Rivista Anarchica Online





Le Alpi, le guerre, quelle frontiere assurde

Non so se esista al mondo una frontiera più insanguinata delle Alpi. Anche in quest'angolo di nord-ovest, dove la Grande Guerra non è passata, i segni di altre guerre sono ovunque, confusi nel paesaggio ai segni del lavoro umano: ai muretti a secco, ai terrazzamenti, alle mulattiere, ai forni della calce e alle carbonaie, che ormai il bosco si riprende insieme alle vecchie ferite.
A volte saltano fuori all'improvviso, come la palla di piombo che un amico ha trovato tagliando un vecchio larice, ben conficcata nel tronco. Aveva forse trecento anni, quell'albero, e il mio amico ha bestemmiato quando ha sentito i denti della motosega mordere il metallo: prima ha pensato a un chiodo, poi ha estratto dal legno una palla da moschetto che qualche soldato deve aver sparato nel corso dell'Ottocento.

Lago della Battaglia

È strano immaginare gli eserciti spararsi tra questi boschi che ora sono delle lepri, delle volpi, dei caprioli, e da poco anche dei lupi. Come è strano immaginare il motivo per cui il lago lassù, che a 2500 metri riflette soltanto le nuvole e il cielo, è chiamato Lago della Battaglia, benché nessuno sappia più quale battaglia fosse. Non lontano da lì un giorno camminavo fuori dai sentieri, quando nel mezzo della pietraia ho trovato una gavetta di ferro arrugginito, con tanto di numero di matricola, tra gli ultimi nevai di luglio e le rocce che raramente vedono la luce del sole. Quella era chiaramente una reliquia del Novecento.
Sono state tutte guerre diverse, secoli diversi, che ora si confondono tra loro nel silenzio della montagna abbandonata. Non è un male che l'uomo con le sue guerre se ne sia andato altrove. Ora lassù è tutto delle aquile, dei camosci, degli stambecchi, delle marmotte e degli ermellini, il tronco del vecchio larice fa da fontana davanti a casa mia e la gavetta è un vaso di fiori appeso al balcone.

Colle della Ranzola

C'è un passo, poco oltre il nostro villaggio, che oggi separa soltanto due valli, due pascoli, due alpeggi, due fianchi della stessa montagna, ma per molto tempo ha separato due Stati (o Regni, o Imperi, o quello che erano allora). Si chiama Colle della Ranzola. Abbiamo trovato in una vecchia cassapanca un documento del Settecento in cui si stabiliva quanti soldati dovessero stare di guardia su quello e gli altri punti di transito dello spartiacque. Due o tre soldati sui passi più impervi, venti o trenta sui passi più battuti. Oggi alla Ranzola ci sono una cappella e un muretto a secco, e chi ci sale difficilmente immagina che quella cappella era un posto di guardia, quel muretto una frontiera. A ben vedere si distingue dai muretti che dividono i pascoli perché la sua faccia superiore non è in piano, è un po' inclinata verso valle. L'inclinazione serviva a sparare a chi veniva su.

Col di Joux

Oltre il passo, scendendo di qualche metro sull'altro versante, nel prato dove le mucche pascolano in agosto c'è un rudere che sembrerebbe una vecchia stalla, ma anche lì la forma è un po' strana, e i pastori lo chiamano ancora “l'ospedale di Napoleone”. Forse non di Napoleone in persona, ma certo di qualche soldato francese che attaccò e conquistò il passo nel maggio del 1800, mentre gli austriaci dal muretto sparavano.
Poco lontano dalla cappella c'è una madonnina, sotto la madonnina una targa che ricorda il passaggio non di eserciti, ma di uno scrittore: Lev Tolstoj che di lì transitò il 20 giugno 1857, annotando sul suo diario “aria pura e rarefatta, suoni chiari sui monti, odori di segala e melissa, un ragazzo canta”. Tanti altri che nessuno ricorda sono passati per le transumanze, per andare a lavorare da una valle all'altra, per emigrare in Francia o in Svizzera e per tornare a casa. Qualcuno, chissà, sarà passato per amore; qualcun altro per salvarsi la vita.

