Rivista Anarchica Online





Barcellona/
82 anni dopo, ritrovata una foto dei funerali di Barbieri e Berneri

Ottantadue anni dopo, è saltata fuori una foto scattata nel maggio 1937 a Barcellona. La prima dei funerali di due noti anarchici, assassinati dai comunisti nelle tragiche “giornate di maggio”.
L'ha pubblicata, il 22 agosto scorso, il quotidiano spagnolo El Pais, che riferisce del ritrovamento ad Amsterdam di centinaia di foto scattate da Kati Horna ad opera della storica dell'arte Almudena Rubio. La stessa ha curato la schedatura del fondo fotografico della compagna Kati Horna, una giovane fotografa incaricata dall'Oficina de Propaganda Exterior della CNT-FAI. Il fondo è depositato presso l'IISG (Istituto internazionale di storia sociale) di Amsterdam.
Gli anarchici Francesco Barbieri e Camillo Berneri – i cui funerali appaiono nella foto qui riportata – furono uccisi la notte del 5 maggio 1937 nella Barcellona lacerata dall'attacco stalinista e catalanista alla sede della Compagnia Telefonica. L'edificio era stato conquistato dalla CNT-FAI, il sindacato e l'organizzazione specifica strettamente unite a partire dal 19 luglio 1936, giorno della risposta popolare e libertaria al golpe dei militari reazionari.

Barcellona, 11 maggio 1937 - I funerali degli anarchici
Francesco Barbieri e Camillo Berneri assassinati dai comunisti

Berneri era accorso subito a Barcellona e aveva avuto un ruolo rilevante nella fondazione della Sezione Italiana della Colonna Ascaso (a cui partecipavano anche militanti di altre tendenze, come Carlo Rosselli, sostenitori dell'antifascismo d'azione). Nell'ottobre del 1936, Berneri aveva fondato “Guerra di Classe”, giornale basato sulla convinzione che “guerra civile e rivoluzione sociale sono due aspetti di una realtà unica”. Berneri era quindi un cruciale punto di riferimento per il movimento italiano prima sul fronte aragonese e poi in Catalogna. Il giornale esprimeva critiche esplicite alla volontà egemonica dell'URSS e dei suoi seguaci in Spagna. Ad ogni modo, ai primi di maggio Berneri ricordava Antonio Gramsci, da poco deceduto, a Radio Barcellona. E due giorni dopo era vittima della repressione stalinista con Francesco Barbieri, un compagno molto attivo sul terreno dell'azione.
Il comunista Giuseppe Di Vittorio rivendicò il duplice assassinio come legittima difesa da parte della “rivoluzione democratica”.

Claudio Venza



Intervista a Cesare Basile/
Folk-blues di rivolta

Sono passati vent'anni dagli esordi di Cesare Basile, cantautore e rocker catanese che ha saputo cambiare pelle passando gradualmente da un rock introverso, poetico e tinto di nero, a un folk esotico e militante in dialetto siciliano, attraversando pagine di pura poesia in musica che non di rado rievocano la grandezza del compianto De André.
I suoi album, che per due volte si sono aggiudicati la Targa Tenco, hanno un respiro internazionale, non fosse altro che per i collaboratori: da Hugo Race a John Parish, a membri di band come dEUS, Dead Can Dance, PJ Harvey, Scisma.
L'undicesimo splendido lavoro dal titolo “Cummeddia” (cometa), uscito a metà ottobre in vinile, cd e digitale per l'etichetta Urtovox, vede agli arrangiamenti lo stesso Hugo Race, il mitico tamburellista siculo Alfio Antico e i membri della band di Basile, i “Caminanti”, ovvero Massimo Ferrarotto, Sara Ardizzoni, Luca Recchia, Gino Robair e la cantante salentina Vera Di Lecce che mosse i primi passi nei giovani Nidi D'Arac. L'album anticipa un tour di concerti autogestito senza l'ausilio di agenzie di booking. Ma ormai il cantautore è ben conosciuto anche all'estero e proprio l'anno scorso ha suonato a Barcellona al Primavera Sound Festival davanti a centinaia di fan urlanti, come abbiamo ricordato nell'intervista che segue.

Cesare Basile

Tobia - Sei uscito, dunque, dai confini nazionali, nonostante l'utilizzo del dialetto siculo che parrebbe andare in senso opposto. E a Barcellona c'era tanta gente ad ascoltarti...
Cesare Basile - Io provo a non considerarli i confini nazionali, anche se la musica che si fa in Italia sembra costretta a vivere e morire all'interno di questi confini. L'incontro è il senso di ogni esistenza, ancor più per un musicista. Nell'altro, negli altri, con l'altro e gli altri, imparo e insegno, scopro la povertà di considerare il “mio” l'unico modo possibile. Questo il senso del mio internazionalismo.

Riesci a conciliare e integrare la tua più recente produzione in dialetto con le canzoni dei tuoi primi album in Italiano? Suoni ancora dal vivo brani da “Closet Meraviglia”, ad esempio?
Sono anime che si mischiano e stanno sempre insieme, il siciliano di Cesare Basile non esisterebbe senza quelle canzoni... anche se no, non suono brani da “Closet Meraviglia”.

Da bravo anarchico hai iniziato l'album demolendo il concetto di Patria in “Mala La Terra”: “non canto la Patria/ ma chiamo paese/ tutti i dolori/ lì dove stanno messi/ quando la menzogna/ ti cerca il dovere/ mala la terra che è Patria”.
Oggi più che mai è fondamentale sottolineare la menzogna che si cela dietro questa parola. Quando si invoca la Patria si sta preparando una porcheria a danno dei più deboli. La Patria legittima ogni abuso, ogni restrizione della libertà, ogni serrata a danno della dignità di ogni singolo essere umano.

A una prima impressione, questo tuo folk-blues scarno ed essenziale si avvicina molto alla musica del deserto nordafricano suonata, ad esempio, da artisti come Bombino e Tinariwen (“E Sugnu Talianu”, “La Curannera”, “Chiurma Limusinanti”).
Ho ritrovato nella musica del Nordafrica quella corda pazza che ogni siciliano ha nel cervello. Una sorta di empatia ancestrale che mi ha ricondotto all'immaginario popolare della mia terra, terra di incroci e meticciato. Il suono della frontiera, dove i confini scompaiono l'uno nell'altro.

