Rivista Anarchica Online




“Droghe”/
Un'opera fondamentale riscatta anni di oscurantismo

A pochi mesi dalla lettura del notevole Piante Psicoattive: studi etnobotanici (Youcanprint, maggio 2019), arriva un'altra, peraltro molto attesa, opera in due volumi firmata da Giorgio Samorini, uno dei massimi esperti a livello internazionale in materia di piante psicoattive e storia delle droghe. Terapie Psichedeliche (Vol. 1 e 2, Shake edizioni, Milano 2019), scritto a quattro mani dall'etnobotanico insieme all'anestesista Adriana D'Arienzo, è un manuale che raccoglie quanto di più significativo sia emerso fino a oggi in materia di terapie mediche e psichiatriche con sostanze psicoattive.
Il primo volume (pp. 332, € 19,00) si sofferma sugli aspetti generali e storici fino al 1971, anno in cui l'ONU, con la mannaia proibizionista di Nixon, sancì il divieto internazionale, durato per trent'anni, di condurre sperimentazioni in materia di psichedelici. Si analizzano la terminologia e le classificazioni delle sostanze con una scrupolosa organizzazione a livello metodologico e concettuale, e i dati delle ricerche ufficiali, intrecciando teoria e storia, sono sempre raffrontati con il corpus delle ricerche “non ufficiali” portate avanti da appassionati e studiosi costretti a muoversi in modi sotterranei. Si parte dalle terapie più antiche come quelle sciamaniche a base di cactus che contengono mescalina (peyote e san pedro), collocate dall'archeologia a partire da 10.000 anni fa, fino ad arrivare agli esperimenti della fine degli anni '60, tra cui inediti studi clinici portati avanti in Italia all'interno di alcuni manicomi, nel trattamento con LSD e altre sostanze di disturbi sessuali, psicosi, depressione e una varietà di patologie minori.
Ma se il primo volume risulta ghiotto per la qualità enciclopedica e il rigore scientifico con cui vengono ricapitolate le terapie del passato, il secondo (pp. 332, € 19,00) si distingue per la quantità degli “studi moderni” assolutamente ignoti ai più, che spalancano lo sguardo su presente e futuro, filtrando una quantità di informazioni anche molto complesse attraverso la scrittura agile e accattivante di Samorini, garanzia di scorrevolezza anche per chi non mastica psichiatria e neuroscienze.
Data la quantità di materiale, gli autori scelgono di selezionare i risultati delle pubblicazioni che non siano viziati da approcci preconcetti, sia dal lato della visione “proibizionista”, che da quella “libertaria”. Allo stesso modo, viene ridotto al minimo l'aspetto “spiritualista”, nella convinzione che l'esperienza mistica non sia un prerequisito indispensabile per un risultato positivo (forse questo l'unico limite della metodologia applicata: sottovalutare il potere sottile di modificazione della coscienza che sottende l'esperienza “psichedelica”, che “rivela la mente”. Per quanto poi gli autori riconoscano che sia una scelta metodologica e che, in alcuni casi, “le qualità neurobiologiche e quelle psichedeliche siano indivisibili nella comprensione dei benefici terapeutici”).
Ciò che colpisce di più dei nuovi studi, però, è il fatto che l'approccio fenomenologico sia inscindibile dall'approccio neurologico, dove per neuroscienza si intende lo studio dei rapporti tra le attività del sistema nervoso e il comportamento umano. Siamo dunque nel cosiddetto campo della neurofenomenologia, disciplina che unisce neurologia, psichiatria e biologia, nata agli inizi degli anni '90, come ci ricorda il libro, nello stesso periodo in cui si scioglieva il ghiaccio proibizionista di Nixon e i giovani di tutto il mondo esplodevano in un nuovo rinascimento psichedelico che coincise con la diffusione di rave party e discoteche. Per quanto questa febbre del ballo fosse fiorita grazie alla diffusione dell'Mdma, non classificabile come uno psichedelico, l'intero spettro di droghe sintetiche o naturali cominciò a essere esplorato dai giovani psiconauti della generazione rave, con particolare attenzione proprio verso LSD, ketamina, funghi magici, DMT (principio attivo, ad esempio, dell'Ayahuasca).
In parallelo, nel mondo della ricerca scientifica, innovazioni tecnologiche come le scansioni cerebrali spianarono la strada a nuove scoperte. E fu così che, timidamente, nei primi anni '90 anche istituzioni pubbliche e private cominciarono a fare ricerca sulla psilocibina e sul DMT, prima in Svizzera e in Messico, per poi arrivare alla situazione odierna che vede rincorrersi, a livello internazionale, le più prestigiose università e case farmaceutiche, con un cambio radicale nel modello riproposto anche dai media, al punto che oggi troviamo online notizie come questa: “La ketamina, una droga pesante ma anche un farmaco anestetico regolarmente autorizzato, si mostra promettente per il trattamento rapido della depressione maggiore e dei pensieri suicidi, secondo uno studio portato avanti (in ventisette paesi tra cui l'Italia) dai ricercatori di Janssen e della Yale School of Medicine. È il primo approfondimento scientifico condotto sulla ketamina da un'azienda farmaceutica in collaborazione con un'istituzione accademica. È stato pubblicato sull'American Journal of Psychiatry. [...] Lo spray nasale è ora in fase di studio III prima che possa essere autorizzato ufficialmente.” (Adnkronos, 16 aprile 2018).
Nessuno degli psiconauti degli anni '90 avrebbe mai sperato che la ketamina fosse prodotta come spray nasale dalla Johnson & Johnson. Né avremmo creduto, come invece apprendiamo nel secondo volume, che potesse essere prescritta da un medico, magari in microdosaggi, per combattere alcolismo, depressione, disturbo da stress post-traumatico, disturbo bipolare. O che LSD, funghi psilocibinici e semini hawaiani fossero indicati nella terapia della cefalea a grappolo. Sapevamo, ad esempio, che per combattere le dipendenze da eroina, cocaina e alcol si potesse fare un “viaggio rituale” a base di Iboga o Ayahuasca, ampiamente studiate in questi volumi. Ma è solo negli ultimissimi anni che queste teorie sono state comprovate dalla scienza, insieme a molte altre che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Ed è in questo libro che se ne parla con entusiasmo, inedita esaustività, ma anche con la dovuta prudenza, fino a toccare l'argomento dell'eutanasia.
Finalmente, insomma, è arrivata un'opera monumentale che riscatta anni di oscurantismo, illuminando con la luce del progresso scientifico una strada antica quanto l'uomo che finora ci è stato impedito di percorrere sotto il sole.
Come spiega lo stesso Samorini nelle conclusioni del bellissimo Animali che si drogano, in cui passa in rassegna decine di specie che utilizzano sostanze psicotrope per scopi disparati, il “fenomeno droga” è un fenomeno naturale comune al regno animale, mentre il “problema droga” è un problema culturale che nella società moderna è dovuto “alla deculturalizzazione dell'approccio alle droghe”. Certamente questo lavoro contribuirà ad alimentare il dibattito sugli psichedelici e a confermare l'importanza che nella nostra società può avere una corretta cultura delle droghe. Una cultura che spieghi “come si usano e in quali contesti”, per evitare l'insorgere di approcci impropri, quindi del “problema droga”, e individuare “le variabili che regolano questo fenomeno nel contesto dell'intimo rapporto fra natura e cultura umana”.

