Rivista Anarchica Online






La traiettoria straordinaria di un uomo normale
(ma pazzo per la musica)

intervista a Dario Toccaceli

“A casa mia si cantava dalla mattina alla sera, mia madre è morta cantando. Negli ultimi anni aveva il parkinson, gli prese un attacco e l'hanno ricoverata all'ospedale: vado verso la sua stanza e la sento cantare una delle sue arie preferite, una canzone romana... aveva 85 anni e cantava con la voce di sempre, mi sono un po' rincuorato. Dopo mezz'ora un attacco di febbre molto alta, ed è morta... cantando. Volevo ricantare quella canzone al suo funerale, ma poi sono stato preso dall'emozione.”

Dario Toccaceli è una persona straordinariamente normale, oggi ha l'aspetto di un dinamico patriarca: chioma candida, fluente barba bianca, complessione energica, occhi grandi e belli che ridono spesso, simpatia naturale, voce profonda. L'inflessione si divide fra quella marchigiana delle origini – a cui è tornato da qualche anno – e quella di Roma dove ha vissuto gran parte della sua vita. Nella Capitale ha frequentato due luoghi di riferimento che gli hanno permesso di avere grande familiarità con alcuni dei principali musicisti e cineasti: è stato fra i primi e più assidui frequentatori del Folkstudio e la sua prima moglie è figlia di un leggendario ristoratore romano, Otello, dov'erano di casa quotidianamente Monicelli, Pontecorvo, Gregoretti, ecc.
Dario, appassionato di musica folk americana, ha fatto ricerche sui canti popolari dell'Italia centrale, è stato liutaio per passione e chitarrista e cantante di pregio, non si è mai montato la testa, ha sempre preferito restare nell'ombra mettendosi al servizio degli artisti che amava.

“Da bambino vivevo in una borgata proletaria, famiglia di immigrati dalle Marche. I nostri parenti dal Michigan nel dopoguerra ci mandavano dei pacchi, dentro c'era di tutto: vestiti, camice, scarpe... quando arrivavano ci prendeva un entusiasmo, una festa. Una volta dentro uno di questi pacchi troviamo un disco che però non riuscivo a far suonare sul nostro vecchio grammofono semirotto, perché era uno dei primissimi 33 giri. Contemplavo affascinato la copertina di quel disco che per anni non potetti sentire: era un disco Folkways, canzoni di Woody Guthrie, Pete Seeger, chissà come mai era finito lì, forse solo per riempire il pacco: quello è stato il mio imprinting, per anni a Roma cercavo i dischi di quei nomi che conoscevo a memoria.
Alle feste da ballo, a metà degli anni cinquanta, ognuno portava i suoi dischi, io ero passato al rock and roll, però le cose che mi piacevano di più erano canzoni stile cowboy, tanto che gli amici mi prendevano in giro. A scuola ho avuto qualche professore che mi ha cambiato la vita: la professoressa di inglese Sabatini – una proto-femminista, che in seguito fu gravemente ferita da una manganellata della polizia – usava le ballate popolari per insegnarci la lingua, il professor Bascetta e la professoressa Ingrao (sorella di Pietro) mi fecero conoscere Pasolini e Pavese, mi dicevano “leggi questi libri, perché tu vivi in una realtà come questa”: quella fu l'origine della mia politicizzazione.”