Primo Levi

Da quel passo se ne vede un altro che sta proprio di fronte, il Col di Joux dove Primo Levi fu arrestato il 13 dicembre del ’43. Primo, nato proprio cent'anni fa, amava la Valle d'Aosta: quassù, poco prima della guerra, aveva imparato ad andare in montagna dal suo amico Sandro Delmastro, “d'estate, di rifugio in rifugio, a ubriacarci di sole, di fatica e di vento, e a limarci la pelle dei polpastrelli su roccia mai prima toccata da mano d'uomo”, quassù con Sandro aveva assaggiato la “carne dell'orso”, che è “il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino”.
Esentato in quanto ebreo dal servizio militare, l'8 settembre si trovava con la sua famiglia in villeggiatura al Col di Joux: lasciò madre e sorella e si unì a una banda partigiana improvvisata, restò in montagna per tre mesi e infine fu tradito, catturato e spedito in lager. Scrisse che la montagna l'aveva allenato alle durezze di Auschwitz, che anche grazie a lei si era salvato, e di questo la ringraziava; rimpiangeva che fosse servita a lui e non a Sandro, comandante di Giustizia e Libertà trucidato a Cuneo pochi mesi più tardi.

Mario Rigoni Stern

Appena oltre il Col di Joux si vede la piana d'Aosta dove Mario Rigoni Stern fece la scuola d'alpino e da dove nel giugno del ’40 fu spedito a partecipare all'attacco alla Francia, già messa in ginocchio dai tedeschi e non più in grado di difendersi.
Scendendo oltre il colle del Piccolo San Bernardo, Mario si accorse di trovarsi sì oltre la frontiera, in un altro paese, sotto un'altra bandiera, ma sulla stessa montagna. “Dall'orlo di un bosco vidi un rustico fabbricato d'alpeggio, ma non c'erano mandrie né persone. La porta era spalancata, sul tavolo c'erano umili stoviglie sbeccate e i rimasugli di una fredda polenta; sul pavimento erano sparsi in disordine poveri capi di biancheria femminile. Provai vergogna verso chi aveva profanato quell'intimità, ma anche di me”. Avrebbe provato la stessa vergogna in Russia, andando a fare la guerra tra i contadini. Nei lunghi anni da soldato, e poi da prigioniero per essersi rifiutato di aderire a Salò, Mario scoprì che al di là di ogni frontiera c'erano le stesse stalle, lo stesso bestiame, gli stessi mestieri, lo stesso attaccamento alla terra, lo stesso coraggio, la stessa dignità. “Al mondo siamo tutti paesani”, scrisse.

Colle del Piccolo San Bernardo

Un po' più lontano, verso sud-ovest, se salgo fino ai 3000 metri delle montagne sopra a casa arrivo a scorgere anche la pianura piemontese e il Monviso che la sovrasta. Quelli sono i posti di Nuto Revelli, l'altro centenario di questa storia (Primo e Nuto erano del ’19, Mario del ’21). Anche Nuto ne aveva fatte di guerre, prima da alpino in Russia e poi da partigiano nelle valli cuneesi, in una banda di Giustizia e Libertà che si riparò a Paraloup, un pugno di baite non diverso dai villaggi diroccati che conosco bene. Alla fine, persa una guerra e vinta l'altra, trovò una continuità tra l'esperienza della Russia e quella della Resistenza, erano i contadini al cui fianco aveva combattuto, e per questo raccontò le due guerre in un unico libro che intitolò “La guerra dei poveri”.

Nuto Revelli

E poi, dismesse le armi, tornò in montagna per capire un'altra tragedia, quella sociale che portava i giovani ad abbandonare i paesi per lavorare nelle fabbriche di pianura, perdere le proprie radici e farsi ingranaggi della catena di montaggio: la stessa storia di ogni valle delle Alpi, la stessa di questo villaggio che negli anni Cinquanta contava un'ottantina di abitanti, oggi meno di dieci (me compreso). “Il mondo dei vinti”, il libro che nel ’77 Nuto trasse dai suoi incontri con gli ultimi montanari, è ancora adesso lo studio più prezioso, appassionato e dolente sullo spopolamento alpino, la fine della civiltà di montagna estinta dalle guerre e dall'età industriale.

Piana d'Aosta

Ora lassù è tutto delle aquile, dei camosci e dei lupi. Qua e là anche degli esseri umani che restano o che tornano. Dei figli che ricordano e dei padri che vengono ricordati, come questi tre uomini di cui ho provato a raccontare. Tra loro si volevano bene e io sono contento di vedere alcune delle loro montagne da casa mia. Uno dei tre scriveva anche poesie, era l'unico nato in città e questa la dedicò ai suoi amici montanari:

Ho due fratelli con molta vita alle spalle
nati all'ombra delle montagne.
Hanno imparato l'indignazione
nella neve di un paese lontano,
ed hanno scritto libri non inutili.
Come me, hanno tollerato la vista
di Medusa, che non li ha impietriti.
Non si sono lasciati impietrire
dalla lenta nevicata dei giorni.

Paolo Cognetti