Tobia D'Onofrio



Marx, Lenin, Stalin/
In fondo a sinistra, meste utopie

Encomiabile proposito, quello di Ruggero D'Alessandro (L'utopia possibile – Appunti libertari, Derive Approdi, Roma 2019, pp. 192, € 13,00), che cerca di mettere a punto in meno di duecento pagine un resoconto critico della storia dei movimenti rivoluzionari o, meno ambiziosamente, della tensione alla trasformazione e al cambiamento della società in senso progressivo e al miglioramento collettivo delle condizioni di vita. Nel mettere in pratica un'analisi che non ha l'intenzione di costituire un trattato organico ed esaustivo, l'autore utilizza titolo e sottotitolo programmatici per segnalare, prima che si apra il volume, come lo scritto rivendichi un'impostazione libertaria nel descrivere fallimenti e successi dei ribelli che nell'ultimo secolo hanno provato a imboccare strade di libertà e giustizia. La disamina è evidentemente finalizzata a fornire un contributo che aiuti a indicare dove si trovano sentieri che è ancora possibile percorrere, quali sono i segnali incoraggianti emersi negli ultimi decenni e come procedere verso l'anelato arcipelago delle utopie. I punti di riferimento interpretativi dell'autore sono espliciti e variegati e questo, a seconda dei gusti di chi legge, rappresenterà nota di merito o limite principale del testo. Il pensiero di rinomati intellettuali forestieri (Marx, Keynes, Foucault, Deleuze) e minori, a volte minorissimi, saggisti italiani, ha contribuito a nutrire un libro che esordisce con un doppio cenno a Marx il quale, nel procedere delle pagine, appare più volto a rassicurare i lettori potenzialmente critici che non a strutturare coerentemente il resoconto a seguire (per inciso: so che il mondo acculturato mi sbeffeggerà con sussiego, ma a me continua a risultare misterioso come si possa essere marxisti e keynesiani al tempo stesso). Nel primo capitolo, che ha inizio con la Rivoluzione russa, D'Alessandro si dichiara apertamente a favore dei Soviet e contro la dittatura bolscevica, con Luxemburg e Goldman contro Lenin, poi con gli anarchici spagnoli e il Poum contro Stalin e infine con i Consigli praghesi contro l'Unione Sovietica. Schieramento condivisibile anche se il racconto si mostra in definitiva un po' asimmetrico, con breve spazio dedicato alle vicende di Kronštadt ma completo e curiosissimo silenzio sulla rivoluzione machnovista.
E poi mi dà dello “stolto”. Cioè, non proprio a me direttamente; ma quasi, quando scrive: «Così com'è stolto il vecchio refrain di stabilire una perfetta continuità tra il pensiero marxiano e la costruzione di quello che molti studiosi e militanti definiscono “capitalismo di Stato”, analogamente non si devono mai dimenticare le fratture tra il modello leniniano e quello staliniano riguardanti politica, economia, polizia e tribunali, ideologia, società.» Stolto ci sarò pure, ma questa discontinuità non riesco a percepirla: basti ricordare che la Čeka fu fondata da Lenin, il quale benedisse serenamente tutte le repressioni e massacri di insubordinati sin dal 1918. E forse l'autore potrebbe considerare l'opzione che lo strano ircocervo definito “capitalismo di Stato” non sia altro che quello che il buon Karl chiamò “dittatura del proletariato” sotto mentite spoglie e destinato all'esatta sorte che Bakunin aveva pronosticato; e che magari la base teorica dell'ecatombe staliniana dei piccoli proprietari di terra aveva trovato compiuta espressione quando era stato scritto che i contadini «...sono reazionari, giacché tentano di riportare indietro la ruota della storia». Marx & Engels annata 1848, eh, mica Stalin 1937. Ma questi sono dettagli e si deve esser lieti per l'incontro con una visione libertaria, simpatizzando per l'irruenta verve, che tuttavia, con il secondo capitolo, in buona sostanza si dilegua, lasciando spazio allo storico-sociologo che con piglio quasi accademico si inoltra nella definizione dei movimenti sociali e nella differenza tra questi e la forma partito, giustamente parteggiando (“giustamente” per chi mediamente legge questa rivista) per i primi. Le molteplici influenze sulle ricostruzioni e riflessioni che seguono potranno incuriosire o lasciare perplessi, dando la sensazione di un pensiero che attinge spregiudicatamente da fonti disparate oppure di una notevole confusione di gusto minestronico. Non potendo addentrarmi per ragioni di spazio sui tanti punti che meriterebbero un approfondimento, vorrei però evidenziare alcuni nodi che rischiano, a mio avviso, di indebolire il discorso nella sua totalità.
In primo luogo mi pare improponibile l'idea che: «...lo Stato in realtà non rappresenta tanto il nemico quanto una figura ben più complessa» divenendo a volte «addirittura sponsor rispetto ai movimenti» (p. 59). Questa è un'affermazione ingenua in quanto da sempre lo Stato fa – certo – da sponsor e dialoga, ma non con i movimenti, bensì con quei suoi settori che si dimostrano sensibili al risucchio istituzionale, capetti con ambizioni da parlamentari, da accademici, da artisti di successo, certo non sostiene i settori del movimento che pongono questioni radicali; di fatto utilizza le dinamiche criptogerarchiche presenti per fare il suo mestiere, ossia rendere la critica innocua, anestetizzarla e riassorbirla. In questo caso D'Alessandro è vittima dell'illusione ideologica della complessità, fenomeno per il quale non si può mai individuare alcuna contrapposizione perché “la realtà è più complessa”. Che di per sé non costituirebbe nulla di increscioso se non fosse che così vengono individuati come «possibili alleati» (p. 60) dei movimenti niente meno che «mass media, “professionisti della riforma”, sindacati, partiti, gruppi di interesse», ovvero quelli che sono e saranno sempre i becchini, non gli alleati, di chi si oppone al dominio. So benissimo che l'autore ha prevenuto la mia critica definendola «miope e semplificante» (p. 59) ma è una croce che sono disposto a portare di buon grado. Anche perché è miopia che mi impedirà di brancolare in una nebbia dove si comincia a credere che le politiche siano imbastite dallo Stato in conseguenza dei mali servigi di economisti che pubblicano analisi con dati errati (pp. 85-88), o a mitologie naïf su nefasti «Bocconi boys» (pp. 98-102) mentre ad ogni avversario dell'oppressione dovrebbe essere evidente che questi prestigiosi studi sono realizzati su precisa commissione delle istituzioni al fine di dare l'opportuna verniciatura accademica a politiche che sono altrove decise, finalizzate all'autoconservazione del sistema; una foschia dove si ritiene che sia opportuno appoggiare – in chiave antiliberista – le politiche welfaristiche keynesiane, dimenticando che il welfare è stato inventato per contenere le spinte al cambiamento dal basso; e soprattutto sorvolando sul fatto che invocare una più equa politica fiscale significa esaltare la lotta all'evasione, quindi chiedere più Stato, più controllo, più poliziotti e finanzieri. Legittimo, per carità: ma che c'entrano con tutto ciò e con le visioni micromeghiane che permeano la seconda parte del volume le collettivizzazioni della Rivoluzione spagnola evocate in precedenza? Invece di cercare lo sbarco presso utopie possibili, con bussole del genere si va a sbattere contro l'iceberg socialdemocratico, dove, nel migliore dei casi, otterremo «un vitto migliore nelle nostre prigioni»; come cantava un tizio che di socialdemocrazia un po' ne capiva.