Ha senso dire che musicalmente sei sempre più minimale? Riesci a svelare meglio il senso della tua ricerca?
Ha a che fare col mare, con la reiterazione del suo mutare, del fuggire le leggi di terra.

Durante il primo minuto d'ascolto c'è un rumore in sottofondo: è una barca di pescatori, un gommone di contrabbandieri o un barcone di migranti?
È quel rumore di fondo che precede e accompagna la bugia.

“La naca ri l'annijati”, ovvero “la culla degli annegati” è una canzone dedicata ai migranti morti in mare?
La morte di Cristo bambino per annegamento, in ognuno di quei bambini uccisi in mare dallo Stato.

C'è un velo dark che ricopre questo lavoro. Forse un pessimismo di fondo, o l'idea, come nel brano che dà il titolo all'album, che qualcosa di apparentemente bello come una cometa (cummeddia) sia in realtà presagio di sventure, l'annuncio della peste.
Prima di scrivere queste canzoni ho lavorato per quasi un anno con un collettivo del Teatro Coppola su “Lo Stato d'Assedio” di Albert Camus. Le canzoni sono frutto di quel lavoro, di riflessioni e improvvisazioni sul tema dell'emergenza. La cometa è in genere annuncio di eventi sociali conflittuali, può portare allo Stato d'Assedio, come racconta Camus, ma anche allo stravolgimento dell'ordine, al sovvertimento di ogni valore fin qui dato per scontato, come sostiene Antonin Artaud. Il velo ha a che fare con l'esito dell'evento che porta in sé contemporaneamente la rivolta e il cordone autoritario.

In “Cchi voli riri”, ad esempio, gli uomini portano distruzione sulla terra facendosi guerra...
Ancora una riflessione sull'incapacità di comprendersi quando dalla nostra bocca escono parole come Patria, Stato, Governo, Razza, Famiglia. Questo testo viene proprio dal laboratorio su “Lo Stato d'Assedio”.

Mentre “L'Arvulu Rossu” è il primo singolo estratto dall'album. Cosa sono le registrazioni audio in sottofondo?
È la storia della persecuzione che gli omosessuali catanesi furono costretti a subire sotto il Fascismo da parte del questore Molina. Mi è stata ispirata da un bellissimo libro, La Città e l'Isola, di Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio. Le registrazioni che senti sono brani dell'ordinanza di Molina che condanna al confino i “pederasti”.

Le sette veneri zoppe sembrano delle streghe, ma il testo è un po' criptico e ambiguo. Il protagonista è vittima di un incantesimo? Parlaci della dimensione magica nella cultura siciliana.
Le sette veneri sono quelle che la tradizione popolare siciliana chiama Donne di fuori. Creature della notte che visitano le case e giocano con le nostre certezze. Nello specifico cambiano il nome a un bambino stravolgendone l'esistenza. Potrebbe essere una rilettura de La favola del figlio cambiato di Pirandello. Non so quanto la cultura siciliana sia caratterizzata da un approccio magico; sicuramente la tradizione popolare mi ha dato nella magia un potente filtro narrativo.

In “E Sugnu Talianu”, invece, sei totalmente trasparente: “quelli che erano primi ora cosa sono/ ora che lo schifo fa terremoto/ i peggiori comandano le feste/ la peste ha fatto pustola dentro le teste/ perché a questo mondo non c'è più che fare/ siamo nelle mani di tanti traditori/ non puoi sapere da chi guardarti/ non c'è pietà, amico, e neanche onore”.
Non ho scritto io quel testo, ho riadattato un brano di tradizione in cui il narratore vomita lo schifo per gli eventi risorgimentali visti come tradimento delle aspettative e della partecipazione popolare alla cacciata dei Borboni. Cambiare padrone non è libertà, recita il mio amico Salvo Ruolo.

Ne “La Curannera” viene fuori un erotismo represso nei corpi della gente del sud. E sembra un quadro, esplosivo, che descrive alla perfezione il potere liberatorio della danza...
Anche questo testo viene dalla tradizione, l'ho riadattato per omaggiare Cristina Ria, danzatrice e ricercatrice salentina scomparsa un anno fa e madre di Vera Di Lecce, compagna nei Caminanti, il gruppo con cui ho realizzato questo disco e con cui suono dal vivo.

Ricordo che nel 2013 rifiutasti il premio Tenco per sottolineare il “conflitto fra chi vuole una cultura liberata e chi, invece, la cultura vuole amministrarla per mantenere privilegi”. Sono passati sei anni... Due parole sullo stato del rock italiano?
Mi sembra che il rock italiano non si preoccupi molto della cosa...

Com'è la situazione negli spazi autogestiti in Sicilia, a partire dal Teatro Coppola occupato a Catania?
Resistiamo, anche se spesso cerchiamo la Peste negli altri.

“Ci lasci la peste che dorme nei cassetti mentre io la cerco fuori”, canti nella title-track “Cummeddia”, una ballata romantica e un po' triste in cui la fisarmonica e la chitarra pizzicata solleticano la poesia del testo. La peste, più volte evocata, rappresenta l'avidità, la stoltezza che caratterizzano i nostri tempi?
Come ti ho detto quest'album è un confronto continuo con la Peste, specialmente con quella che ci portiamo dentro. L'autoritarismo vive in ognuno di noi, e noi stessi, in prima istanza, siamo il campo di battaglia in cui si combatte per liberarci.

