Rivista Anarchica Online


Rom e Sinti

Scelte di campo

di Giorgio Bezzecchi e di Nicolò Budini Gattai

Cambiano i governi ma le politiche statali e locali in relazione all'abitare, e in genere ai diritti dei cittadini europei di nazionalità sinti e rom, non cambiano. Ne riferiscono un nostro storico collaboratore rom di etnia harvata, della cooperativa milanese Lacio Buti, e un altro nostro collaboratore, fiorentino, impegnato nell'insegnamento dell'italiano nella scuola pubblica, anche a bambini e bambine “zingari/e”.




Gli zingari?
Facciamoli scomparire

di Giorgio Bezzecchi

Sembra una battuta e anche di cattivo gusto. Ma corrisponde, nella sostanza, alle scelte dei vari governi di ogni colore che si sono susseguiti.
A conferma del titolo di un bel libro sull'argomento (L'urbanistica del disprezzo) uscito più di 20 anni fa.


I terribili fatti perpetrati dallo scorso governo giallo/verde, alimentati strumentalmente in chiave politico-propagandistica, hanno messo in evidenza quello che appare ormai chiaro da tempo, ovvero che la condizione sociale e abitativa delle comunità rom e sinti in Italia ha raggiunto livelli insostenibili di convivenza.
Numerose le sortite irresponsabili dell'ex Ministro degli Interni Salvini sulle problematiche espresse dalle comunità dei rom e sinti, a cui hanno seguito denunce sia in Italia che in varie parti d'Europa; inaudite le azioni razziste di gruppi neofascisti che hanno innescato, organizzato e provocato scomposte reazioni “popolari” che sopratutto non servono a mascherare l'esito fallimentare di politiche sociali e abitative i cui pesanti insuccessi ricadono sulle fasce più deboli della popolazione.
Abbiamo preso atto dalla cronaca di quale sia in molti, moltissimi casi, la condizione sociale delle famiglie rom e sinti e dei loro figli in Italia, per lo più privati o esclusi anche solo dalla possibilità di andare a scuola, di accedere ai servizi di base del welfare, di avere accesso all'acqua, perché in Italia, per molti rom e sinti, questo diritto è negato.
Se non vi è alcun motivo giustificabile per impedire alle comunità rom e sinti il diritto ad un adeguato alloggio, perché non vi è alcuna differenza tra una persona o una famiglia e l'altra indipendentemente dalla propria origine, occorrerebbe però riflettere su come in questi ultimi tempi alte cariche istituzionali abbiano contribuito ad alimentare un clima di insofferenza culturale, stigmatizzando a volte in modo improprio i luoghi di vita precari o tradizionali delle comunità rom e sinti. Infatti molte considerazioni, spesso superficiali e scomposte, circa la ghettizzazione nei “campi nomadi”, non solo non hanno tenuto conto della dimensione culturale di un sistema di vita sociale e abitativo oggettivamente diverso da quello convenzionale, ma altresì non hanno saputo interpretare quanto di più eclatante stava avvenendo nelle periferie dimenticate con il decadimento dei servizi e dell'offerta di alloggi.
Questo non significa certo sostenere l'indissolubilità di un sistema fortemente in crisi e certamente, nei casi più tristemente noti, palesemente emarginate come l'esempio di molti campi comunali per “nomadi” realizzati un po' in tutta Italia, ma nemmeno negare un'identità culturale che in molti suoi segmenti è portatrice di istanze culturali autonome divergenti.
Fa quindi un certo effetto rileggere, nei momenti di conflitto come gli attuali, la difesa di aree abitative per rom e sinti messe a rischio da sgomberi senza alternative che, tuttavia, fino a quando non erano poste in “pericolo” venivano indicate come necessariamente da smantellare anche da chi oggi si dichiara contrario perché non vi sono le “condizioni”.

Situazioni di precarietà

Da tempo le istituzioni hanno tralasciato l'impegno di assicurare una stabilità abitativa alle comunità rom e sinti in Italia chiudendo prima, a scopo elettorale-propagandistico, delle aree comunitarie comunali dove da decenni abitavano delle famiglie rom e sinti, proseguendo nell'allontanare quotidianamente centinaia di famiglie semplicemente spostandole da un posto all'altro e aumentando così le situazioni di precarietà, avviando una disastrosa politica emergenziale che ha portato allo sperpero di ingenti risorse, ignorando ripetutamente la situazione di degrado sociale delle periferie dove anche numerosissime famiglie rom e sinti, al pari di immigrati e italiani, hanno finito con l'occupare gli alloggi pubblici sfitti. Ignorando che le famiglie rom e sinte che vi si rifugiano in modo temporaneo o in enclave, soggiogate dalla malavita, si ritrovino in situazioni peggiori di quelle di provenienza per l'assenza di relazioni e di possibilità di accedere al sistema di welfare sociale. E quanto sia sempre più difficile, anche per interpretazioni discriminatorie in sede di aggiudicazione pubblica, assegnare ad una famiglia di rom e sinti un alloggio popolare condannandola a permanere in un campo nomadi o in un centro di accoglienza abitativa, nonostante abbia ottemperato a tutte le richieste necessarie.
Alla luce degli eventi attuali, sarebbe saggio rivendicare il diritto a una casa per chi non ce l'ha, senza dimenticare di sostenere attivamente i luoghi di vita di persone che non hanno alternative.
A meno che non si voglia continuare a pensare, con buona pace della 'Ndrangheta e dei tanti grandi o piccoli centri d'affari malavitosi che avvelenano la vita dei quartieri dove è scomparsa la presenza pubblica o più semplicemente dello Stato, che facendo “sparire i Rom e Sinti” si migliori la situazione e si recuperino dei voti...