Giuseppe Aiello



Parlare di anarchia/
Dialoghi e “lezioni” senza dogmi

L'idea è semplice (certo, a pensarci) ed efficace: prendi alcuni autori e intellettuali di area libertaria, metti a disposizione un posto speciale e chiedi loro di tenere una conferenza su temi di stretta attualità, con uno sguardo anarchico e uno stile accessibile. È quanto accaduto presso l'Edicola 518 a Perugia, “chiosco ribelle per gli amanti della bella carta”, fra il 2017 e il 2019; e ogni evento è stato partecipato non solo in termini numerici, ma anche nel senso più nobile del termine: il pubblico si è fatto avanti, ha discusso, si è confrontato con chi parlava.
Ma è possibile recuperare questa esperienza, così legata alla dimensione live, e metterla su carta? È possibile: il risultato è il primo volume delle Lezioni di anarchia. Cronache di incontri realmente avvenuti in Edicola 518, Perugia (Milano 2019, pp. 176, € 25,00), pubblicato da elèuthera e arricchito dalle illustrazioni di Beppe Giacobbe. Il contenuto è appunto la trascrizione, fedele e piuttosto effervescente, di cinque “lezioni” – da intendersi in senso lato e ironico, perché nessuno si sogna di fare dogmatismo anarchico – più una premessa del curatore Antonio Brizioli, animatore dell'Edicola stessa.
Francesco Codello si occupa di offrire uno sguardo generale sull'anarchismo, partendo dal principio chiave “Né obbedire né comandare” e chiarendo la pluralità di correnti all'interno di questo pensiero. In un intervento successivo presenta l'area di cui è massimamente esperto, ovvero l'educazione incidentale e libertaria: “tanto l'apprendimento incidentale è naturale e inevitabile, quanto l'istruzione formale è un intervento deliberato, che come tale ha bisogno sempre di una giustificazione”.
Stefano Boni parla con grande puntualità del tema del lavoro, mettendo in dubbio l'universalità di questa nozione come viene largamente intesa, e ricostruendo l'evoluzione da un'originaria “società opulenta” – per dirla con Sahlins – dove i bisogni erano limitati fino all'alienazione del lavoro contemporaneo, che fra l'altro distrugge una serie di saperi autonomi ben inseriti nel tessuto sociale. Critica anche l'idea dell'automazione come liberazione, “perché le macchine non sono concepite dalla collettività per la collettività, ma servono solo ad aumentare i profitti. L'automazione diventa anzi arma di ricatto per togliere lavoro a una manodopera che è incapace ormai di far da sé, che non ha altre forme di sussistenza possibile se non quella del lavoro salariato.”
Antonio Senta si dedica invece all'autogestione, pratica fondamentale per l'attività libertaria, ribadendo che uno dei suoi compiti è “quello di destrutturare quei rapporti di dominio che nei gruppi sociali tendono a ricrearsi. Voglio dire che anche in un contesto autogestito l'assenza di dominio non è una cosa acquisita, è una cosa che va praticata, garantita con una rotazione dei compiti, con la partecipazione in prima persona, con la trasparenza, con la consapevolezza”. Come possibile spunto, propone di recuperare e attualizzare i consigli elementari “a cerchi concentrici” della Rivoluzione francese: pensando “l'autogestione per frammenti”, su piccole porzioni della società.
Infine, Lorenzo Pezzica affronta il complesso rapporto tra democrazia e anarchia, nel solco di alcune ormai classiche riflessioni di Amedeo Bertolo. Durante l'intervento richiama inoltre l'attenzione sui luoghi “in cui oggi esistono tensioni magari alimentate da posizioni reazionarie, come sul tema delle migrazioni”, spiegando che abbandonarli è un grave errore per qualsiasi libertario: così “si corre il rischio di derive non solo autoritarie, ma anche legate al riemergere di pregiudizi pericolosissimi, come del resto accade oggi in Italia e non solo”.
