Rivista Anarchica Online





Luoghi

I casinò di Las Vegas, le strade di Ithaca, le ville di Newport. Negli USA molti luoghi sono la prova tangibile del fallimento di una rivoluzione, che fu ricca di nuove idee e di speranze tradite. E la loro storia di morti e ingiustizie arriva fino ai nostri giorni.

Ho attraversato i deserti
respirato l'aria di montagna
ho fatto la mia parte
sono stato dappertutto

(Hank Snow, I Have Been Everywhere, 1962)

Chissà chi si ricorda di Johnny Cash, cantautore dell'Arkansas dalla voce calda e bassa come quella di De André. Amava il suo paese, anche se ogni tanto qualche poliziotto solerte puniva i suoi eccessi, sbattendolo in guardina. Del resto lui se ne vantava: gli piaceva darsi arie da ex galeotto e si faceva un punto d'onore di cantare gratis nelle carceri. Oggi non gli basterebbe una vita intera per accontentare tutti i detenuti del paese della libertà. Aveva girovagato per gli States in lungo e largo e allora cantava spesso anche i versi che Hank Snow aveva scritto, ispirandosi a una vecchia canzone folk australiana: un elenco lungo, ritmato, ossessivo.

Monument Valley (USA) - La riserva navajo

Io non sono stato proprio ovunque, ma la mia parte l'ho fatta per cercare di comprendere questo paese, ma più viaggio e meno mi sembra di capire. Attraversando certe lande desolate, abitate da strani alieni o percorrendo viali monotoni scanditi da rettangoli di stoffa a stelle e strisce e aquile dallo sguardo torvo, mi sono chiesto spesso come abbia fatto questa incongrua accozzaglia di luoghi a diventare il centro del mondo e il sogno di buona parte dell'umanità. Sono incapace di darmi una risposta.

Monument Valley (USA) - La targa dedicata a John Wayne

Arrivando un giorno a Las Vegas, dopo cento miglia di deserto, mi sono trovato intrappolato in un allucinante ingorgo cittadino su una tangenziale a dieci corsie. La città mi è apparsa dal nulla, come un miraggio. Las Vegas è un'allucinazione, un'assurda oasi nel deserto, una città che, a pensarci razionalmente, non potrebbe davvero esistere; un parco divertimenti in una distesa lunare, dove si sperperano quantità inimmaginabili di metri cubi d'acqua e di chilowattora, per alimentare una striscia di costosi alberghi con casinò incorporati, dove milioni di persone qualsiasi, ogni anno, trascorrono tristi vacanze, rovinandosi ai tavoli da gioco o muovendosi come automi fra un hotel e l'altro, per ammirare assurde imitazioni di Venezia, Roma, New York e Parigi.
Come potrei spiegare i canali inutili di Las Vegas o le sue fontane pirotecniche, alle donne incontrate nelle campagne africane, intente a trasportare pesanti recipienti colmi d'acqua verso le loro abitazioni? Da Las Vegas si può solo fuggire in fretta, a testa bassa, per sfuggire al richiamo delle slot machine, sirene pericolose, disseminate persino nei corridoi dell'aeroporto, pronte a ingurgitare gli ultimi risparmi del turista incauto e malato.
Quando finalmente l'aereo si alza sulla pista, nel fuoco della sera, si resta abbacinati dall'enorme chiazza di luce che ci si lascia alle spalle. Pare che quel chiarore lo distinguano anche gli astronauti dalle loro basi orbitanti.
Las Vegas è la prova evidente della follia della specie umana che sta distruggendo la propria casa, il simbolo visibile della devastazione planetaria. Città evanescente, il cui ricordo svanisce in fretta. Nella mente restano solo i matti, gli incongrui barboni seduti sull'asfalto bollente con la mano tesa e lo sguardo perduto, segno certo che non tutti là si divertono.
Johnny Cash, con la sua storia sbagliata di depressione, anfetamine e ordinaria follia, vendeva più dischi di tutti e non si dava arie da divo. Cantava per la gente semplice, quella sfruttata, sempre china sul banco di lavoro o a caccia di sogni americani destinati a finir male. Negli anni sessanta cominciò a interessarsi dei nativi, delle loro lotte. Un impegno nato dall'incontro, per naturale simpatia verso gli oppressi, come capita ai veri artisti. L'industria non gradì, cercò di boicottarlo, temendo che i profitti ne soffrissero. Lui però non si fece intimidire, tirò dritto per la sua strada, cantando per gli indiani fino alla fine, con quella sua voce da sciamano. Arrivando in un caldo pomeriggio di settembre nella riserva navajo, distesa fra Utah e Arizona, avevo in testa quelle sue ballate.1
Fra quella gente mi sono sentito a casa. Ho ammirato la loro fierezza, la dignità, la cortesia priva di servilismo, il loro stesso esserci nonostante tutto, le lunghe capigliature nere, portate con orgoglio. Per un po' mi sono sentito lontano dagli Stati Uniti, vicino alla madre terra.