Dario Toccaceli

Il Folkstudio e Pete Seeger

“Nel 1963 avevo vent'anni, già suonavo sulla chitarra i miei tre accordi – beh non è che adesso ne suoni molti di più – lessi sul Messaggero che esisteva questo luogo dedicato alla musica popolare, il Folkstudio, quella sera stessa ci andai. C'era un cestino per le offerte, la star indiscussa era tale Harold Bradley, lo accompagnava un ragazzo che di lì a poco partì militare, io lo sostituii, già da subito mi prese la mania di registrare le serate. Harold Bradley era un giocatore di football venuto a studiare a Perugia, poi a Roma per fare il pittore, visto che nell'arte non eccelleva prese l'abitudine di riunire nel suo studio amici americani, italiani e cantavano, da lì è nata l'idea di creare uno spazio per la musica, molto alla buona... poi è scoppiata la moda del folk ed è successo quel che è successo.
Il suo principale socio era Giancarlo Cesaroni, che non capiva un cazzo di musica: era un compagno pazzoide, alcolizzato, ma ha tenuto botta fino alla fine. Nei primi anni il Folkstudio era il punto di riferimento non solo per gli americanofili ma per tutti i folkloristi, era già frequentato da Giovanna Marini che cominciò a portarsi tutti i suoi amici milanesi, Ivan Della Mea, ecc.
Nel '65 o '66 Settimelli aveva aperto sempre a Roma il Canzoniere dell'Armadio, molto più politicizzato. Cesaroni era marxista, Harold invece era molto religioso e non direi proprio di sinistra, infatti quando la politica prese il sopravvento se ne andò.
Ma torniamo ai primi anni: nel gennaio del 1964 arriva Pete Seeger a Roma per due concerti al Teatro Olimpico – per me era uno di quei nomi sacri letti su quel primo disco – mi ci precipito col mio registratore – un vecchio baraccone Geloso – gli chiedo se posso registrare, e Pete fu subito gentilissimo, avrebbe potuto rifiutarsi perché aveva appena firmato con una grande etichetta.
Ciò che mi fece impressione fu la naturalezza di questa leggenda, di questo padreterno, io sapevo giusto quattro parole di inglese, ma lui si fermava, ti spiegava, avrebbe parlato con l'ultimo reietto come col Presidente. Dopo il secondo concerto lo invitammo a passare al Folkstudio e lui disse subito sì, poi lo accompagnammo a fare una trasmissione televisiva che si chiamava “L'approdo”, della quale non è rimasta traccia. In quel periodo Seeger aveva 45 anni, era fresco di riabilitazione dal maccartismo, aveva appena firmato per una grossa etichetta, la Columbia – gli chiesi “come mai?” e mi rispose “per il movimento: ci servivano soldi e l'unico che stava sulla cresta dell'onda e vendeva i dischi ero io” – così la Columbia gli sponsorizzò quel viaggio mondiale del '64.
Pete è stato da quel momento colui che ha avuto il ruolo più determinante nella mia vita e mi ha influenzato sia socialmente che politicamente.
La parabola di Pete è la più coerente che io abbia conosciuto, persino uno come Bob Dylan definisce Pete “un santo laico”, vuol dire proprio che era un tipo al di sopra della maldicenza. Pete aveva conosciuto in giovinezza molte figure fondamentali come Guthrie, ma poi è stato molto generoso con le generazioni più giovani, spesso cantando le loro canzoni quando non li conosceva nessuno. È passato attraverso le lotte per i diritti civili, contro la segregazione, e poi il Vietnam... infine, ai tempi della guerra in Irak, un giorno un giornalista passa da una strada trafficata sotto la pioggia e vede un uomo-sandwich con un cartello che inneggia alla pace... dice “ma quello lo conosco!”: era Pete Seeger già più che ottantenne che indignato era uscito da solo a manifestare con un cartello fatto da lui: “Peace. Stop the War”... Ma era grande anche nei piccoli gesti: una volta gli feci sentire un pezzo suo facendo un giro di accordi diverso, non so nemmeno io se ci avessi pensato o se mi fossi sbagliato per l'emozione, lui prende il banjo se lo riprova e mi dice “Dario, il giro di accordi tuo è più bello del mio”... un personaggio meraviglioso, un genio.”