Per ovvie ragioni di ogni lezione non approfondisce fino in fondo temi così spinosi; ma li inquadra in modo più che egregio, tutelandone al contempo la complessità e varietà. Il libro ha tre ulteriori virtù, per nulla scontate. Innanzitutto buoni suggerimenti bibliografici per approfondire quanto discusso, a cura di Sara Giulia Braun: qui sfilano autori contemporanei come Graeber, Bookchin, Ibáñez e Ward, di fianco a classici (non solo dell'anarchismo) quali Bakunin, Malatesta, Buber o Arendt. Poi la presenza del dibattito dopo l'intervento, che lo amplia con una serie di botta e risposta: penso in particolare ai capitoli sull'autogestione e l'educazione incidentale. E infine la veste grafica del libro stesso: estremamente gradevole e originale fin dal formato, a mo' di quaderno di lavoro, con pagine piegate e tenute insieme da un elastico. Gli interni sono divisi in due colori – nero per la trascrizione, rosso per gli approfondimenti – e nel complesso l'intera impostazione della pagina è ispirata alla massima chiarezza. Alle ragioni estetiche si sommano così quelle espositive: in mezzo scorre il testo della lezione, e a sinistra un apparato di note esplicative, riferimenti, finestrelle biografiche e persino registrazioni in diretta di quanto sta succedendo mentre il relatore parla – applausi, risate, un bicchiere infranto, schiamazzi… Non semplici note di costume ma una fedele restituzione dell'atmosfera “dal vivo”, aperta e dialogica. Quanto di meglio per parlare d'anarchia.

Giorgio Fontana



Sociopatia e violenza/
Storia di un cortocircuito sociale

Non possiamo parlare solo del film Joker (2019), dobbiamo parlare del fenomeno sociale Joker. Un fenomeno che sembra abbia investito la comunità dei cinefili, e che da lì si sia propagato fino a toccare l'io più profondo di ogni spettatore.
Per questo non ci soffermeremo sul Leone d'oro vinto dall'opera all'ultimo Festival del cinema di Venezia, né sull'ennesima sublimazione artistica di Joaquin Phoenix e nemmeno sulla metamorfosi totale e perfetta del fumetto fattosi movie.
Il regista Todd Phillips, un Gauguin cosmopolita e metropolitano, offre un dipinto che regala un viaggio nella Tahiti che alberga in ciascuno di noi, ma, soprattutto, obbliga a domande tanto esistenziali quanto psicanalitiche. Il viaggio comincia al limitare di una sfera sempre più centrale nella nostra vita: l'identità. E qui ci si inoltra, soli. Qui inizia davvero il film, o meglio il personale corpo a corpo con quest'ultimo.
Joker si fa gioco di specchi, si potrebbe forse dire labirinto claustrofobico di specchi. Il Joker, nel suo incedere disperato e continuo, ci restituisce istantanee che almeno una volta nella vita abbiamo vissuto e alle quali avremmo, forse, voluto reagire diversamente: occasioni in cui avremmo voluto reagire nel modo peggiore possibile, e invece non lo abbiamo fatto.
Joker, inoltre, si fa intima esperienza sensoriale grazie a musiche, curate dal violoncellista islandese Hildur Guðnadóttir, che sanno alternare e miscelare cadenze marziali e grottesche.
Tratto distintivo del Joker è la risata. Una risata isterica e inconsapevole; poco importa se frutto di patologia oppure no. È una risata in faccia alla società. E la società non ha riguardi verso chi gli ride in faccia: lo bolla e lo emargina. “Il riso è un vento diabolico che deforma il volto e rende gli uomini simili a scimmie”, sentenziava Jorge da Burgos ne Il nome della rosa. Ma l'uomo ha sempre cercato il riso e, spesso, un riso sguaiato.
È proprio il riso l'innesco del cortocircuito fondamentale nel film: Arthur Fleck – questo il nome del protagonista spogliato delle vestigia del mitico nome d'arte – non è altro che un clown triste, che vorrebbe guadagnarsi da vivere e sublimare la sua vita difficile facendo ridere gli altri. Ma questo non gli è permesso, anzi gli unici riscontri che riceve sono sberleffi feroci e porte chiuse in faccia. La società non ammette errori, la società non conosce il perdono. E la reazione umana può abbracciare il caos e la violenza. Così come i signori di corte necessitavano di giullari per sollazzarsi, ancora oggi sempre più spesso si usa prendersi gioco e sghignazzare in faccia al diverso, in faccia allo sbandato. Questo è il ruolo cucito addosso ad Arthur Fleck, non quello di astro nascente del varietà televisivo come invece vorrebbe. E a tutto questo Joker decide di ribellarsi, con gli unici strumenti che conosce e che ha sempre subìto: la violenza e una comicità feroce e crudele.
Questo tipo di ribellione rastrella sempre più adepti, perché parla solo alle viscere e agli istinti primordiali degli emarginati. La ribellione del libero arbitrio è pratica rara, sempre più, ed è pratica dall'elevato coefficiente di rigore e di difficoltà.
In definitiva Joker non è un anarchico, né il paladino di qualsivoglia causa di giustizia sociale: Arthur Fleck è la metafora dei molti sommersi contemporanei.