Tobia D'Onofrio



Chiang Mai, Thailandia/
Il Gay Pride, dopo 10 anni radical

Il 21 febbraio scorso, la comunità Lgbtq thailandese ha finalmente potuto ripercorrere le strade della turistica Chiang Mai, Thailandia del Nord, per prendere parte al Gay Pride, dopo esattamente dieci anni di silenzio. Il 21 febbraio 2009 l'orgoglioso corteo venne infatti interrotto con violenza da più di 200 esponenti del gruppo “Rak Chiang Mai 51”, notoriamente conosciuti come “Camicie rosse”1 per l'abbigliamento indossato, che esponevano cartelli offensivi e contestavano la battaglia per il riconoscimento dei diritti arcobaleno.
Pochi giorni prima, nel corso di un talk show televisivo, uno dei principali esponenti dell'attivismo Lgbtq, Natee Teerarojanapong, attaccò il presidente del comitato organizzatore del Chiang Mai Gay Pride, Pongthorn Chanleun, allora direttore di “Mplus”, collettivo transgender di Chiang Mai. Tutto questo creò una grave divisione interna e una delegittimazione dell'operato del comitato organizzatore del Pride di Chiang Mai.
Nonostante le rassicurazioni sull'autorizzazione – sia dalle autorità locali che dalla polizia – del corteo, dalle 16.30 il gruppo “Rak Chiang Mai 51” si era riunito fuori dal piazzale del tempio del Buddha Satian, dove una ventina degli organizzatori principalmente thailandesi si erano già riuniti per preparare il corteo.
Gli attivisti circondarono il complesso, gridando insulti e commenti omofobi e rifiutando l'ingresso agli altri partecipanti. Circa 80 poliziotti erano schierati sul perimetro della piazza, cercando di mantenere l'ordine senza però difendere i manifestanti né aiutarli ad entrare.
All'interno, una famiglia espatriata con 5 bambini, tutti travestiti per la parata, venne minacciata dagli attivisti, che gettarono acqua contenente spine di cactus, causando loro dolore e irritazione. Secondo i membri del “Rak Chiang Mai 51” il Gay Pride era stato organizzato dal gruppo locale “Mplus” con l'intenzione di denigrare e danneggiare la cultura, la storia e il patrimonio lanna della bella città di Chiang Mai. Dichiararono che tali eventi avrebbero dovuto essere permanentemente vietati in città, bloccando i carri e dimostrando violentemente il loro disappunto. Infine, Phetchawat e cinque leader del gruppo entrarono nel piazzale chiedendo l'interruzione della parata e le scuse degli organizzatori. Non avendo altra scelta, temendo un esito violento in caso di rifiuto, gli organizzatori accettarono a malincuore.
Pongthorn Chanlearn, uno degli organizzatori della parata, dichiarò in seguito: “Questa è la prima volta che gruppi conservatori attaccano gli omosessuali, nonostante essi dicano che stanno lottando per la democrazia. Tutto ciò non è affatto democratico, è piuttosto ingiusto.” Molti simpatizzanti, sia omosessuali che eterosessuali, compresi gli studenti di Chiang Mai, hanno espresso solidarietà e amarezza per i fatti avvenuti. Da quel momento in poi le organizzazioni coinvolte continuarono ad agire, attivando reti di supporto e contro-informazione sulla prevenzione di malattie veneree e discriminazione di genere e fondando la rete “Sao-Sao-et”2 (“Saturday the 21st”) il cui operato ha portato al 21 febbraio scorso, quando le strade della città sono state attraversate da un corteo pacifico e colorato, senza interruzioni né contestazioni, per concludersi a Tapae Gate, una delle porte principali della città vecchia e cuore del turismo, con una meditazione collettiva in ricordo delle vittime dell'omofobia e nella speranza di un futuro sempre più accogliente. Un vero riscatto che offre l'occasione per addentrarci in un'analisi più dettagliata sulla situazione transgender.
Tra i paesi del Sud-est Asiatico, la Thailandia è quello che forse conserva più evidenti le tracce del passato storico e artistico e al contempo è a tutti gli effetti un luogo turistico evoluto. Chiunque vi abbia messo piede, sicuramente avrà potuto notare una almeno apparente tolleranza dell'identità di genere: travestiti, o per meglio dire kathoey, o all'inglese ladyboy e tom-dee, si muovono in totale libertà nella vita quotidiana. Kathoey o katoey è un termine thai che si riferisce sia ad una donna transgender sia ad un uomo gay. Un alto numero di thailandesi percepisce i kathoey come appartenenti ad un terzo genere, anche gli stessi kathoey percepiscono in tal modo se stessi, mentre altri li vedono come un tipo di uomo o di donna.
La parola kathoey trova la sua origine nella lingua khmer ed è più spesso resa come ladyboy o “signora-ragazzo” e quest'ultima espressione è diventata popolare in tutto il sud-est asiatico.
Con l'appellativo di tom è definita e identificata una donna che si veste, si comporta e ha un modo di esprimersi esageratamente maschile; non necessariamente deve trattarsi di una donna lesbica, ma come tale viene facilmente percepita dagli altri. Le donne tom portano i capelli corti, a caschetto, una notevole deviazione rispetto al senso del gusto comune che giudica i capelli lunghi come uno dei segni principali di bellezza femminile. Solitamente poi le donne indossano lunghe gonne e in molti uffici governativi ciò risulta essere obbligatorio, mentre sono vietati tute e pantaloni per le donne; l'abbigliamento delle tom invece è composto da pantaloni, sandali e camicia maschile.
Dee è una donna omosessuale o bisessuale che segue invece molto fedelmente le norme di genere verso l'esterno; una Dee si veste, si comporta e parla in modo tale da favorire il riconoscimento in lei della tipicità femminile. Le manifestazioni pubbliche di affetto tra maschi e femmine vengono fortemente disapprovate e stigmatizzate all'interno della cultura thai; mentre tenersi per mano, abbracciarsi e baciarsi tra individui dello stesso sesso è considerato un po' come la norma.
In tal modo, un eventuale effettivo rapporto amoroso tra le Tom e le Dee può rimanere del tutto invisibile agli occhi del mondo. Col termine ladyboy ci si riferisce genericamente a un uomo che si veste, si comporta e parla come una donna, assumendo in tutto e per tutto un'identità femminile, fino a svolgere un ruolo sociale da donna. Anche se il termine è spesso stato tradotto come transgender, quest'ultima è una parola usata solo molto raramente in Thailandia. Ladyboy e kathoey vengono accettati universalmente in tutti gli strati della società, non solo nelle grandi città, ma anche nelle campagne e nelle zone più interne e isolate del paese. Sebbene le kathoey siano state sempre parte, integrante ma distinta, della società, tuttavia non hanno mai raggiunto un vero e proprio status di uguaglianza rispetto a tutti gli altri cittadini; vi sono ancora molte restrizioni che le provengono dall'identità che ha assunto, differente da quella del proprio sesso di appartenenza per nascita: non possono ad esempio sposarsi, non essendo in grado di cambiare ufficialmente genere sui documenti ufficiali che le riguardano. Molte hanno trovato il successo entrando nel mondo dello spettacolo o della moda, mentre altre lavorano in cabaret e night club, così da poter mantenersi senza esser costrette per forza di cose a ricorrere alla prostituzione.
La tendenza per le kathoey di esser parte normale dei programmi d'intrattenimento in Tv, al cinema o nei media in generale, è un fatto piuttosto recente e s'accompagna alla sempre più ampia conoscenza dei diritti Lgbtq.