Monument Valley (USA), riserva navajo - Le tracce dell'autore

La Monument Valley, nel cuore della riserva, è forse l'unico luogo di questo paese che mi abbia davvero commosso. Fra i grandi monoliti di pietra, enormi cattedrali naturali, mi è sembrato possibile ritrovare l'anima, meditare sull'infinito, come dall'ermo colle di Leopardi. Era bello camminare su quella terra rossa senza quasi lasciar traccia, come hanno fatto i nativi per migliaia di anni, prima che arrivasse l'uomo bianco a sconvolgere il tempo e a scolpire le montagne.
Eppure, persino in quel luogo magico mi sono sentito tradito. A dispetto dei massacri e delle feroci deportazioni che il popolo navajo ha subito, non ho trovato nemmeno un indizio, un cartello, una lapide, una piccola mostra che ricordasse quella storia, l'eroica resistenza all'invasione. Nemmeno un ricordo dei villaggi rasi al suolo, dei frutteti bruciati e delle greggi disperse per affamare la gente. A beneficio dei turisti hanno invece sistemato, a bella posta, un segnale che ricorda il luogo esatto che fu caro a John Wayne: il posto dove amava trascorrere le ore di riposo, fra una ripresa e l'altra dei western di John Ford. Proprio lui è ricordato qui, uno degli artisti più conservatori della storia del cinema, uno che credeva nella supremazia bianca e si opponeva alle lotte per i diritti dei nativi. Non una targa che ricordi l'inferno di Bosque Redondo, la landa desolata del New Mexico dove navajo e mescalero vennero deportati e abbandonati, a morire come mosche di stenti e malattie. È invece John Wayne ad accoglierti, come un graffio sulla roccia sacra o una bestemmia sulla soglia della cattedrale. Proprio non mi riesce di capire.
Non mi riesce nemmeno di appassionarmi ai rapper che i figli cercano di farmi apprezzare. Le liriche dei discendenti degli schiavi sono dolorose, crude, ricolme di significati evidenti, ma non lasciano spazio all'immaginazione; forse sono troppo vecchio e ho bisogno di immagini e metafore sfumate, mi servono melodie e armonie. Per questo giro l'America ascoltando Cash e altri vecchi miti, da tempo finiti in soffitta.