Matteo Pedrazzini



Madri, figlie, sorelle/
Scovare dolcezza tra le macerie

“Tutto quello che m'è avvenuto di scrivere, e probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia viaggiato e vissuto a lungo all'estero, si riferisce unicamente a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui. È una contrada, come il resto d'Abruzzo, povera di storia civile, e di formazione quasi interamente cristiana e medievale. Non ha monumenti degni di nota che chiese e conventi. Per molti secoli non ha avuto altri figli illustri che santi e scalpellini. La condizione dell'esistenza umana vi è sempre stata particolarmente penosa; il dolore vi è sempre stato considerato come la prima delle fatalità naturali; e la Croce, in tal senso, accolta e onorata. Agli spiriti vivi le forme più accessibili di ribellione al destino sono sempre state, nella nostra terra, il francescanesimo e l'anarchia. Presso i più sofferenti, sotto la cenere dello scetticismo, non s'è mai spenta l'antica speranza del Regno, l'antica attesa della carità che sostituisca la legge, l'antico sogno di Gioacchino da Fiore, degli Spirituali, dei Celestini.” (Ignazio Silone)
Francescanesimo e anarchia, non si potrebbero trovare a mio avviso sostantivi più adatti per descrivere l'atmosfera che pervade L'arminuta (Giulio Einaudi Editore, Torino 2017, pp. 176, € 12,00), il romanzo che ha consacrato Donatella Di Pietrantonio tra “le grandi” del panorama italiano contemporaneo.
“La mia terra luminosa e dolente”, come lo definisce lei, l'aspro e ruvido Abruzzo illuminato dai riflessi del mare, è impresso nel carattere dei protagonisti. Anzi, diciamola giusta: delle protagoniste.
Perché in questo romanzo, che non è femminista e non tradisce impulsi di rivalsa verso l'altro genere, sono le donne a rivestire i ruoli chiave, mentre i personaggi maschili sembrano fare da contrappeso, offrendo spunti e spalle alle vicende e alle evoluzioni – concrete e caratteriali – delle loro madri, zie, sorelle ed amanti.
Nel mio immaginario la stessa autrice rassomiglia alla sua terra: vive in provincia, a Penne, a metà strada tra il Gran Sasso e l'Adriatico.
È figlia di contadini, dentista pediatrica di giorno e scrittrice di notte, specie, pare, verso le cinque del mattino, quella che lei definisce “l'ora magica”. Per Donatella Di Pietrantonio la scrittura è “tempo rubato”, non ricerca del successo ma piacere del confronto; è urgenza di raccontare con parole scabre e al tempo stesso incantantrici, che vanno dritte all'essenza dei caratteri ma senza perdersi neppure una sfumatura.
In dialetto abruzzese “arminuta” significa “ritornata”. La protagonista del romanzo è una ragazzina che scopre all'improvviso di non essere chi aveva sempre pensato di essere.
La famiglia con la quale è cresciuta, la “sua” famiglia, la carica in auto in un giorno qualunque d'agosto, con “una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse”, per catapultarla in una dimensione completamente diversa, tra le poco amorevoli braccia di un'altra famiglia, quella d'origine, che la reclama indietro.
“Ero l'Arminuta, la ritornata. Parlavo un'altra lingua e non sapevo più a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza”.
Quando bussa alla porta della sua nuova casa, la ragazzina ha solo tredici anni. È l'estate del 1975, c'è “odore di gomma bruciata nell'aria”, e in quel paese tra le montagne d'Abruzzo inizia la sua vita adulta, quello che per lei ben presto diviene il tempo della vergogna.
La famiglia naturale l'ha pretesa indietro, quelli che lei credeva essere i suoi genitori, adesso scopre essere cugini alla lontana. La sua vita passata si rivela come il semplice frutto di un accordo non troppo dettagliato tra parenti, di decisioni prese senza troppo dar peso alle possibili conseguenze per la bambina.
Il tema della maternità, inteso nella sua completezza e non solo come il portare in grembo e partorire, pervade prepotentemente il romanzo. Nel trattare due figure atipiche di “madre” – una creduta tale ma che non può più tenere la sua bambina, l'altra effettivamente tale ma che chissà perché la vuole tenere – l'autrice non cede alla retorica né ai facili giudizi, e si lancia invece nell'approfondimento dell'insondabile, tra le pieghe nascoste della coscienza, nelle parti in ombra, dentro le anomalie. La maternità di questo romanzo è lontana anni luce dalla responsabilità e dalla cura; è istinto animalesco, senso del possesso e diritto all'abbandono.
La vita dell'Arminuta (nel romanzo la protagonista non ha altro nome) cambia all'improvviso e in modo radicale. Dopo un'esistenza agiata, fatta di privilegi benestanti come la danza, il nuoto, le vacanze al mare, una confortevole casa borghese, la ragazzina si ritrova in un contesto povero e difficile, dove occorre imparare a lottare per un boccone di cibo in più. E pure alla svelta.
Due mondi inconciliabili, moderno e avanzato l'uno, retrivo e rozzo l'altro.
Nella sua nuova casa, stretta spoglia e buia, non c'è posto per l'affetto né per lenzuola pulite, non c'è compassione né comprensione, e anzi per due dei quattro fratelli maschi lei diventa da subito “un accidente, un impiccio per tutti”.
Però c'è sua sorella Adriana, più piccola di un paio d'anni, che la accoglie con gli occhi stropicciati e le trecce sfatte, ma che mostra di avere nei suoi confronti sentimenti di affetto e protezione. Tanto che le due, pur così diverse, diventano presto inseparabili. E c'è suo fratello grande Vincenzo, quasi diciottenne, col quale si instaura un rapporto fatto di fascinazione e affetto, che rappresenta per l'Arminuta, pur nella sua ambiguità, un barlume di sollievo in tanta disperazione.
È tra queste figure impegnate nella sopravvivenza quotidiana che la protagonista cresce, suo malgrado.
Tra quegli “spiriti vivi” che dice Silone, che si “ribellano al destino in forme accessibili”. Che, malgrado tutto e nonostante l'evidenza, coltivano da qualche parte particelle di speranza.
Così lei diventa grande sperimentando desolazione e violenza, annusando la pelle di Vincenzo, condividendo il materasso con la sorella, ascoltando il letto dei genitori che cigola di notte, impietoso e senza amore. Ritrovandosi tra i piedi l'ennesimo fratellino, il più indifeso.
Ma anche trovando senso alle domande inevase, e scovando pezzetti di dolcezza in mezzo ai rifiuti.
“L'Arminuta” è una storia estrema ma dai toni quasi riservati, che si legge d'un fiato, che resta attaccata ai nervi prima e più che al cuore.
E se ormai Elena Ferrante è divenuta un termine di paragone quasi obbligatorio per chi sceglie – specie se donna – di affrontare la narrazione al femminile, ha ragione la Di Pietrantonio quando afferma di sentirsi stilisticamente più vicina ad Agota Kristof, con la sua prosa secca e senza cedimenti.
Come dicono i gemelli della Trilogia della città di K.: “il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività”.
Vale anche in Abruzzo, terra di santi, scalpellini e anarchici.

