe.
Gandhi invece rifiutò sempre l'idea che la polarizzazione tra le classi fosse materialisticamente determinata e storicamente necessaria, e che dovesse sfociare inevitabilmente in una “guerra di classe” tra sfruttati e sfruttatori. Egli coltivò per tutta la vita la convinzione – che a noi appare in verità piuttosto ingenua – secondo la quale i capitalisti, cioè uomini che si sono arricchiti sfruttando gli altri (Gandhi stesso riconosce che “l'accumulazione del capitale è impossibile senza l'impiego di mezzi violenti”) potessero “convertirsi” e rinunciare volontariamente ai propri privilegi. Il rifiuto della dottrina della lotta di classe non fa però di Gandhi un difensore dello status quo a favore delle classi capitalistiche. Alcune delle più importanti campagne di non-collaborazione da lui condotte furono in effetti proprio volte a rivendicare gli interessi dei lavoratori contro quelli dei capitalisti, britannici e indiani5.

4. Per quanto riguarda infine l'utilizzo della violenza come strumento di lotta politica, è curioso osservare come nell'immaginario popolare sopravviva la figura dell'anarchico incendiario e dinamitardo, fanatico assassino di presidenti, monarchi e principesse. Si tratta di uno stereotipo che risale ad un particolare periodo storico – l'ultimo decennio dell'Ottocento – durante il quale alcune individualità anarchiche, in risposta alla violenza delle istituzioni, compirono attentati che ebbero una vasta eco in tutto il mondo.
In realtà, i movimenti anarchici hanno giustificato e praticato la violenza come strumento di lotta politica in poche e ben delimitate circostanze, principalmente in situazioni caratterizzate dalla necessità di difendere le conquiste rivoluzionarie dalle forze della reazione, come nell'Ucraina del 1918-1920 e nella Spagna del 1936-1939. Oppure in situazioni in cui hanno ritenuto – spesso peccando di ottimismo – che le condizioni per una insurrezione popolare fossero mature, e che il ruolo degli anarchici fosse quello di dare l'esempio attraverso quella che veniva definita “propaganda del fatto”. Caso tipico, la sfortunata “banda del Matese”.
Il Sarvodaya gandhiano è invece integralmente nonviolento.
Gandhi infatti rifiuta il ricorso alla violenza come strumento di lotta politica per tre ordini di motivi.
In primo luogo perché lo ritiene contrario a quella che egli considera la legge religiosa e morale fondamentale, la quale richiede di riconoscere l'unità di tutti gli esseri viventi e di agire nei loro confronti con benevolenza e compassione.
In secondo luogo (e soprattutto) perché considera la violenza un mezzo inefficace e contraddittorio rispetto al fine del Sarvodaya, ovvero la creazione di una società dove il potere e il benessere sono di tutti. La conduzione prolungata e organizzata di una lotta violenta conduce infatti, per sua logica interna, a concentrare il potere nelle mani di pochi individui (generalmente di sesso maschile) di tendenze autoritarie, e alla creazione di strutture di carattere militare, fondate sulla gerarchia, l'indottrinamento, la disciplina. Queste strutture tendono poi inevitabilmente a istituzionalizzarsi e a perpetuarsi anche oltre la fase rivoluzionaria. Come ci ha insegnato la tragica storia del Novecento, con le tante rivoluzioni condotte in nome della giustizia e della libertà trasformatesi in feroci dittature, la violenza può dunque a volte essere uno strumento di lotta efficace per conquistare il potere, ma non per instaurare e mantenere una società di liberi e eguali: “Non si può ottenere una rosa piantando gramigna”.
Infine Gandhi rifiuta il ricorso alla violenza perché convinto di aver individuato e sperimentato un metodo di lotta non solo moralmente più elevato ma anche politicamente più efficace.
Questo metodo di lotta – il Satyagraha (fermezza nella buona causa, fermezza nella verità) – consiste in una articolata strategia di conduzione dei conflitti basata su ben organizzate campagne di non-collaborazione, nel corso delle quali è possibile far ricorso a un ricco “arsenale” di tecniche, che vanno dalle marce di protesta allo sciopero, dal boicottaggio al sabotaggio, dalla disobbedienza civile alla creazione di comunità autonome sottratte al controllo statale6.

