Rivista Anarchica Online





La tragica vicenda di Peppino Impastato, assassinato 41 anni fa dalla mafia, rivive in uno spettacolo nato in Sardegna. E si connette con la memoria di tanti episodi “neri” delle istituzioni. Compresa quella di Pinelli



Peppino Impastato


“Facciamo finta che... chistu è Pippinu”

di Gerry Ferrara

Dalla irriverente, sarcastica e geniale scelta di un brano “normalizzante e rassicurante” (che cantava Ombretta Colli) come sigla di Onda Pazza dalle frequenze antimafiose di Radio Aut, inizia un percorso intorno ai temi e alla figura di Peppino Impastato, a 41 anni dal suo massacro, che prende spunto dal libro “Peppino Impastato, un giullare contro la mafia” (edizioni BeccoGiallo), dal quale è stata ricavata una mostra curata dall'Ass. Menabò e dal Museo dell'Ossidiana di Pau (Sardegna) dal titolo “La provocazione della bellezza” (materia e pensiero, forma e parola, che sovversive queste ragazze del museo!) e che si evolve con un percorso musicale declinato da Gerardo Ferrara (voce e percussioni) e dal maestro Tonino Macis (chitarra e mandoloncello) il cui dialogo è sollecitato da testi di autori dall'agire libertario e “abusivo” e scandito da sonorità e canti “innestati” in una sorta di “ragionamento” sulle condizioni avverse e antidemocratiche (semmai la democrazia possa ancora avere un senso) che stiamo vivendo, oggi, nel nostro paese.
Ne scrivono per noi Eleonora Serpi (già collaboratrice per No poteri buoni) e Giulia Balzano (”diversamente archeologa”) da luoghi ed esperienza “antimafiopoli”.
Facciamo finta che... perché Otello Profazio cantava: “Su seculi chi dura sta canzuna... Tutti l'appalti e li concessioni l'avi la mafia, la mafia disponi. La mafia impera, cummana e fa liggi. Lu Stati duna e la mafia siggi.”... perché Giorgio Gaber, apocalitticamente lucido: “Io se fossi Dio direi che siamo complici oppure deficienti, che questi delinquenti, queste ignobili carogne, non nascondono neanche le loro vergogne e sono tutti i giorni sui nostri teleschermi e mostrano sorridenti le maschere di cera e sembrano tutti contro la sporca macchia nera. Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato perché la macchia nera è lo Stato.”
“Facciamo finta che tutto va ben...”, perché la mafia è uno stato d'animo, è uno stato dell'essere, è vivere in uno Stato comafioso.

Gerry Ferrara


La locandina dello spettacolo
“Facciamo finta che... chistu è Pippinu”



La sconfitta sociale

di Eleonora Serpi

La serata del 4 giugno, allo Spazio Kairòs di Cagliari, dedicata a Peppino Impastato, comincia con un foglio bianco. Foglio che Gerardo Ferrara, voce narrante della serata, porge al pubblico chiedendo di scrivere, in due parole, cosa sia per ognuno di noi la mafia. Il foglio inizia così il suo viaggio, passando di mano in mano, mentre Gerardo comincia a parlare accompagnato dalla chitarra di Tonino Macis. A 41 anni dal brutale assassinio di Peppino, avvenuto il 9 maggio 1978, a Cinisi, ci viene proposto un percorso riflessivo su quello che la mafia è e su ciò che fa, alle persone, alle cose e alle comunità. Una riflessione che passa attraverso la musica, la poesia, l'arte e le citazioni di personaggi di cui tutti conosciamo il nome, ma di cui non sappiamo niente. Perché di mafia di norma non si parla.