Claudia Ceretto



Wes Anderson/
Non solo un regista che piace alla gente che piace

È considerato uno dei più innovativi e talentuosi registi dell'ultima generazione del nuovo cinema americano: Wes Anderson, cinquant'anni, alto, elegante, allampanato e con un perenne sguardo da bambino curioso che si è perso nel supermercato. I suoi personaggi si muovono imperfetti e titubanti in un universo perfetto, senza spigoli o colori fuori posto, i suoi set sono una sorta di case di bambole dove nessun dettaglio è inutile.
Dal suo esordio nel 1996 con Un colpo da dilettanti, e negli otto lungometraggi successivi fino allo splendido L'isola dei cani (2018), film d'animazione Orso d'argento al festival di Berlino 2018, Wes Anderson ha dato modo di far sbizzarrire la critica americana e italiana, che ha visto in lui e nella sua graffiante eleganza l'autore modello di una generazione hipster, borghese, liberal e illuminata, in grado di mettere in risalto psicologie disturbate di uomini e donne perennemente fuori luogo in un mondo sempre più incomprensibile. Insomma, l'autore che piace alla gente che piace, e che è in grado di apprezzare le sue citazione colte, i suoi caratteri stilizzati e i suoi set sgargianti e controllati.
Ciò ha determinato una sorta di miopia percettiva in gran parte della critica, fuorviata forse dall'apparenza e dalla patina borghese dei suoi film, che ha quasi sempre ignorato gli aspetti di critica sociale o addirittura politici, fortemente presenti nei suoi lavori e, in modo particolare, negli ultimi quattro film (Fantastic Mr. Fox, Moonrise kingdom, Gran Budapest Hotel e L'isola dei cani).
Il riferimento autoriale che viene spontaneo per la costruzione artificiale delle sue ambientazioni è Federico Fellini. Come lui, Anderson ha l'ossessione demiurgica di costruire un universo intorno ai propri personaggi i quali, come in Fellini, sono spesso stilizzati in maniera bozzettistica e quasi caricaturale. Ma è come se, guardando il film La dolce vita, ci fermassimo a osservare la descrizione degli ambienti, il passeggio su via Veneto o il Cristo trasportato in elicottero compiaciuti di tanta sapidità descrittiva, senza prestare attenzione alla critica feroce che il regista riminese fa alla società del suo tempo.
La famiglia, come formula e istituzione, distonica e disfunzionale, è al centro di molti film di Anderson. I Tenenbaum (2001) è un ritratto di famiglia in un interno dove nessuno si sente a proprio agio e dove un padre da sempre assente, interpretato da un eccellente Gene Hackman, cerca di recuperare il tempo perduto e una paternità che non ha mai prima d'allora cercato, cosciente della propria inadeguatezza.
Ma, a ben guardare, non è solo la famiglia al centro dell'attenzione di Anderson, ma tutti gli aspetti istituzionali che sono sottesi a un sistema autoritario, in primo luogo la polizia, l'esercito, la difesa normativa e di fatto della proprietà.
Ma andiamo per ordine: Moonrise Kingdom è una storia d'amore tra due adolescenti, Sam e Suzy, ambientata in un'isola sperduta, desolata e immaginaria del New England. Non ci sono che pochi abitanti ma vi è una pattuglia di polizia che garantisce l'ordine contornata da cormorani e da sardine. Il poliziotto capo è triste e cosciente della propria inutilità, così come buona parte della popolazione adulta, mentre gli adolescenti sono animati da una vitalità incandescente pronti ad amare e a emozionarsi.
Nell'isola, nei pochi giorni di fine estate in cui è ambientato il film, staziona una brigata di boy scout, tratteggiata da Anderson come una grottesca parodia del mondo militare fatto di adunate, encomi e rimbrotti, accettati di buon grado dai ragazzini in divisa, messi in riga e sull'attenti, tra saluti militari e signorsì. Completa il quadro Servizi Sociali, un'algida signora, interpretata da Tilda Swinton, che non esita a prospettare l'orfanotrofio e l'elettroshock al protagonista, orfano adolescente, ribelle, innamorato e riottoso alle regole.