Torino - Dario Toccaceli (a sinistra) con Pete Seeger

Volodja

“Mi considero un uomo fortunatissimo, la mia vita è stata tutta una botta di culo, una di queste è stata conoscere la figura più leggendaria della canzone russa, un vero mito d'oggi, Vladimir Vysockij. Passavo quasi ogni giorno dal ristorante di mio suocero, molto frequentato dai cineasti, dunque ero diventato amico dell'attrice russa naturalizzata francese Marina Vlady. Marina mi aveva parlato di questo marito che era un gran personaggio, un poeta, un attore, un cantautore famosissimo... io ero già stato in Russia e volevo incontrarlo, ma lui era “in ogni luogo” e non lo si trovava, comunque verificai che tutti parlavano di lui... ero curiosissimo.
Marina nel luglio del '79 venne a girare un film a Roma - credo “Il malato immaginario” con Alberto Sordi - e si fermò più di quindici giorni, la prima sera si presentò con Vysockij al ristorante: rimasi un po' deluso, me lo immaginavo gigante, invece era piccolino, per di più aveva probabilmente appena fatto un film, per cui si era dovuto tingere i capelli di un biondo innaturale, aveva un aspetto stranissimo. Ma aveva con sé la chitarra e non appena iniziò a cantare cambiò tutto, appena sentii la sua voce mi dissi “ma da dove cazzo viene?” era incredibile, era la prima volta che sentivo qualcosa di simile, era come sentire Omero e un blues assieme, qualcosa di atavico e di straziante. Era anche chiaro che lui da attore dominava perfettamente la sua gamma espressiva, sapeva bene l'effetto che faceva quella voce. Mi impressionò moltissimo, e siccome ero preparato al fatto che fosse un evento raro, avevo con me il registratore. Iniziò, come se fosse stata la cosa più normale del mondo cantare in russo in una trattoria romana, infatti all'inizio del nastro registrato quella sera si sente che la gente stava parlando... ma nel giro di venti secondi si fece un silenzio assoluto, dopo la prima canzone scoppia un applauso fragoroso in tutto il ristorante. Oggi ci sono russi che vengono in pellegrinaggio.
In quei giorni Marina lavorava moltissimo, quindi mi affidò il marito, furono giorni indimenticabili perché Volodja era una persona che trasmetteva umanità, come Pete Seeger; abbiamo parlato ininterrottamente con un esperanto fatto di un po' di francese, di inglese, qualche parola di spagnolo, italiano... ci vedevamo sempre. In quei giorni si sposava un amico a Spoleto, andammo insieme. Tornando verso Roma ci fermammo in un autogrill sull'autostrada per una birra, giunse per caso un pullman di turisti russi, scende qualcuno, cominciano a girarci attorno increduli, non osavano avvicinarsi, uno prende coraggio e si rivolge in russo, così si sparge la voce che c'è Volodja, arrivarono tutti i russi, assumendo l'espressione come se fosse apparsa la Madonna: giravano attorno, facevano per sfiorarlo... c'era una grande tensione, per romperla io dissi a Marina che offrivo un bicchiere a tutti, questi non capivano, non credevano ma alla fine accettarono... a quel punto abbracci, baci, la situazione si era sciolta, dopo un po' ripartimmo. Sulla macchina Vysockij comincia a piangere e io mi preoccupo “che cazzo avrò fatto, mi sono comportato da capitalista sbruffone?” invece Volodja dice “tu hai fatto una cosa che rimarrà nella storia”, “per una birra?”, “queste persone arrivano in Italia con tutto programmato al millesimo di secondo e senza una lira da spendere, loro hanno già versato il loro budget all'organizzazione del viaggio, possono solo guardare questo mondo dove tutto è in vendita senza poter comprare niente, tu gli hai regalato un sogno”, piangeva commosso “hai fatto questo per i miei connazionali”, credo che da quel momento io avessi assunto per lui le sembianze di un eroe, ma davvero non credo di aver fatto nulla.
Quando andavamo in giro per Roma si comportava come se i soldi non avessero importanza, cercava di comprare tutto ma non per sé, diceva “con questo farò felice il mio amico marinaio... questo è per il mio amico Igor...” era generosissimo, anche se lo era per lo più con i soldi di Marina, perché lui non aveva niente, infatti le regalò un bellissimo anello, però le chiese in prestito i soldi per pagarlo. Lei era innamoratissima, persa, gli ha salvato la vita più di una volta precipitandosi a Mosca per tentare di frenare il suo alcolismo e poi la sua tossicodipendenza. Ma non devi pensare che fosse un relitto, era di una vitalità pazzesca, piccolino ma con un fisico molto armonico, muscoloso, prestante: riusciva a fare fa la verticale per ore camminando sulle mani, quando esattamente un anno dopo mi hanno detto che era morto, non ci potevo credere. Certo sapevo che era morfinomane, ma non aveva l'aspetto di un tossico, anzi era iper-attivo, dormiva due ore. Dopo la prima cantata al ristorante lo portai in casa e facemmo una sorta di intervista con delle canzoni, io non conoscendo il russo non potevo interloquire, ma stare lì da solo di fronte a Volodja che parlava e cantava, beh, è stata una cosa indimenticabile.
Aveva anche un tratto sbruffone, ma era prepotente solo con il potere: Breznev era famoso per pavoneggiarsi su macchine di lusso, allora lui si fece regalare da Marina una mercedes e girava per Mosca con quella, perché voleva sfidare il capo supremo, era un provocatore.
È morto nell'80, nel 1982 sono tornato a Mosca, Marina mi aveva detto di andare al cimitero “vedrai che la tomba è sempre coperta di fiori freschi, tutti i giorni” ma non riuscivo a farmi dare le indicazioni, dicevo “sono amico di Vysockij”, e quelli si mettevano a ridere, allora gli facevo vedere le fotografie. Alla fine in albergo ero un po' incazzato, ho chiesto a un cameriere, “ma tu sai chi era Vysockij?” quello si spaventa “perché lo vuoi sapere?” “perché ero suo amico” si mette a ridere, gli mostro la foto, allora questo mi dice “zitto, torno fra dieci minuti” poi mi scrive su un biglietto che al mattino dopo mi dovevo far trovare con una bottiglia di vodka. La mattina dopo in effetti c'erano lui e un taxi, così andiamo sulla tomba - un monumento orribile e pacchiano - brindiamo: il primo sorso lo buttiamo a terra per il morto, poi alla sua salute. Ovviamente il cameriere russo si mise a piangere e dovetti consolarlo io... considera che io ero quello che l'aveva davvero conosciuto e lui era solo un ragazzo. Gli ho chiesto “ma perché tutta questa segretezza?” mi risponde “è proibito dare informazioni su Vysockij”. Tentai allora di dargli dei soldi, ma lui disse “assolutamente no, non prendo soldi dagli amici di Volodja”, era Dio, per loro era Dio, però mi consigliò “vai calmo a dire che sei un amico di Vysockij”.

Alessio Lega