Canti e declamazioni solenni e rabbiose

Di mafia non si parla perché non conviene, che chi ne parla si sa che fine fa, ma anche perché spesso, in molte parti d'Italia, sopravvive ancora la sciocca convinzione che la mafia esista solo in Sicilia o peggio ancora si ritiene, mentendo silenziosamente a se stessi, che non esista affatto. Perché nonostante le molte vittime mietute negli anni, e che ancora oggi vengono mietute e nel silenzio raccolte e piante, siamo ancora a questo punto. Siamo ancora al punto di chi tace e non chiama le cose con il loro nome. “Facciamo finta che...chistu è Pippinu” è un progetto che trae il suo nome dalla sigla di Onda pazza, “trasmissione satiro-schizo-politica sui problemi locali” dalle frequenze radiofoniche anti-mafiose di Radio Aut, “Facciamo finta che tutto va ben...” di Ombretta Colli. Prende spunto dal libro a fumetti Peppino Impastato, un giullare contro la mafia di Marco Rizzo, autore anche di altri libri quali Fiabe di impegno civile e La mafia spiegata ai bambini, e Lelio Bonaccorso, al suo esordio proprio con questo progetto edito dalle edizioni BeccoGiallo.
In chiusura del libro Rizzo scrive: “Grazie ai miei genitori per avermi educato a quei valori di legalità e giustizia per i quali, anche attraverso libri come questo, noi combattiamo” e noi siamo grati a lui e al suo collega per la loro lotta e per la cruda delicatezza del loro lavoro, che con una sintesi puntuale ed accurata dei fatti e dei disegni incredibili riesce a far emergere perfettamente il ritratto di Peppino e del suo operato, restituendo al lettore tutto l'impatto emotivo e sociale che la sua storia ha avuto e continua ad avere.
Durante la serata vengono proiettate alcune tavole del libro, tra le quali sono inserite le illustrazioni realizzate in tempo reale, penna su carta, dal giovane illustratore bergamasco Nicolò Reina (tra i protagonisti del progetto “Atelier dell'Errore”) in occasione di alcune repliche di “Facciamo finta che...”, ed un video-contributo dell'Associazione Antimafia Peppino Impastato di Cagliari, realizzato da Salvatore Bandinu che attraverso un reportage fotografico racconta la sua visita a Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato a Cinisi.
Voce e chitarra ci coinvolgono in un discorso che è una mescolanza di canti e declamazioni solenni e rabbiose, che aprono una finestra su ciò che la mafia ha fatto e continua a fare al nostro paese, attraverso il ricordo delle voci di chi la mafia e l'ingiustizia, in ogni loro forma, l'hanno combattuta davvero. E accanto al nome di Peppino troviamo i nomi, le parole e le storie di Pippo Fava (giornalista e intellettuale), Masaniello (rivoluzionario napoletano), Rocco Scotellaro (poeta contadino lucano), Giancarlo Siani (giornalista “abusivo”), Franco Francesco Mastrogiovanni (maestro elementare e anarchico), Giuseppe Pinelli (partigiano, ferroviere e anarchico); e con loro troviamo anche artisti come Giorgio Gaber che in “Io se fossi Dio” cantava “perché la macchia nera è lo Stato”, Faber con Disamistade, Tonino Zurlo e l'Ulivo che canta, Rino Gaetano con “Fabbricando case”, Paolo Messina e Pippo Pollina con i loro “Versi per la libertà”, Pino Daniele con la sua affilata poetica sociale e di denuncia, Carlo Levi, Enzo Del Re, Otello Profazio, Pier Paolo Pasolini e altri, in un tessuto di teatro-canzone sulle mafie e i fascismi di ieri e di oggi.
I ragionamenti di Gerardo, incastrati tra le citazioni di questi resistenti, sono lineari, sinceri e duri e colpiscono in pieno volto con la forza di un pugno. Gerardo parla di informazione mafiosa, di manipolazione delle informazioni e distrazione dalla realtà e quando ne parla l'atmosfera cambia. Perché le sue parole ci costringono a chiederci quante volte ci accertiamo della veridicità di ciò che leggiamo e sentiamo, ci instilla il dubbio. Quante volte ci siamo lasciati manipolare? Perché non ce ne siamo preoccupati?
Quando il foglio arriva nelle mie mani ho le idee chiare su cose scrivere. Io scrivo “sconfitta sociale”, questo è ciò che per me è la mafia.
Siamo mafia tutti, senza esclusione. Lo siamo ogni volta che cerchiamo una scorciatoia o ci pieghiamo a un'ingiustizia, lo siamo ogni volta che ci voltiamo dall'altra parte e ci rassegniamo a pensare che non possiamo farci nulla. Siamo noi la mafia perché ormai ci ha avvelenato il cervello, abbiamo assimilato così bene quella forma mentis che ormai ci viene naturale pensare in un certo modo, così tanto che ormai non ce ne rendiamo nemmeno conto.

Protestando e dicendo che la mafia c'è

Siamo tutti schiavi della nostra mentalità mafiosa. E per spezzare queste catene dovremmo parlare, diffondere le storie di chi si è opposto, di chi ha detto no ed è morto per la sua libertà e quella degli altri. Dovremmo guardare al coraggio e all'integrità di questi uomini e seguire il loro esempio opponendoci all'ingiustizia, alzandoci in piedi, protestando e dicendo che la mafia c'è, esiste, è ovunque e fa schifo, e non ha valore e noi la distruggeremo perché siamo uomini liberi. “Ca lu nomme suo fa paura, ca se si chiamma libertà” recita un canto sociale napoletano, ed è vero. La libertà fa paura perché è una cosetta fragile, e va preservata perché di inalienabile l'ingiustizia non conosce nulla, e ci vuole coraggio per mantenersela stretta. Liberi si nasce, in schiavitù ci lasciamo ridurre con la resa e l'abitudine, così come al silenzio.