Anche in Grand Budapest Hotel (2014) ritroviamo la divisa ampiamente derisa e dileggiata da Anderson in un film scoppiettante che è una sorta di elogio della fuga che percorre due generazioni e due epoche. In un'inventata repubblica Zubrowska, nell'austero Grand Budapest Hotel il Novecento è attraversato da due successive occupazioni segnate da due divise. Dapprima quelle naziste e poi quelle delle truppe sovietiche. Il film, che intende omaggiare il mondo fantasioso di Stefan Zweig, è una sorta di fuga senza fine di Gustave, concierge e successivamente padrone del Grand Budapest Hotel, inseguito dalle polizie di mezzo mondo e aiutato da una fantomatica massoneria dei portieri d'albergo, la “Società delle Chiavi Incrociate”. Ancora ritroviamo le uniformi, anche se sono solo quelle dei concierge, che passano sotto lo sguardo irridente di Wes Anderson.
Ma è forse nel suo ultimo film, L'isola dei cani, in cui il nostro regista si misura per la seconda volta con il cinema di animazione, che i motivi libertari prendono forma più evidente. La plastilina e il cinema in stop motion rappresentano per il regista texano una straordinaria opportunità per controllare interamente i propri set e per far muovere i suoi personaggi in ambienti dove niente è casuale e dove ogni dettaglio è in qualche modo funzionale alla narrazione.
Nella città, anche questa volta immaginaria, di Megasaki, in un 2038 distopico e in un Giappone dove tradizione e modernità si fondono in una democrazia di tipo televisivo, i cani, portatori di un'artefatta pericolosa infezione, vengono confinati su un'isola precedentemente destinata alla raccolta dei rifiuti. Un ragazzino, nipote adottivo del sindaco, con un piccolo velivolo si reca sull'isola alla ricerca del suo cane. L'isola dei cani è probabilmente il film più riuscito e ambizioso di Wes Anderson, per la complessità dei temi trattati, da quello ecologico a quello della libertà individuale, dal rapporto uomo-animale a quello, ineludibile per Anderson, della sopraffazione dell'uomo sull'uomo che porta inevitabilmente alle segregazioni e alle deportazioni che hanno segnato il Novecento. Tutto questo viene presentato nel film con una compresenza e una complessità di piani narrativi e con soluzioni fantasiose che vanno oltre la semplice metafora uomo-animale.
Un film stratificato e complesso come la musica di Mozart, che può essere fischiettata e apprezzata da un bambino e nel contempo analizzata con strumenti di comprensione in grado di valutarne la raffinata costruzione e l'intima bellezza.
Facendo un passo indietro di diversi anni, Fantastic Mr. Fox (2009), l'esordio di Anderson nel cinema d'animazione, è un adattamento dell'omonimo racconto di Roald Dahl. Il rapporto uomo-animale-natura, centrale nel libro di Dahl, non viene eluso da Anderson che sembra aggiungere una sorta di importante postilla rappresentata dal feticismo delle merci e dal senso di proprietà, rivelato con violenza dai tre uomini proprietari di galline che cercano in ogni modo di eliminare la volpe, Mr. Fox, e la sua piccola famiglia.
Nella sua fuga senza tregua, Fox scava gallerie su gallerie e alla fine sbuca in un supermercato dove il film trova il suo agrodolce happy end. La volpe e la sua famigliola si muovono circospetti e felici tra le corsie del supermarket quando il figlio porge al padre una mela rossa e lucente coperta da stelline argentate. È il trionfo dell'artificiale e del superfluo che ben si presta, metaforicamente, come finale di queste disordinate note sul cinema di un grande e originale regista contemporaneo.