Giorgio Bezzecchi




Se non è segregazione, poco ci manca

di Nicolò Budini Gattai

I “campi nomadi” sono un fenomeno tutto italiano. E i governi sono stati più volte “condannati” dalla comunità europea per questa segregazione di fatto. Ma i pregiudizi sono duri a morire.

Nel numero 431 (febbraio 2019) di questa nostra rivista scrissi come per certe cose il campo rom, nonostante tutto, rappresentasse per alcuni dei ragazzi e delle ragazze con cui lavoro un luogo di relazioni e di gioco creativo all'aperto.
Qui vorrei invece mostrare come il «campo nomadi» possa essere anche un luogo di segregazione etnica che porta chi li abita verso un sistema di «disuguaglianze combinate» (P. Basso-L. Di Noia-F. Perocco, in La condizione dei Rom in Italia, a cura di L. Di Noia, Venezia 2016), in cui interagiscono più dimensioni della disuguaglianza: lavorativa, economica, abitativa, sanitaria, scolastica.

In gran parte cittadini italiani

Questo sistema di disuguaglianze è parte integrante della società neoliberista; è sicuramente di tipo etnico-razziale, ma «sarebbe un grave errore occuparsi della condizione dei rom all'infuori del sistema diseguale e combinato peculiare delle società di mercato, poiché diventerebbe molto concreto il rischio di cadere in una sorta di eccezionalismo Rom. [...] Perciò essa va considerata come una delle svariate situazioni e forme di disuguaglianza esistenti all'interno del sistema sociale delle disuguaglianze» (Ivi, p. 8).
In particolare tra i rom si evidenziano forti disparità rispetto alla popolazione maggioritaria e le dimensioni della disuguaglianza spesso interagiscono tra di loro, sono interdipendenti e intrecciate. Sul piano ideologico si assiste a fenomeni di «mistificazione delle disuguaglianze che vengono rappresentate come “colpa loro”» (ibid.).
In Italia il numero di rom è stimato tra i 130 e i 180 mila individui, circa lo 0,25% della popolazione totale, tra questi circa 26.000 vivono nei campi, di cui 148 regolari distribuiti in 87 comuni secondo il Rapporto 2017 dell'Associazione 21 luglio. Per Opera Nomadi più o meno la metà dei rom presenti in Italia ha la cittadinanza italiana, mentre l'altra metà proviene dalla penisola balcanica, dalla Romania e dalla Bulgaria. Circa due terzi dei rom di origine jugoslava sono nati in Italia, ma non sono cittadini italiani. Così giuridicamente abbiamo cittadini italiani, di altri paesi dell'UE, di paesi non UE, nati in italia ma senza la cittadinanza, apolidi e rifugiati. Abbiamo dunque un mondo eterogeneo, uniti solo da una condizione comune: una pesante emarginazione sociale caratterizzata da sistematiche discriminazioni e da razzismo (P. Basso-L. Di Noia-F. Perocco, 2016, pp. 7-8).
Una buona parte di responsabilità l'ha avuta l'Opera Nomadi, quando nel 1963 firmò un accordo con lo Stato secondo il quale l'ente si incaricava in maniera esclusiva della scolarizzazione dei bambini e delle bambine rom. Luca Bravi ha evidenziato (Tra inclusione ed esclusione, UNICOPLI, Milano 2009) come le pratiche pedagogiche dell'Opera Nomadi partissero dall'idea che i rom dovessero essere “rieducati” per raggiungere lo stesso livello “evolutivo” della popolazione maggioritaria e l'istruzione sarebbe stato un mezzo necessario per modificare certi aspetti della loro cultura. Nascono così le classi speciali chiamate «Lacio Drom». Un tale progetto richiedeva la creazione di luoghi in cui i rom potessero fermarsi per ricevere tali servizi, i «centri sosta» posti ai margini delle città.
Bravi sostiene che i principi pedagogici alla base dell'attività dell'Opera Nomadi negli anni Sessanta e Settanta si ponevano in una certa continuità con i campi rieducativi di epoca fascista (cfr. G. Picker, in Lo spazio del rispetto a.c. E. Ceva-A.E. Galeotti, Bruno Mondadori, Milano 2012, pp. 194-216).