Ithaca, New York (USA)
Statue raffiguranti due irochesi

Duecentotrenta miglia a nord di New York, nel cuore della terra che appartenne ai potenti irochesi, sorge Ithaca, vivace cittadina universitaria. Qui ho dormito sotto un maestoso pino bianco, l'albero dal cui ceppo centrale dipartono sei grandi tronchi, simbolo delle sei nazioni irochesi, confederate ben prima che gli Stati Uniti inventassero il federalismo. Qui ho conosciuto, per caso, la storia di una coppia di giovani afroamericani brutalizzati dalla polizia mentre cercavano di difendersi dalla violenta aggressione di un colossale ubriacone bianco.
La sinistra locale si era radunata per chiedere giustizia e demilitarizzazione delle forze dell'ordine, in un posto tranquillo dove però il tradizionale poliziotto di quartiere si è trasformato in un pericoloso e tecnologico Robocop. Un'istintiva simpatia mi ha spinto ad attardarmi per un po' con la piccola folla variegata che si era riunita per l'occasione, esibendo il caro, vecchio stile: banchetti, volantini, striscioni, un megafono e tanti passanti avvicinati uno ad uno. Una scena della mia giovinezza, che mi ha anche fatto riflettere su quanti di questi episodi di uso odioso e razzista del potere poliziesco accadano in giro per il paese, troppo piccoli per fare notizia a livello nazionale.
A Ithaca, con questo suo nome incongruo tratto a caso dalla classicità greca, mi sarei fermato volentieri più a lungo, se non mi avesse colto il disagio per averne appresa, di passaggio, la storia: nel 1779 una spedizione del giovane esercito statunitense fu inviata qui a distruggere i villaggi e a deportare i nativi che, trovatisi loro malgrado coinvolti nel turbine della rivoluzione americana, avevano avuto la cattiva idea di allearsi con gli inglesi. Gli Stati Uniti inaugurarono così la loro giovane democrazia con una terribile rappresaglia.
Nei territori liberati dalla pulizia etnica, portata a termine con puntiglio, vennero poi insediati i veterani della rivoluzione. I combattenti della nazione che si affacciava al mondo con una promessa di giustizia e felicità per tutti gli uomini si insediarono così su terra rubata ad altri esseri umani, lasciati a morire di stenti, mendicanti senza futuro.
A Ithaca si respirava l'aria fresca del nord che porta i profumi dell'Ontario, ma il cuore mi si è fatto pesante e me ne sono andato, con poca voglia di tornare.

Newport, Rhode Island (USA) - Una delle ville

Aria buona si respira anche a Newport, nel minuscolo Rhode Island, stato-penisola allungato nella costa atlantica, che deve il suo nome alla somiglianza con l'isola di Rodi. In quella tranquilla e defilata cittadina del nordest sono stato sorpreso dalla storia nascosta tra le sue pieghe. Laggiù difatti si affacciano sull'oceano certe ville sontuose che, a cavallo fra ’800 e ’900, si fecero costruire i miliardari di Boston e di New York, facendo arrivare prestigiosi architetti dall'Europa e materiali da costruzione da tutto il mondo, rivaleggiando fra loro in sfarzo, fino a scivolare nel ridicolo.
Su quella costa rocciosa troneggiano, fianco a fianco, il rinascimento italiano, la belle époque francese e l'Inghilterra vittoriana. Mark Twain battezzò quel periodo “Gilded Age”, l'epoca dorata di una fulminea crescita economica, caratterizzata da enorme concentrazione di ricchezza in poche mani e forte aumento della povertà, specie nelle grandi città dove arrivavano i migranti dall'Europa ad assolvere i compiti più umili e gravosi per magri compensi. In quei tempi pazzeschi il sogno di ogni uomo d'affari arricchito del nordest era di costruirsi una villa principesca a Newport e avere uno yacht di lusso ancorato sotto ai cancelli, sorvegliati da cani e guardiani.2
Magioni sontuose, usate solo d'estate per ricevimenti, riunioni d'affari, giochi di società e battute di pesca, circondati da cani di razza e servitù in guanti bianchi. Camminando lungo quella scogliera mi è parso di scorgere, sulle facciate di quelle ville, una feroce ironia: gli americani avevano fatto la rivoluzione per liberarsi dell'oppressione imperiale e scrollarsi di dosso la vecchia Europa, con le sue insopportabili tradizioni e la sua immobilità, che non lasciava speranza alle classi povere; avevano proclamato il diritto alla felicità di ogni essere umano, difeso con orgoglio quella loro diversità ma, alla fine, l'ambizione di chi da tutto questo aveva finito per guadagnarci in potere e ricchezza, pareva essere quella di imitare goffamente l'aristocrazia europea: lo stesso lusso, le stesse vesti, lo stesso teatrino di riti consunti, presi a prestito dal settecento inglese.
Mentre, in barba alla costituzione, per le strade delle grandi metropoli la povertà uccideva il diritto alla felicità, nei campi di cotone del sud la frusta sferzava ancora schiene nere e nelle riserve i nativi morivano di stenti, in quelle ville si discuteva di politica e di affari, come ha fatto anche l'aristocrazia inglese fino agli anni quaranta del novecento, prima di screditarsi con le sue simpatie per il nazismo. Col loro sfarzo inutile, che scimmiottava la peggiore nobiltà europea, quei palazzi oggi forse rappresentano un monito, la prova di un parziale fallimento, la denuncia di una rivoluzione ricca di idee nuove ma anche ricolma di speranze tradite, con una storia sanguinosa di morti e ingiustizie che arriva fino ai nostri giorni.
Oggi come ieri, una distanza siderale separa lo sfarzo delle ville di Newport da certi luoghi disperati, dove la gente trascina la vita ai confini della realtà, sullo sfondo di giornate senza storia, dove le ore scorrono lente e le esistenze appaiono immutabili.
Uno di questi luoghi è Beatty, un villaggio sul confine tra California e Nevada, appena un'ombra sulla carta geografica. Ho trascorso qualche giorno in quell'avamposto dimenticato nel deserto, alla fine di un dicembre qualunque, deciso a lasciarmi alle spalle le luminarie e i grandi magazzini presi d'assalto per gli acquisti natalizi. Non lontano si trova il poligono militare dove, fra il 1951 e il 1993, gli USA eseguirono oltre 1000 test atomici, facendo brillare bombe H a terra e nel sottosuolo, attraendo turisti che venivano ad ammirare il fungo radioattivo levarsi nel cielo limpido e suscitando un forte movimento di protesta, con oltre cinquecento manifestazioni e quindicimila arresti. Gli studi mostrano come certe forme di cancro correlate al fallout radioattivo persistano ancora oggi in una vasta area circostante.