Gaia Raimondi

  1. Le Camicie Rosse rappresentano un movimento popolare guidato dallo United Front for Democracy against Dictatorship (Udd), una coalizione di quelle forze politiche contrarie al colpo di stato militare che, nel settembre 2006, depose l'allora primo ministro Thaksin Shinawatra, democraticamente eletto un anno prima. Da un punto di vista popolare, il movimento è espressione della Thailandia rurale e del malcontento che, nelle campagne come nelle città al di fuori di Bangkok, si oppone all'eccessiva concentrazione di potere politico ed economico nella capitale, accusata di crescere a scapito del resto del paese. Dal gennaio 2011, le Camicie Rosse – sebbene con una leadership decimata da frequenti arresti e persecuzioni da parte del governo – sono riuscite a riorganizzarsi, radunandosi regolarmente due volte al mese per ricordare le vittime degli scontri e chiedere nuove elezioni.
  2. Per la cronaca completa si vedano: www.outrightinternational.org, prachatai.com, www.gaynews.it.



Nanyuki, Kenya/
Un eco-villaggio per non dover emigrare

Moof Africa è un eco-villaggio a Nanyuki, in Kenya, con fattoria biologica, ristorante e ostello. Promuove principi di vita sostenibile alla base del Monte Kenya.
È una ONG che lavora seguendo lo sviluppo sostenibile, dove vengono utilizzati i concetti di eco-villaggio per offrire alla comunità soluzioni locali che hanno poi un impatto globale: l'organizzazione rende disponibili agli agricoltori locali e alle comunità internazionali le conoscenze sulle tecnologie ecologiche indispensabili per soddisfare i bisogni primari dell'umanità, per consentirci di conservare la nostra madre terra.
Peter Murage è nato nella contea di Nyeri, nel Kenya centrale. È cresciuto in una piccola azienda agricola con dieci fratelli. Produrre abbastanza cibo per nutrire tutta la famiglia è stata una sfida. Sua madre, che ha lavorato instancabilmente per fornirgli cibo in abbondanza, lo ha ispirato e ha incoraggiato Peter a lavorare nella fattoria, a essere legato al sistema alimentare.
A Peter piaceva coltivare il cibo e desiderava aiutare gli agricoltori locali ad aumentare i loro raccolti. Ha frequentato l'Università Jomo Kenyatta per studiare agricoltura e gestione delle risorse idriche. Dopo la laurea è stato assunto dal Ministero dell'Agricoltura. È diventato un consulente territoriale che suggeriva ai contadini rurali metodi di lavorazione. All'inizio della sua attività, quando Peter dava consigli convenzionali e tradizionali agli agricoltori, notava un temporaneo incremento dei raccolti, che presto iniziavano a decrescere per poi rimanere stabili. Capì che l'efficacia dei fertilizzanti stava diminuendo.
Nel Regno Unito, Peter ha studiato Permaculture Design e poi si è formato in agricoltura sostenibile e sviluppo rurale. Si è convinto che l'agricoltura biologica sia la scelta migliore per affrontare l'emergenza alimentare, problema di importanza globale, e ha lavorato con molti coltivatori biologici.

La coltivazione dell'orto

Moof Africa è una fattoria biologica integrata di 6 acri con ortaggi, frutta, erbe, allevamenti di polli e pesce.
L'azienda agricola lavora con l'ambiente circostante e non contro di esso, procurando cibo sano e sicuro a chi ne ha bisogno, e creando un modello che può essere replicato in tutto il Kenya. Riconoscendo la necessità di diffondere la stabilità economica in tutta l'Africa, ha creato un modello economicamente valido che cerca di essere un centro di formazione e anche un esempio da seguire. L'agricoltura sostenibile ed ecologica deve essere socialmente responsabile ed economicamente sostenibile. L'azienda lavora contro i cambiamenti climatici e non vuole contribuire ad essi. Questa è la sua visione globale.
Moof Africa aiuta le comunità rurali a diversificare la loro alimentazione. Nelle aree rurali molte famiglie non assumono una quantità sufficiente di proteine. Ciò comporta un aumento del rachitismo nei bambini fino ai cinque anni di età, rende più bassa la concentrazione dei bambini a scuola, e ha come effetto un alto livello di analfabetismo nella regione.
La carne di manzo, montone e pollo venduta nelle macellerie locali è molto costosa e fuori dalle loro possibilità. Moof collabora con il Ministero dell'agricoltura, dell'allevamento e della pesca per allevare pesce di alta qualità in semplici stagni poco profondi.
Ci sono 100 piccoli contadini-imprenditori impegnati nell'allevamento ittico e il Ministero dell'agricoltura fornisce gli avannotti e le reti da pesca. Il costo per 1.000 avannotti di Tilapia è di 100 dollari. L'acqua delle vasche dei pesci è ricca di minerali ed è usata per l'irrigazione di verdure per uso domestico.

Una delle vasche per l'allevamento di pesci Tilapia

Moof Africa offre opportunità di lavoro nella fattoria alle donne, alle ragazze che lasciano la scuola e alle mamme single. La maggior parte delle donne in questa regione lavora nelle aziende agricole che producono fiori recisi su larga scala, in serre con caldo intenso, a contatto con pesticidi dannosi per la salute. Le donne sono entusiaste all'idea di lavorare la terra con le loro mani per nutrire la famiglia e proteggere la salute.
Essere occupate a Moof Africa impedisce alle donne di andare in città con il rischio di diventare prostitute o essere costrette a sposare uomini radicalizzati; inoltre l'impegno in attività agroalimentari redditizie le sottrae da un viaggio disperato sui barconi verso l'Europa.
Una donazione aiuterà a creare occupazione a altre donne che potranno lavorare in un ambiente più sicuro con una paga giusta, o aiutare più famiglie ad acquistare pesci Tilapia da allevare nelle vasche.

