Rivista Anarchica Online





Criceti su una ruota

Alessandro Portelli, tempo fa, citava in una conferenza un saggio famosissimo della filosofa indiana Gayatri Spivak. Nel saggio l'oggetto del contendere è se sia legittimo, nella comunità occidentale in senso ampio e in quella statunitense in modo più specifico, che a un subalterno (o una subalterna) venga riconosciuta la possibilità di parlare, o addirittura concesso il privilegio di avere una voce. Il titolo del saggio ne esplicita l'argomento in forma di domanda “Can the Subaltern Speak?”, e nessuno studioso di teorie postcoloniali può permettersi di ignorarlo.
Nella sua lunga, fertile carriera, Portelli si è occupato in via primaria di culture afroamericane. Che poi questo interesse lo abbia portato di recente anche sulle strade d'Italia, seguendo percorsi poco frequentati, a ricostruire le trame musicali meticce della contemporaneità è un altro discorso, ma neanche troppo diverso. Una componente fondamentale della ricerca antropologica che Portelli di fatto conduce consiste nella raccolta delle voci: dei subalterni, appunto; di quelli che nessuno ascolta, e che dunque si ritengono muti. Nel riflettere sul suo lavoro, Portelli tornava a Spivak e diceva, senza enfasi ma in modo clamoroso, che non è mai stato vero che i subalterni non parlano. È che noi non sappiamo ascoltarli.
Verità lapalissiana spesso deliberatamente ignorata, l'incapacità di ascoltare e peraltro anche di vedere ciò a cui non si vuole riconoscere esistenza è, mi pare, un dato di profonda urgenza oggi, così come non accettare la pressione politica che viene esercitata in direzione di questa percezione selettiva – si vedono e si ascoltano solo alcuni, e quelle parole son legge. Il resto non esiste – è la morte effettiva del vivere civile.
Hannah Arendt diceva che il potere di una dittatura risiede non solo nel fatto di costringerti a dire che questo tavolo è una sedia, ma anche nel farti credere che questo tavolo è una sedia. Non hai bisogno più di essere controllato, perché il tuo sguardo e il tuo ascolto selettivo percepiscono solo una comunicazione unilaterale e catalogano solo quella come vera, giusta, esistente. Non è solo la fine della libertà, ma anche il definitivo azzeramento della complessità. Quest'ultima implica la necessità di porsi davanti a scelte problematiche, che appartengono alla capacità deliberativa personale, pur incastrandosi in una dimensione collettiva che, quando è sana, rimane coesa anche se (o proprio perché) accoglie le differenze, di pensiero e di pelle.
Ora, non è che questo orientamento della comunità verso la percezione selettiva, che ci viene venduto come uno strumento di coesione e una difesa oltranzista della “patria”, si possa affermare in qualunque condizione. Al contrario, per il suo successo è indispensabile un dato: chi sposa la privazione del suo personale sguardo sul mondo lo fa perché rinuncia a o non è capace di guadagnare informazioni in autonomia, elaborarle e trarre libere conclusioni. Questo spiega come mai il mio amico, medico geniale e scienziato di grande valore, abbia sposato il pensiero unico e la percezione selettiva. Pur nella sua indiscutibile competenza scientifica, egli è del tutto incapace di leggere i flussi culturali e di accorgersi dei trabocchetti politici. Salva vite, ma ha perso la sua autonomia di pensiero. Peggio: sostiene chi di questa perdita fa il suo strumento di potere più riuscito. E non sa e non vede che costui è peggiore degli altri.
L'ultimo paradosso è che le informazioni, volendo, oggi sono molto più accessibili di un tempo, dunque sarebbe facile rendersi conto delle bugie. Certo cercando con un po' di cognizione e ragionamento. E tuttavia proprio questa enorme accessibilità combinata con una profonda confusione su che cosa sia attendibile e che cosa no, ha determinato il grosso guaio: siccome le informazioni sono contraddittorie e sarebbe troppo faticoso selezionarle, allora scelgo una voce, di norma quella che grida più forte, e ascolto solo quella. Certo, magari passo per ignorante, ma se la mia ignoranza fosse una bandiera da sventolare? Se l'“intellettuale” fosse per definizione disprezzabile? Non potrei smetterla di sentirmi in colpa perché non mi sono documentato e non ho voglia di farlo?
Sembra, a tutti gli effetti, la soluzione migliore per vivere tranquilli. Finché non ci si accorge che, oltre alla necessità di far fatica per formarsi un'opinione, si è persa anche tutta la libertà, e ci si è fatti criceti su una ruota.

Nicoletta Vallorani