Eleonora Serpi





Facciamo un gioco

di Giulia Balzano

Siamo nel piccolo paese di Pau, sul grande massiccio vulcanico del Monte Arci. È il mese di aprile del 2019. È l'Ossid_Azione #14 – la tappa di un lungo viaggio iniziato anni fa, un progetto di incontri di esplosiva generatività e di soste all'ombra di boschi antichi. Un progetto che apre gli spazi del Museo dell'ossidiana alle forme spesso disorientanti della creatività, e che chiede a chiunque ne varchi la soglia di non dimenticare che ogni luogo è una casa, e ogni casa è abitata – nessuno spazio è sterile e neutro, mai.

“Peppino!”.
Lui si volta appena. Solleva le spalle e sorride. Non è cambiato quasi per nulla, è magro e spigoloso, e coi capelli alla “oggi come viene”.
“E oggi come ti viene, Peppì?” – “Oggi mi viene che li lascio come vogliono stare”. Peppino che ha 30 anni per sempre. Come uno scherzo balordo, inchiodato a se stesso e a una foto in bianco e nero.  Quasi sempre quella foto. Che lui ora non ci può fare nulla.
“Peppino Impastato, aspetta!”.
Non rallenta il passo, le gambe si muovono con l'urgenza delle cose che ancora premono, del magma che risale  dal fondo e produce sillabe incandescenti, e versi che tagliano. Rime che ridono forti. E che commuovono di vulnerabilità.
“Aspetta Peppino... Facciamo un gioco. Facciamo finta che?”.
Entrano dietro i suoi passi Gerardo Ferrara e Tonino Macis.
Portano sulla scena in penombra del Museo una narrazione di musica e di parole che raggiunge momenti di rara intensità.
“Facciamo finta che... chistu è Pippinu” – tamburo e mandolino.
“Va bene. Facciamo finta che oggi ho 70 anni. Più uno. Anni settantuno. Tanti sarebbero”. 
“Sì. Facciamo finta che tutti i segni che il tempo non ha fatto in tempo a disegnarti sulla faccia, oggi te li insegna lei, l'ossidiana.  E facciamo finta che i vulcani non si spengano, e le nostre capacità di ribellione nemmeno”. 
“Facciamo che tutto questo non sia per finta. E che non sia invano che io abbia 30 anni per sempre”.
È il giorno 6 del mese di aprile, è un sabato. Un pomeriggio di primavera ancora incerta. Lui si affaccia nelle sale dell'ossidiana attraverso i segni a matita di Lelio Bonaccorso, e la regia narrativa di Marco Rizzo. Le tavole di Peppino Impastato. Un giullare contro la mafia, dell'editore veneto Becco Giallo, vagabondano per il museo, esplorano le sue penombre, immagini appena disorientate che cercano il loro dove, all'ombra riposante di un bosco antico.
Peppino ha lo sguardo dritto e la discrezione delle parole pronunciate sottovoce. Ed ha la provocazione della bellezza. Quella che non ha timidezza, e che non esiste modo perché sia controllata – non da altri, e nemmeno da chi ne è parte.
Entrano le sue scarpe e le sue poesie. La sua voce dissacrante sulle frequenze libere di Radio AUT. La sua Onda Pazza si mischia alle onde che attraversano l'ossidiana, così tanto che neanche Peppino poteva immaginare quanto: quante siano le onde che incessanti taglino l'esistenza. Era il 1976, allora. Era un'isola piena di contraddizioni, la sua Sicilia. E quella ai microfoni era un'anima contraddetta e contra-dicente.
È il 2019, oggi. L'isola è un'altra, ha un nome diverso ma in fondo sempre il medesimo – ché un'isola non è altro che un'isola, terra in mezzo ai mari – e non è meno piena di movimenti e di posizionamenti contraddittori.
L'anima di Peppino è la nostra anima: contraddetta e che contraddice. E capace anche di dirsi responsabilmente di parte: “Io non ho mai smesso di stare dalla parte della bellezza, per esempio”, dice Peppino. “E voi altre e voi altri, voi a cosa date forma, qui dentro?”.
Non perderci di vista, Peppino. E non mancarci mai. Abbiamo da incontrarci sulle onde. Quelle che spostano da dove eravamo, e poggiano in un posto nuovo.  E per fare questo non si è mai fuori tempo massimo. Mai. Anche se quel giorno del 9 maggio, in un'altra primavera, una pietra usata come un'arma ti ha inchiodato a terra. Era il 1978. Sono passati oltre 40 anni, di onde pazze e di onde che qualcuno ha provato a sedare. E di pietre nere che tagliano come sapevi tagliare, fragili quanto eri fragile di disarmo, e che non inchiodano ad alcuna croce ma dalle croci liberano.

Giulia Balzano