Gandhi durante la marcia del sale, marzo 1931

Anarchismo indiano

Queste differenze tra Sarvodaya e anarchismo occidentale vanno a mio parere ricondotte al fatto che, nonostante l'influenza che pensatori come John Ruskin, Lev Tolstoj e Henry David Thoreau hanno avuto sulla formazione di Gandhi, e nonostante la sua sia senza dubbio una “identità plurale”, prodotto di una circolarità continua tra Oriente e Occidente7, il Sarvodaya rappresenta una forma originale e autonoma di anarchismo, profondamente radicata nella società e nella cultura indiana.
La teoria e la pratica del Sarvodaya costituiscono infatti per Gandhi e i suoi collaboratori il punto di arrivo di un graduale percorso di scoperta e approfondimento – attraverso una feconda dialettica tra pensiero e azione – delle implicazioni sociali, politiche ed economiche del tradizionale principio della ahimsa (termine sanscrito composto dal prefisso a, che significa “non”, e himsa, che significa “volontà di nuocere o uccidere”).
Nella cultura tradizionale indiana l'ahimsa rappresentava un principio etico-religioso per l'autorealizzazione dell'individuo, ovvero per l'emancipazione dai legami terreni e la liberazione dal ciclo delle nascite (moksha). Il grande contributo di Gandhi e dei suoi collaboratori alla teoria e all'azione politica è stato quello di averlo trasformato in un principio di etica collettiva, e di aver sostenuto e sperimentato la possibilità di praticarlo in tutte le sfere della vita sociale. Praticare l'ahimsa non significa tanto astenersi dalla violenza quanto combattere attivamente la violenza in tutte le sue forme. Il seguace dell'ahimsa non è dunque un amante del quieto vivere ma un contestatore permanente: “Nessuno potrebbe essere attivamente nonviolento e non insorgere contro l'ingiustizia sociale in qualsiasi luogo si manifesti”.

Confrontarsi criticamente

Riprendendo la provocatoria intuizione di Ostergaard possiamo dunque concludere che Gandhi era anarchico, e che il Sarvodaya è un'originale forma di anarchismo, di radici indiane ma di significato e portata potenzialmente universale, con la quale è utile continuare a confrontarsi criticamente. Accanto a elementi discutibili e caduchi presenta infatti spunti di riflessione che conservano intatta la loro attualità.

Ivan Bettini
ivan.bettini@retecivica.milano.it

  1. Geoffrey Ostergaard, Indian Anarchism, in “Anarchy: a journal of anarchist ideas”, n. 42, August 1964.
  2. Le citazioni da Gandhi sono tratte da Teoria e pratica della non-violenza; a cura e con un saggio introduttivo di Giuliano Pontara, nuova ed. Einaudi, Torino 1996, La mia vita per la libertà, Newton Compton, Roma 1988, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1963.
  3. Luisella Battaglia, Alle origini dell'etica ambientale, Dedalo, Bari 2002, cap. IV “Gandhi: la non violenza come cura fraterna per i viventi”.
  4. Su questi temi di “filosofia pratica” vedi Gandhi, Mohandas Karamchand, Tempio di Verità, Sellerio, Palermo 1988.
  5. Una descrizione sintetica di queste lotte si trova in Torri, Michelguglielmo, Dalla collaborazione alla rivoluzione non violenta, Einaudi, Torino 1975.
  6. Gene Sharp, in Politica dell'azione nonviolenta, vol. II, Le tecniche, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985, cataloga e illustra con esempi storici 198 tecniche di lotta nonviolenta.
  7. Bori, Pier Cesare, Sofri, Gianni, Gandhi e Tolstoj, Il Mulino, Bologna 1985, in particolare la parte prima “Gandhi tra Oriente e Occidente”.