Beatty (Nevada) - Il motel Atomic

Senza ombra di ironia, il motel dove ho trovato alloggio si chiamava Atomic Inn e l'atomo era il suo simbolo. In nessun altro luogo sulla terra la tristezza mi si è attaccata alla pelle come a Beatty. Era come se la pioggia radioattiva di decenni prima avesse lasciato un velo di sconforto e gli abitanti fossero rimasti, da allora, incupiti, mutanti silenziosi e tristi dall'aspetto vagamente umano. Per le strade, riarse dal sole di giorno e battute dai venti freddi del deserto alla sera, vagavano quasi solo cani randagi e cespugli secchi portati dal vento. I rari passanti ci guardavano, muti e stralunati. Gli abitanti vivevano dispersi in squallide case rovinate e in un accampamento di roulotte sgangherate. Parevano colpiti da un vuoto interiore, un dolore inestinguibile che li obbligava a trascinarsi in un'esistenza senza scopo. I pochi ristoratori offrivano solo panini tristi, anche alla sera del 24 dicembre, e niente mi è parso fuori luogo quanto gli auguri di Natale scambiati in quelle ore nel negozio di alimentari o col portiere del motel, mentre si affrettavano verso casa senza nemmeno un tentativo di sorriso.
Mi sono scosso volentieri dalle scarpe la polvere radioattiva di quel posto, ma è stato più difficile scrollarsi di dosso la malinconia, rimasta appiccicata alla pelle. Nemmeno la musica riusciva a mettermi di buonumore, mentre Beatty si dissolveva per sempre nel retrovisore.
Da tempo la confusione della metropoli che non dorme mai, con le sue notti brevi e tormentate, mi è divenuta insopportabile. Eppure qui, nella capitale dell'impero, bene o male, c'è ancora una qualche umanità, anche negli occhi del tizio che ti chiede una moneta all'ingresso del supermercato e ti augura una buona giornata; anche nella ragazza seduta su un mucchio di giornali sporchi che ti passa un foglio stropicciato dove ha tentato di raccontare la sua storia, la sua versione dei fatti, e ti saluta quando te ne vai, ripiegando il foglio nella tasca. Mi avvio al mattino verso l'ufficio e a volte ho la voce di Cash nelle cuffiette; ripenso allora a certi luoghi disperati e, per una volta, anche il sorriso un po' falso del concierge riesce a riscaldarmi il cuore.

Santo Barezini

  1. Nel 1964 Cash pubblicò “Bitter Tears: Ballads of the American Indian”, concept album dedicato alla storia dell'oppressione dei nativi, attirandosi pesanti critiche. L'album resta un classico rivisitato nel 2014 da vari artisti.
  2. Ville analoghe e ancora più lussuose, costruite nello stesso periodo, si trovano in altre località in tutto il paese.