Gli “esperti di rom”

Nel 1980 muore Tito e in Jugoslavia scoppiano tensioni etniche, perciò molti rom sono costretti a lasciare il paese e numerosi raggiungono l'Italia. Così la prassi consolidata dell'Opera Nomadi sommata alla gestione degli arrivi portò alla nascita dei primi «campi nomadi».
Dal 1984 alcune regioni – a partire da Veneto, Lazio e Toscana – hanno promulgato leggi a tutela dei rom e dei sinti e della loro cultura. «[...] Sin dalla loro intestazione è evidente lo scarto rispetto al passato quando, il più delle volte, questi gruppi erano considerati un mero affare di polizia, non certo di tutela. C'è da rilevare però come in molti casi queste norme hanno finito più che altro per tutelare la società dei gagé (i non-rom) dai rom» (L. Bravi-N. Sigona, Educazione e rieducazione nei campi per “nomadi”: una storia, in «Studi Emigrazione» 18, 2007).
Tutte queste leggi hanno in comune il riconoscimento del nomadismo come elemento caratterizzante la cultura rom e sinti, nonostante il 95% siano gruppi stanziali, costretti semmai a spostarsi per sfuggire alle persecuzioni di tipo razziale.
Definire la cultura di una varietà di gruppi rom e sinti rischia di ridurla a un insieme di elementi isolati privi del contesto, l'invenzione di una tradizione immutabile, riferita a un passato mitico e astorico. Ciò è dipeso dal fatto che per scrivere tali leggi fossero stati consultati gli “esperti” dei rom, tra i quali diversi membri dell'Opera Nomadi e del Centro Studi Zingari, ma nessuno dei rappresentanti rom o sinti. «[...] Nonostante tutto, si pensava che i campi fossero la soluzione migliore per questa gente, in quanto habitat di transizione verso l'integrazione definitiva. In questo modo, i “nomadi” potevano usufruire dei punti sosta, mandare i figli a scuola, cercarsi un lavoro. [...] Fu dimenticato, però, un particolare! Non venne svolta un'indispensabile indagine socio-antropologica su e con questa popolazione e, essendo considerata “nomade” per eccellenza, si credeva che l'invenzione dei campi sosta sarebbe bastata [...]» (Z. Lapov, Va aré romané?, FrancoAngeli. Milano 2004, p. 56). Così dagli anni Ottanta l'Italia è diventata il paese dei campi, come si intitola un rapporto del 2000 dell'European Roma Rights Centre che ha sede a Budapest.
Sebbene i «centri sosta» e i «campi nomadi» rispecchino finalità politiche diverse, tuttavia entrambi sono situati ai confini delle città e sostengono l'idea che i rom abbiano bisogno di luoghi speciali affinché possa essere rispettata la loro diversità culturale e garantita la loro integrazione nella società. Una tale soluzione ha portato spesso alla segregazione etnica, a una gabbia in cui rinchiudere e sorvegliare gli «zingari» (Picker, 2012).
L'architettura dei campi e la qualità degli spazi rendono i rom invisibili, indeboliscono la loro possibilità di azione politica e sociale rafforzando anzi conflitti latenti. In molti casi i campi risultano essere dei luoghi di tolleranza dove metter da parte una popolazione sgradita in maniera da nasconderla agli occhi degli altri. (G. Maestri-T. Vitale, in Architecture and the Social Science, a.c. M.M. Mendes et al., Springer, Cham 2017, pp. 210-211).
Lo scorso governo giallo-verde, caratterizzato da un razzismo impietoso, da una parte si esaltava per le ruspe che demoliscono i campi rom, dall'altra aizzava i gruppi fascisti e appoggiava i picchetti per impedire che i rom entrassero nelle case popolari a loro assegnate.
Per la verità molti altri rappresentanti politici di ogni schieramento se ne sono usciti spesso con dichiarazioni razziste. Mi sembra calzante, per indicare quale sia tuttora il clima nei confronti di rom e sinti in Italia, una tra le tante denunce riportate nel sito dell'Associazione 21 luglio, una frase pronunciata l'11 dicembre 2017 dall'assessora all'istruzione della Regione Veneto Elena Donazzan: «Se si vuole avere qualche speranza che vengano educati, bisogna togliere i bambini dagli 0 ai 6 anni ai genitori rom e sinti». L'assessora esprime la convinzione che non siano le condizioni socio-economiche, lavorative, abitative le ragioni che ostacolano il successo scolastico e l'inclusione, ma i genitori che in quanto rom o sinti sarebbero incapaci di occuparsi dei loro figli.
Negli ultimi anni si è assistito a una proliferazione di associazioni e organizzazioni rom e sinti attive per un reale processo di emancipazione sociale e politica. Esperienze simili di auto-organizzazione sono fondamentali per esprimere e rivendicare i propri diritti, necessità e desideri con la propria voce e non solo attraverso altre associazioni (P. Basso-L. Di Noia-F. Perocco, 2016, pp. 13-14).

Nicolò Budini Gattai