Rivista Anarchica Online





Come tenersi alla giusta distanza dai monumenti

Chissà come mai, forse per passaparola o è stata colpa di qualcuno che mi ha pensato e mi ha ficcato nella lista, ma la scorsa primavera sono capitato in mezzo a una raccolta di fondi per realizzare un disco. Sono cose che non faccio praticamente più, stavolta non so perché ma decido che ci sto.
Motivo uno: il tono complessivamente simpatico della richiesta, magari ero in giornata buona non so. Motivo due: non li avevo mai ascoltati ma del gruppo avevo già sentito parlare, e bene molto bene benissimo con una spinta particolare sul benissimo. Questo porta velocemente al motivo tre: mi piace sostenere le produzioni di margine, quelle dove la musica scorrazza libera a nitrire e zompare e liberare flatulenze in zone dove i confini di genere e di stile sono poco chiari, e qui direi che ci siamo e alla stragrandissima.
Mando i soldi e dopo un po' ci si scrive con uno dei musicisti, che deve aver capito chi-sono-e-cosa-faccio-qui-dentro e mi allunga una versione digitale del lavoro molto prima della data convenuta di pubblicazione. Ascolto, riascolto, ri-riascolto, ri-ri-riascolto e vado avanti così. Cominciamo a raccontare dei protagonisti, eccoli: Fabrizio Elvetico, Pasquale Termini, Ivano Cipolletta e Gianluca Paladino in ordine sparso Illachime Quartet. Sono un vero e proprio quartetto in questo cd, nei precedenti sembra più un duo o un trio con ospiti (sforbicio quei tre-quattro nomi da una lista luuunga: Rhys Chatham, Domenico Sciajno, Graham Lewis dei Wire, Mark Stewart etc.) e osservo che già messa così la storia è affascinante: un quartetto senza una o senza due gambe, ma con tante mani e tante teste trasformato in un'orchestra evanescente.
Il cd è uscito adesso e si chiama “Soundtracks for parties on the edge of the void” (per quei due o tre che ancora non masticano un po' d'inglese sta press'a poco per: musica per feste sull'orlo del nulla) ed è il loro quarto album, autoprodotto e indipendente come del resto gli altri. Dunque non è opera di cantina, direi piuttosto opera di sala grande, anzi opera di strada, di piazza, di spazi aperti come la riva del mare: stracarico di collaborazioni e contributi, di gente che si affolla e parla e canta e suona e aggiunge e ci mette le mani, testimonianza vivente e sonora di quanto sia importante fare insieme costruire insieme, essere ciascuno parte di una comunità.

La copertina dell'album Soundtracks
for parties on the edge of the void

Tra parentesi, osservo che l'essere ricorsi al crowdfunding per realizzare il disco secondo me acquista proprio in questo senso un particolare gusto: mi sento in qualche modo portato dentro al progetto, sento che anche le mie mani hanno in qualche modo lasciato un segno e questo mi rende felice ma non basta: mi fa vedere me stesso in un'accezione migliore. Parentesi psicologica chiusa, torniamo al disco. Potrebbe essere che con l'età e l'accatastarsi piramidale degli ascolti ho affinato l'olfatto e magari rastrellato dell'intuito, ma mi dico e vi dico che ho fatto proprio bene a partecipare alla colletta: trovo sarebbe stato un disastro mettere un tappo sopra a questo lavoro, costringerlo all'attesa, al congelamento, al silenzio o ai bassifondi, al sottoterra.
Addentrarsi all'ascolto è come decidere una volta per tutte che si è diventati grandi, che è ora di ascoltare la versione del lupo ed affrontare il bosco senza più paura. Un salto al di là del reticolato, qualche passo deciso ed ecco, sorpresa: dentro ci ho trovato quanto di meglio finora mi sia entrato in testa dalle orecchie. Senza offesa per nessuno almeno lo spero mi sono ritrovato ad attraversare zone musicali nuove ma proprio nuove e che pure riconosco come già conosciute, parte del mio intimo, dei miei respiri più profondi: queste mi sembrano partiture zappiane del tempo di “Chunga's revenge”, per dire le cose di cui sono fatti i miei sogni di ragazzo, il vinile con cui sono cresciuto e che senz'altro ha contribuito a dare la forma che hanno alle contorsioni del mio gusto e della mia sensibilità.
Nel disco dell'Illachime Quartet ci respiro dentro le aurore boreali dei King Crimson periodo “Starless and bible black”, quello dove la matematica stabile delle composizioni mette piede in territori dai contorni più incerti e si fa ammaliare dalla precarietà dell'equilibrio dell'improvvisazione. Dentro c'è tanta musica seria, intendo Musica Seria quella con le maiuscole che incutono un po' di timore, quella con gli spartiti dove le note sono diventate macchie e rumore, strappi sul pentagramma, disegni in aria e suggerimenti diretti al fondo dell'anima. Quella Musica Seria fatta dai nomigrandi nei teatri coi nomigrandi che ci sono in giro per il mondo, e trovo davvero strabiliante che per questi ragazzi sia stato possibile aggiungere del movimento e dell'aria nuova a certi monumenti mantenendoli alla giusta distanza e soprattutto senza renderli una discarica da cui fare un po' di raccolta differenziata.

Illachime Quartet

Il disco, una tavola imbandita

Nel disco c'è un invito a cena esagerato: una tavola imbandita come un giardino. Per cominciare c'è tutta una serie di assaggi delle strade felliniane, dei circhi piccoli quelli che una volta venivano nei quartieri poveri, circhi fatti di sonagli tamburi e pagliacci tristi, di giocolieri saltimbanchi e trapezisti e cagnolini e soprattutto di sogni smisuratamente grandi, di quelli che occupano tutto il posto in cielo. Per primo piatto la nostalgia delle cose che ci stavano intorno quando eravamo bambini, certi vestiti, certo cibo, la luce di certi posti che è rimasta intrappolata nei ricordi. Come piatto forte una grigliata mista di frammenti del prog migliore, intendendo per migliore quello che si suonava quando ancora non lo si chiamava così, quello che si riesce ad ascoltare ancora oggi senza farsi sanguinare le orecchie e i sentimenti, quello fatto di sangue sudore e lacrime e soprattutto voglia di lottare e liberarsi, di giocare e sperimentare. Quello rimasto inattaccato dal veleno punk che ha invece azzannato i dinosauri mirando a pancia e chiappe inseguendoli senza tregua fino a confinarli nelle riserve delle ristampe audiophile pressing su vinile a 180 grammi - decisamente un brutto posto dove stare, diciamocelo. Il dolce e il vino non ve li racconto, ma in un orecchio piano piano potrei dirvi che l'Illachime Quartet ha fatto uno dei dischi più belli che mi siano mai venuti ad abitare nel cuore.
Nella realizzazione del cd c'è di mezzo l'Asilo Filangieri, lo stesso posto dov'è stato realizzato l'altrettanto stupefacente “Asylum” di Antonio Raia per cui ho sbavato su queste pagine neanche un paio di numeri fa.

Contatti: www.illachime.net.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it