Per fare donazioni:
moofafrica.com/donate

Sito: moofafrica.com/italiano

Enrico Massetti



Lavoratori museali a Milano/
Condizioni lavorative: pessime

«Quando c'è lavoro bisogna lavorare il più possibile perché il prossimo mese non si sa». Questa è la frase più ricorrente tra i miei colleghi della Domina, cooperativa che opera in vari ambiti, tra i quali spicca il settore della custodia museale. La quantità di ore lavorabili, infatti, è variabile e dipende dalla quantità di appalti che la cooperativa riesce ad aggiudicarsi. L'orario di lavoro è imprevedibile: non è raro essere chiamati a poche ore di distanza dal servizio che si dovrà svolgere. In tali casi, è meglio farsi trovare pronti, «perché se dici di no una, due, tre volte, va a finire che non ti fanno lavorare più».
Al momento dell'assunzione, i lavoratori sottoscrivono un contratto di tipo intermittente (c.d. job on call). Ne esistono due tipologie: con o senza obbligo di rispondere positivamente alla chiamata del datore di lavoro. Abbiamo tutti sottoscritto il secondo, restando perciò liberi di rinunciare – in caso di necessità – alle ore lavorative, senza che tale rinuncia sia in alcun modo sanzionabile. Tale libertà, tuttavia, resta per lo più sulla carta: se è vero che il lavoratore si può astenere dal lavorare, è anche vero che il datore è libero di non chiamarlo più. Il fatto che ciò accada o meno dipende totalmente dal buon senso di quest'ultimo. Lo strumento contrattuale, quindi, diventa una formidabile arma di ricatto in mano alle società: lavori quando e come decido io o stai a casa. Il ricambio è sempre pronto: schiere di studenti, laureati in attesa di trovare un impiego migliore, lavoratori migranti, giovani che non hanno studiato sono pronti a prendere il tuo posto.
I musei milanesi, sia civici che privati, affidano il servizio di custodia di mostre, eventi culturali, sfilate di moda, o anche solo cene aziendali, a società operanti nel settore, che si occupano di fornire la forza lavoro. Tali società sono spesso cooperative di comodo, dette anche spurie: cioè prive dei connotati mutualistici. I lavoratori sono formalmente dei soci ma, in concreto, non hanno voce in capitolo nelle decisioni aziendali. Tagliati fuori dalla gestione sociale della cooperativa, finiscono per essere dei semplici lavoratori subordinati. In alcuni casi, il servizio di custodia è affidato a società di tipo diverso dalle cooperative, ma il risultato non cambia: i lavoratori subiscono condizioni lavorative pessime, di gran lunga peggiori rispetto a quelle di cui godono i dipendenti diretti dei musei. Per fare un esempio, a Palazzo Reale, pur svolgendo le stesse mansioni, i lavoratori assunti dalle società che si succedono nella gestione degli appalti guadagnano nettamente meno rispetto ai loro colleghi assunti dal museo.
Grazie a questo sistema, i musei si liberano dell'onere di assumere e gestire nuovo personale. D'altra parte, la legislazione in materia di appalti consente loro di non incorrere in nessuna responsabilità: nell'ambito pubblico, a differenza di quello privato, non esiste la responsabilità solidale del committente. Così, se una di queste società chiude o semplicemente non paga i propri dipendenti, questi non possono chiedere che sia il museo a farlo.
A completare il quadro ci pensano i Contratti Collettivi. Nel caso di Domina, si tratta nientemeno che del contratto di categoria sottoscritto da Filcams, Fisascat e Uiltucs – facenti capo, rispettivamente, a CGIL, CISL e UIL – e prevede delle condizioni salariali di semisfruttamento. La paga prevista per il livello A1 – al quale appartengono le mansioni di custodia e vigilanza – è di 5,38 euro l'ora, lordi. Le classiche 8 ore al giorno, 40 a settimana, assicurano uno stipendio di circa 860 euro al mese, dai quali vanno detratti tasse e contributi. A Milano, con quella cifra ci paghi l'affitto di una stanza. Stando così le cose, quasi tutti finiscono per lavorare sei giorni su sette, privilegiando il lavoro domenicale perché la paga è di poco più alta. I più arditi, raccontano di aver ricevuto buste paga da 1000 euro (lordi, s'intende).
È difficile pensare che le cose possano cambiare nel breve termine. Il settore della custodia museale, per quel che riguarda le società che si contendono gli appalti nel panorama milanese, è totalmente privo di sindacalizzazione. D'altra parte, queste condizioni rendono impossibile qualsiasi forma di autorganizzazione. Alcuni mesi fa, quando ormai si approssimava la chiusura di una mostra, non sapendo cosa avremmo fatto di lì a qualche settimana, e non ricevendo alcuna comunicazione da parte della società, abbiamo organizzato degli incontri tra colleghi per discutere sul da farsi e creare una piattaforma di richieste condivise da sottoporre alla società.
È bastato l'allontanamento di qualche collega sgradito perché si calmassero le acque. Tutto legale, ci mancherebbe: il contratto a chiamata funziona così. Certo, si potrebbe provare che la condotta del datore di lavoro è stata discriminatoria ma senza l'appoggio di un sindacato è improbabile che con 5,38 euro lordi l'ora ci si rivolga a un avvocato.
La fine della mostra, un mese senza appalti – salvo qualche evento di breve durata – e la conseguente penuria di ore lavorabili hanno fatto il resto: di riunioni non si è più parlato.