Gabriele Veggetti



L'anarchia tra i pali/
Ricky Albertosi, il portiere irriverente

Alla fine anche Nereo Rocco, che fu suo allenatore al Milan, dovette riconoscere disarmato: “Ha tutto quello che non posso sopportare: beve, fuma, fa tardi la sera, è pieno di donne, scommette ai cavalli. Ma me lo tengo stretto perché è il miglior portiere del mondo”. Albertosi Enrico, per tutti Ricky, classe 1939, da Pontremoli in Lunigiana, terra dei libri, forse non sarà stato “il migliore del mondo” come pensava il “Paron”, ma sicuramente il più grande e spettacolare guardiapali nella storia del nostro calcio. Antitetico al suo rivale per eccellenza, l'immenso Dino Zoff, ha coniugato tra i pali stile e bellezza, stravolto canoni tradizionali, legato all'intervento delle mani quello coi piedi e spostato in avanti la posizione, spesso fino al dischetto del rigore. Un rivoluzionario anche nel liberare la figura del portiere dalla luttuosa divisa nera per indossare smaglianti maglie rosse (al Cagliari) e gialle (al Milan). Ma Ricky il ribelle è stato, soprattutto, l'estremo difensore che con plasticità svolazzava da un legno all'altro anche per grazia di un fisico slanciato e leggerissimo.
Dei veri e propri capolavori di acrobazia erano quei suoi stacchi di reni che, tra l'elevazione dal terreno e l'arco disegnato in sospensione dalla schiera, andavano a intercettare la sfera dove nessun altro collega sarebbe arrivato. Spettacoli d'artista regalava al pubblico Ricky, che Manlio Scopigno, al tempo del fortissimo Cagliari “scudettato” di Gigi Riva, Domenghini, Nenè, Cera, lo scavò nel fondo dell'anima fino a considerarlo un Platone.
A questo anarchico e straordinario James Dean dell'arte pedatoria anni sessanta-settanta è stato dedicato, per la casa editrice Urbone Publishing, Ricky Albertosi: romanzo popolare di un portiere (Praga – Repubblica Ceca, pp.135, € 13,00), un volume con cui per la prima volta si presenta ai lettori il “Collettivo Soriano”, schierato con lo scrittore Cosimo Argentina, il critico Massimo Raffaeli, l'ex-portiere del Cesena dalle sette vite Lamberto Boranga, i cronisti Massimiliano Castellani, Darwin Pastorin, Sergio Taccone, Emanuele Dotto e Furio Zara. Tutti bracconieri di “storie altre” dello sport, uniti inoltre da una sconfinata passione per la scrittura della “vedette” argentina Osvaldo Soriano (1943-1997).
Sarebbe qui superfluo aggiungere che la carriera di Albertosi è stata costellata da grandi soddisfazioni, ma è bene ricordare ancora una volta che già poco più che ventenne alla Fiorentina superò il maestro Giuliano Sarti e conquistò la maglia numero uno della nazionale, vinse una Coppa Italia e una Coppa Mitropa sempre con la Viola, due scudetti, il primo storico col Cagliari e l'altro a quarant'anni alla corte del Milan, partecipò a quattro mondiali e mentre si preparava per il quinto (quello del 1978 in Argentina) venne chiamato da Enzo Bearzot che gli comunicò con qualche imbarazzo: “Ricky scusa, ma Zoff mi ha detto che se vieni tu come secondo non si sente tranquillo. Mi spiace”. Chiuderà la carriera a 44 anni con l'Elpidiense in C/2 elargendo ancora acrobazie e spettacolo. Come in un Matera-Elpidiense del campionato 1982-83. 1-1 il risultato finale, ma per un telecronista lucano “la partita sarebbe dovuta finire 11-2 per i biancazzurri di casa”. Il vecchio Ricky (sempre in maglia gialla) anche in quell'occasione fece il fenomeno e all'uscita dal campo gli applausi furono soltanto per lui, mentre un pugno di ragazzini lo accerchiava per strappagli l'autografo.
Una carriera da primo della classe in tutti i sensi che, purtroppo, si macchierà una domenica di marzo del 1980, quando verrà prelevato dalle forze dell'ordine sulla tribuna di San Siro e accompagnato in questura. Il suo nome comparirà tra i tredici calciatori fermati per storie di partite truccate. Albertosi finirà a Regina Coeli dove, dirà, “ho mangiato i migliori bucatini della mia vita, li aveva cucinati un compagno di cella”. Verrà squalificato dal giudice sportivo per due anni, ma nel dicembre del 1980 la giustizia riabiliterà tutti gli imputati per non aver commesso il fatto. La vicenda delle scommesse rimarrà una ferita aperta, dolorosa, un cruccio che lo sfrontato Ricky non è riuscito ancora a scrollarsi.
La carriera e la vita di questa icona del nostro calcio sono un autentico romanzo popolare, narrate nelle pagine del “Collettivo Soriano” con slancio, calore umano e, persino, con un delizioso racconto di fantasia di Massimiliano Castellani, il quale immagina che quell'altro incallito scommettitore e viveur che fu Beppe Viola ritorni fra gli uomini per intervistare l'amico Ricky che si trova in un letto di ospedale a lottare tra la vita e la morte.
In realtà Albertosi in coma ci è finito veramente quando aveva sessantaquattro anni, a causa di un infarto, ma poi si è ripreso. In un'intervista ha detto che risvegliarsi dal coma è stata la più bella parata della sua vita. È volato dal legno della morte al legno della vita, soprattutto per la forza dell'amore che lo lega alla sua inseparabile Betty e ai nipoti.

Mimmo Mastrangelo