Andrea Pinducciu



Femminicidio/
Questa volta dietro casa mia

Da qui a quando questo articolo verrà stampato passeranno quasi due mesi, un tempo che spero possa servire a “dire tutta la verità” sull'ennesima brutta storia di femminicidio, accaduta questa volta nella provincia di Piacenza. Non dico a “fare giustizia” perché nel mio modo di intendere per essere giusti bisognerebbe incominciare a modificare il tessuto socio-culturale che continua a produrre questo genere di violenza. Di certo l'uomo che ha commesso l'assassinio verrà punito: ha ucciso e la sua vita subirà le conseguenze che la legge attuale prevede; ma entrambi, vittima e carnefice, sono vittime, in forme radicalmente differenti, di un sistema – a loro probabilmente ignoto – su cui la giustizia non interviene e che continua a rimanere inalterato, salvo leggere variazioni di superficie che non intaccano la sostanza. Allora non si può parlare di giustizia. Se l'ingiustizia è sociale e politica, la punizione del singolo (certamente indispensabile, ma si dovrebbe discutere molto sull'efficacia reale dei nostri sistemi carcerari e si aprirebbe un lungo capitolo a parte) conforta gli animi fino alla prossima volta.
Riuscire a dire la verità, senza confusioni mistificatorie, sarebbe già gran cosa rispetto a un'informazione giornalistica, non solo locale, che ha giocato tutte le squallide modalità di prassi per influenzare favorevolmente l'opinione pubblica rispetto alla figura dell'uomo, che è italiano, eterosessuale e di razza bianca; non dimentichiamocelo, altrimenti avremmo letto ben altro se si fosse trattato di un migrante di colore.
Questa volta i fatti sono accaduti proprio qui dove abito, fuori dalla porta di casa mia, in un territorio di cui conosco il carattere, in una zona dell'appennino emiliano che spesso percorro a piedi. La cosa, che non rende questa triste storia più degna di attenzione di un'altra, spinge me a voler insistere sul bisogno di dire le cose con chiarezza. Fortunatamente non sono l'unica, e molte voci femminili si sono indignate di fronte ad alcune modalità di raccontare la faccenda dell'ennesimo femminicidio per mano maschile come movente “passionale” in cui l'uomo rifiutato non tollera l'oltraggio (in questo caso rifiutato esplicitamente come amante/fidanzato, ma non come essere umano visto che c'era una frequentazione amicale che durava da tempo).
Elisa era una giovane donna, dichiaratamente lesbica e ben conosciuta nel circolo Arcigay cittadino. Lavorava all'interno di un'attività famigliare e, a quanto ci è dato capire, viveva la sua vita senza nascondersi, ma di questo non è quasi mai stato detto. È apparso evidente come sull'omosessualità di una persona sia meglio glissare, quella cosa che si sa ma non si dice. Ci troviamo così ad aver a che fare con una violenza doppia, perché oltre alla morte c'è anche il giudizio sotteso di una società piccola, meschina e ipocrita: “Sì, forse era una brava ragazza, però lesbica, insomma, c'è qualcosa che non va”. Spero non accada che questo fatto divenga addirittura un'attenuante, che non si arrivi a insinuare che se lui è colpevole, lei in qualche modo se l'è cercata. Cosa lo frequentava a fare? (Un quotidiano nazionale, ad esempio, ha definito “confusione sessuale” la scelta lesbica di Elisa).
Riporto poche righe tratte da un lungo post di Carlotta Cossutta (del collettivo femminista/queer Ambrosia di Milano) – che attinge al libro di Monique Witting, Il pensiero eterosessuale, curato da Federico Zappino – utili a mostrare la realtà in cui ci troviamo: “Per ricordare che per molti uomini essere lesbica è un affronto da curare con violenze, stupri e morte. Ricordando che sono quasi sempre maschi a difendere l'obbligo all'eterosessualità in maniera strenua: picchiando e uccidendo gay, trans e lesbiche, per questo la violenza di genere è violenza maschile. Ed è, aggiungo, violenza eterosessuale, nel senso che si basa su un binarismo di generi e ruoli in cui uno, la donna, deve essere e rimanere subalterno per far esistere l'altro. E vengono colpiti tutti i soggetti che vi sfuggono”.
Anche in questo caso di assassinio, compiuto con tutti i crismi, dall'occultamento di cadavere alla cancellazione di tracce, alla costruzione di alibi fino alla lunga latitanza.
Allora se vogliamo dire la verità guardiamo quest'uomo e quello che ha provocato alla luce del tritacarne del sistema patriarcale che condiziona la psiche – degli uomini come delle donne – a proprio uso e consumo, ma piantiamola con il piagnisteo sul “gigante buono”, sulla persona semplice, grande e grossa ma brava, uno che la notte sarebbe andato a dormire accanto al cadavere perché l'amava tanto, uno che ammette di aver commesso una “stupidaggine”, ma ha perso la testa in un “raptus” a furia di venir rifiutato.
Sarebbe ora di uscire dalle pastoie pietistiche e che gli uomini – non nel senso neutro del termine ma proprio i maschi – si indignassero e alzassero la voce assumendosi la responsabilità collettiva di agire per modificare l'ordine patriarcale che sta sempre più degenerando.
Appartengo a una generazione cresciuta nella contraddizione di limitare parecchio la sua libertà di “movimento”, per via della figura maschile interiorizzata come potenziale fastidio/pericolo mentre, allo stesso tempo, sprecava tempo nel tentativo di adeguarsi al “come tu mi vuoi”. È stato un percorso lungo, ma alcuni risultati noi donne ultrasessantenni (forse non tutte) li abbiamo raggiunti, però la paura, quella no, non se n'è andata e, ad esempio, continua a presentarsi quando da sola, poiché amo camminare, percorro i sentieri meno battuti della bella campagna in cui vivo, dove non son certo i cinghiali a inquietarmi e dove ciò di cui ho scritto è accaduto.
Da giovane ho creduto che questo fosse il normale stato delle cose, considerando che gli uomini erano sempre giustificati mentre nostro compito era lo stare attente al “dove vai come ti comporti” per non mettersi in situazioni pericolose. Oggi son convinta sia soltanto un'aberrazione contro cui lottare.

Silvia Papi



Ricordando Piero Scaramucci/
Una storia di tutti

Il 12 settembre scorso è morto a Milano il giornalista Piero Scaramucci, 82 anni, storica figura della sinistra milanese (e non solo). Fondatore e per lunghi tratti direttore di Radio Popolare, si è impegnato moltissimo nella campagna di controinformazione su piazza Fontana e assassinio Pinelli, tra l'altro scrivendo nel 1982 il bellissimo libro-intervista a Licia Rognini Pinelli Una storia quasi soltanto mia. Più volte, in quegli anni, ce lo siamo ritrovato fisicamente al fianco in iniziative pubbliche e in particolare in conferenze e dibattiti sulla repressione.
Ai funerali, sabato 14 settembre, nel cimitero milanese di Lambrate, eravamo in tantissime/i. Anche un redattore di “A” lo ha ricordato. Il primo ricordo è stato affidato alle due figlie di Pinelli. Ecco le loro parole.

Un fiume di immagini e ricordi, 39 anni fa entravi a casa nostra per quella che fu la più lunga e difficile intervista della tua vita. Due anni di lavoro di cui non ti pentisti mai.
Fu Licia che ti cercò facendo forza sul suo severo riserbo e autocensura, e trovò in te (e noi con lei) una persona di cui potersi fidare e poter finalmente raccontare i dieci anni trascorsi da quella notte in cui due giornalisti si presentarono a casa nostra per avvisarci che a Pino era successa una “disgrazia”, che sembrava “fosse caduto da una finestra”.
Poi... poi ci sei sempre stato, nei momenti belli (come al matrimonio di Silvia) e nei momenti brutti, non come “il giornalista Piero Scaramucci” ma come l'amico Piero, hai girato per l'Italia con Licia per presentare il libro e poi, quando Licia non ce l'ha fatta più, con noi figlie, portando anche una pazienza enorme, te lo riconosciamo, ma mai una volta che tu ti sia tirato indietro.
Forse anche per questo ci sembravi eterno e inossidabile perché non pensi mai che gli amici, quelli veri, possano andarsene, anche se non molto lontano, ma da quella parte invisibile agli occhi che rende i saluti faticosi e immensamente tristi.
Ci mancherà la tua presenza, ci mancherà il tuo modo sportivo di guidare la macchina, ci mancherà il perdersi con te nelle nebbie padane, ci mancherà l'odore della tua pipa e ci mancherà il tuo sorriso.
Ciao Piero!

Licia, Silvia e Claudia Pinelli



Viaggio in Palestina/
La forza è nella comunità

Ripercorro le stesse strade a due anni di distanza dal primo viaggio, cercando gli stessi volti, alcuni di essi divenuti ormai amici, consapevole che in Palestina ogni viaggio offre ben poche risposte, moltiplica piuttosto le domande e costringe a guardarsi dentro.
Quest'anno ho trovato la situazione peggiorata, se possibile. Con le politiche di Trump di appoggio incondizionato a Israele, la crisi economica dell'Unrwa1 (cui sono stati tolti i finanziamenti statunitensi che erano un terzo del totale), e la crisi economica in seno all'ANP (Autorità Nazionale Palestinese), i palestinesi sono in una situazione ancora più drammatica di quella in cui li avevo lasciati; ma nonostante tutto ciò, continuano a resistere.
“Esistere è resistere” è il motto di molti di loro: svegliarsi la mattina e condurre la propria vita in un territorio occupato militarmente da oltre cinquant'anni, ricostruire la propria casa ogni volta che viene distrutta, sostenere la propria comunità; tutto questo è resistenza.
Tra gli aspetti che di nuovo mi hanno colpita di tutte le discussioni affrontate in poco più di venti giorni, sicuramente vi è l'internazionalismo. Sentire un attivista del campo profughi di Dheisheh agitarsi per le lotte degli indigeni delle Hawaii e suggerire a dei visitatori statunitensi di mobilitarsi sul proprio territorio per porre fine alle ingiustizie, ha avuto un forte impatto su di me. “Che cosa potete fare per noi? Pensate a cosa potete fare per voi stessi,” ha detto poi un suo compagno ironicamente a noi italiani. “Lo leggiamo cosa accade in Italia e pensiamo che dovreste preoccuparvi del vostro paese. State facendo abbastanza? Noi affrontiamo la nostra occupazione militare, lo stiamo facendo. Voi? Volete sapere cosa potete fare? Prendete un po' della forza che abbiamo qui e riportatela in Italia, usatela per resistere. Penso che se noi riusciremo a porre fine all'occupazione qui, in qualche modo aiuteremo anche voi, e se voi riuscirete a porre fine a situazioni di oppressione lì, sicuramente aiuterete noi.”
Anche Fayez, attivista e contadino di Tulkarem, ha sempre avuto lo sguardo rivolto oltre la sua terra e ancora si commuove al ricordo di quando manifestò insieme ad altri compagni per la liberazione di Nelson Mandela. Fayez ha visto il muro dell'apartheid sorgere attaccato al suo terreno, e dall'altro lato della sua proprietà, pur essendo in territorio palestinese, è stata poi costruita una fabbrica chimica israeliana. Nonostante tutte le difficoltà e le pressioni Fayez continua la sua vita, si inventa metodi artigianali per produrre biogas e raccogliere acqua piovana, pratica la permacultura e scambia il proprio sapere con eco-villaggi sparsi per il mondo grazie ai quali ha realizzato una banca internazionale di semi, sani e naturali, per non doversi piegare al monopolio della Monsanto che “ti ruba i soldi dal portafogli tre volte: la prima quando ti vende dei semi poco resistenti, la seconda quando acquisti prodotti chimici per far sopravvivere le tue piante e la terza quando devi acquistare i farmaci per curare le malattie che essi hanno causato.”

Una rete internazionale

Rashed è invece un attivista della Valle del Giordano, un territorio pari a circa il 30% della Cisgiordania, quasi interamente in area C in cui la politica dell'occupante è quella di vietare e limitare l'accesso alle risorse idriche alla popolazione locale, espandere le colonie (che la comunità internazionale considera illegali2 ma che aumentano, anno dopo anno), distruggere le abitazioni. Rashed fa parte di un movimento che cerca di unire le comunità della Valle del Giordano, di creare una rete, e di costruire poi legami con associazioni e realtà internazionali. “Vorrei che non ci fossero i confini. Immagina un mondo senza”, mi dice. E mentre mi spiega come sia importante che le comunità si mobilitino autonomamente, che riprendano a resistere com'era una volta, senza aspettarsi niente dalle istituzioni e dalla politica, mentre mi racconta di come la prima intifada fosse un moto spontaneo e acefalo, difficile da gestire perché senza una direzione, io gli domando cosa pensi dell'anarchia.
“Cos'è l'anarchia?” mi chiede lui. Provo dunque a spiegarlo sommariamente e a parole mie, gli parlo della critica al potere, dell'importanza dell'utilizzo di mezzi e pratiche antiautoritarie per dar vita a una società senza padroni e senza oppressi. Lui ci pensa un po' guardando le stelle, sullo sfondo le luci della Giordania, al di là di un confine che la notte sottrae ai nostri occhi. Sorride e mi dice: “Posso entrarci anche io? Nell'anarchia?”
Ma visto che è sbagliato identificare nelle pratiche altrui quello che io ho nella mia testa, smetto di voler dare un nome a me caro al suo e al loro modo di vivere e mi limito semplicemente a osservare in silenzio come il villaggio accorra gratuitamente a dare una mano il giorno del raccolto, mi limito ad ascoltare racconti su come le persone trovino la forza di ricostruire la propria casa ogni volta, a volte anche venti volte, quando quella che viene distrutta è solo una tenda perché nemmeno è stato dato il tempo di ricostruire una casa prima della distruzione successiva. Scopro che la forza di queste persone è tutta nella comunità: nel fatto che non si è mai da soli a soffrire, non si è mai da soli a ricostruire e che il proprio dolore è parte di un dolore più grande, collettivo, che si affronta e si cura insieme.
Per questo probabilmente quando ho chiesto se davanti a tutte quelle difficoltà c'è gente che decide di togliersi la vita la risposta è stata “Suicidio? Cos'è il suicidio?” e dopo averlo spiegato, e aver detto loro che in Europa avviene spesso, alcuni di loro mi hanno risposto: “Perché la vostra è una società individualista. Perché voi siete soli. Da noi è molto raro che accada.” È buffo come i vocabolari di due popoli contengano termini per l'altro incomprensibili ed è bello sedersi a un tavolo o per terra a spiegarsi e comprendersi, davanti a un caffè al cardamomo bollente che non finisce mai.
Se chiudo gli occhi mi sembra di essere ancora per le stradine strette del campo profughi di Dheisheh, tra le case che si espandono in verticale, con lo scheletro di ferro e le colonne di cemento che non terminano all'ultimo piano ma proseguono indefinitamente verso l'alto. Un non-finito che ha poco di michelangiolesco, ma sa di attesa, di necessità e di resilienza. Nel 1949, in questo specifico campo, bastava meno di un km² per accogliere i profughi, ma dove mettere i figli dei figli dei figli, tutta la vita nata in settant'anni di vite sospese, se non sulle spalle dei propri genitori? Generazione in generazione, l'albero genealogico in carne e ossa si legge in verticale, dal basso verso l'alto.

Gli attacchi dell'esercito israeliano

Le anguste vie di Dheisheh sono oggi attraversate anche da giovani ragazzi consapevoli. Mentre ci raccontava degli attacchi che l'esercito occupante conduce nel campo circa 2 volte a settimana (talvolta per “semplice” esercitazione) uno di loro ha pronunciato parole che sono arrivate come pietre: “Io non li odio, eppure potrei odiarli, ne avrei tutto il diritto. Quale contatto ho io con gli israeliani? Per me loro sono i coloni e i soldati, nient'altro. E per come i coloni e i soldati si comportano con me avrei tutto il diritto di odiarli. Se non lo faccio è per la cultura, è per via della mia educazione. Loro invece vengono qui a migliaia durante il servizio militare e hanno a che fare con una popolazione di civili. Vedono donne, uomini e bambini attraversare i checkpoint, recarsi a scuola e al lavoro e condurre la propria vita come possono. Eppure ci odiano. Perché? Probabilmente è l'educazione che gli manca, la cultura. I mizrachim3 sono discriminati nel loro stato, vengono trattati come cittadini di serie B e poi vengono qui con il fucile e ci trattano peggio di come ci trattano gli ashkenaziti4. Vogliono dimostrare di essere anche loro bravi soldati e bravi cittadini o sfogano semplicemente la loro frustrazione su di noi. E noi come la sfoghiamo la nostra frustrazione?”
Come può sfogarla N., una madre dagli occhi caldi e azzurrissimi, che mi racconta del dolore provato quando hanno imprigionato suo figlio per due anni e le hanno permesso di vederlo solo tre mesi dopo l'arresto? Lei è già stata avvertita del fatto che a breve sarà il turno del secondogenito, e ogni volta che sente l'esercito entrare nel campo aspetta che i suoi figli si vestano per sedere tutti insieme sul divano, attendendo il momento preannunciato. “È dura. La prigionia, la distanza, ma noi non abbiamo paura. Noi siamo felici”, dice mentre accarezza il figlio e bisticcia con lui allo stesso tempo, facendomi ridere alle loro battute anche se parlano in arabo, perché sono così espressivi che la lingua, per una volta, cessa di essere una barriera insormontabile.
E ai suoi occhi azzurri contrappongo gli occhi castani di A.: svegli, ironici e immuni alla stanchezza nonostante lui dorma non più di tre ore a notte e abbia una vita frenetica in cui si incastrano lavori vari, volontariato e impegni, accompagnati da litri di caffè e da un'infinità di sigarette. Tutto studiato nel dettaglio per non avere momenti morti per pensare all'occupazione, agli amici persi, ai palestinesi che non sono più come una volta. “Alcuni giovani pensano a divertirsi, fumano robaccia e si perdono. Che cosa sta succedendo? Noi abbiamo bisogno di loro, devono studiare, capire, impegnarsi, vivere la comunità”.
A. non ha grandi illusioni sulla fine dell'occupazione, ma “almeno faccio qualcosa”, mi dice. E quel qualcosa è soprattutto impegnare i più giovani del campo in attività sociali e culturali, stimolarli a dar vita alle proprie idee e a propri progetti.
Si è parlato tanto in questi caldi giorni di agosto. Si è parlato dell'occupazione e della resistenza, della corruzione dell'ANP, dei prigionieri politici e degli scioperi della fame, della morte, dei pellegrini che accorrono in “terra santa” con il naso verso il cielo in cerca di dio e non vedono gli uomini e le donne che camminano loro accanto. Mi sento come se fossi scesa in qualche girone infernale, senza la compagnia di un antico poeta ma con quella di ragazzi e ragazze che cantavano e ballavano la dabka, con cui ho riso e fumato la shisha, con cui ho pianto anche, ma che mi hanno davvero insegnato a ridere anche quando gli occhi sono umidi e opachi.
“Smile to confuse this fucking war” è il motto personale che mi aveva confessato di ripetere a se stesso un ragazzo di Nablus, due anni fa. Anche chi non esplicita questo pensiero lo mette in pratica in Palestina.

Sulla via del ritorno ...

Mentre stavo per partire ho incrociato un amico che tornava da una manifestazione. Si trattava della manifestazione indetta per Israa Ghrayeb, una ventunenne palestinese che sembra essere stata uccisa dai suoi parenti per aver “disonorato” la famiglia uscendo con un ragazzo con cui non era ancora sposata. Centinaia di donne e molti uomini si sono ritrovati in piazza per protestare contro il delitto d'onore, la violenza sulle donne e il femminicidio. Dovremmo essere vicine a queste donne coraggiose che sono costrette a lottare su più fronti: contro l'occupazione, contro la corruzione e contro il patriarcato. Per i propri diritti in quanto donne, per una società più giusta. Tutto questo richiede una quantità di energie inimmaginabile, ma le donne sono forti e coraggiose, e anche in Palestina continuano a lottare.

Nina Santer

  1. United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East.
  2. Ad esempio la risoluzione 446 del 1979 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dichiara che «la politica israeliana di costruzione di insediamenti nei territori palestinesi e negli altri territori arabi occupati dal 1967 non ha validità legale e costituisce un serio ostacolo per il raggiungimento di una pace esauriente, giusta e duratura nel Medio Oriente».
  3. Ebrei provenienti dal mondo arabo.
  4. Ebrei di provenienza europea.