Rivista Anarchica Online





Repressione o ribellione/
Da che parte sta chi legge?

Il punto di partenza è una foto del 2010. Le piazze sono degli studenti dell'Onda e in prima fila alcuni imbracciano un originale strumento di protezione dalle cariche, i cosiddetti book block. Lastra di plexiglass foderata di gommapiuma e titolo di un libro: i book block non sono solo una forma di autodifesa ma partecipano anche all'autorappresentazione del movimento. Tanti i classici, come V per vendetta di Alan Moore, Che fare? di Lenin e Nanni Balestrini, ma anche letteratura contemporanea come Noi saremo tutto di Valerio Evangelisti. E sul dettaglio di una foto, ci blocchiamo.
Protagonista di Noi saremo tutto è Eddie Florio, un gangster che costruisce la propria ascesa in un sindacato, quello del crimine. Perché scegliere proprio quel romanzo di Evangelisti?
Una prima spiegazione potrebbe rimandare a quel meccanismo di immedesimazione che ben conoscono i lettori dei gialli: pur di arrivare alla risoluzione del caso, si parteggia anche per le rudi maniere del poliziotto cattivo.
Però qualcosa di più profondo deve esserci, se sono più di vent'anni che Evangelisti ci propone poliziotti straordinariamente cattivi. E Eddie Florio è solo una macchietta nei confronti del suo personaggio più longevo, Nicolas Eymerich, inquisitore generale del Regno d'Aragona. Nell'arco dei tredici volumi che compongono il ciclo canonico e nei quasi venti secoli in cui si sviluppa il tempo della narrazione, il domenicano di Gerona diventa emblema di quella violenza autoritaria cui abbiamo dato il nome di totalitarismo. Ciononostante, ad ogni avventura teniamo per «il cane da guardia della fede», prendendoci quasi gusto a torture e roghi. Possibile che un autore non sia consapevole di quanto possa trascinare in basso il lettore?
Su questa piaga mette consapevolmente il dito Alberto Sebastiani con il suo Nicolas Eymerich. Il lettore e l'immaginario in Valerio Evangelisti (Odoya, Città di Castello – Pg 2018, pp. 256, €18,00). Ricercatore di razza nella decodifica dei linguaggi della narrazione, Sebastiani usa Eymerich come grimaldello per svelarci lo scrittore bolognese, scardinando così il nostro dubbio di partenza: perché raccontarsi con Eddie Florio e che cos'è questa nostra passione per gli “sbirri cattivi”?
Già dalle prime pagine del saggio capiamo che per rispondere si deve viaggiare nel tempo: «Evangelisti costringe il lettore a confrontarsi con il proprio tempo come parte di un percorso storico, che presenta conseguenze di quanto avvenuto in precedenza e i cui eventi implicano possibili scenari successivi».
La chiave d'interpretazione si trova in quello che Sebastiani definisce One Big Novel, parafrasando il One big union del Ciclo americano: una sola grande narrazione, attraverso ogni romanzo e ambientazione – storica, realistica, fantascientifica –, basata sul conflitto fra chi detiene il potere e chi lo subisce. La scrittura di Evangelisti è politica, e il cuore della sua produzione è la denuncia dello sfruttamento.
Ma perché servirsi di un inquisitore o di un gangster come strumenti di militanza culturale? Perché far leggere il mondo con gli occhi di qualcuno che dovrebbe essere un antagonista?
In primo luogo perché il potere è capace di irretire e in passato è già successo che la repressione fosse vista dal popolo come unica salvezza della società: Evangelisti ce lo ha schiaffato in faccia, ambientando Il sol dell'Avvenire durante l'ascesa del fascismo in una terra sovversiva come la Romagna.
Un'altra considerazione. Se la storia è piena di figure come Eymerich, qualcuno alla fine si ribella sempre: Pantera. Comparso per la prima volta nella raccolta Metallo Urlante del 1998, Pantera è un killer a pagamento che, malgrado la dubbia moralità, non sopporta le angherie di rangers e rancheros ai danni dei contadini. «E allora da una parte c'è Eymerich e dall'altra c'è Pantera. Pantera è l'archetipo della ribellione che non accetta ciò che non è possibile accettare [...]. Evangelisti porta in scena due figure: chi reprime e chi si ribella. Sono le due costellazioni di personaggi raccolte attorno a questo One big novel e sono in costante conflitto fra di loro. Un conflitto che non si esaurisce e coinvolge il lettore il quale, una volta chiuso il libro, deve porsi la domanda “da che parte sto”? »
Ci siamo. Scudo con Noi saremo tutto, o con un romanzo di Pantera come Antracite: quello che ci manca però, per evadere del tutto le tante domande che ci siamo posti, è forse la piazza in cui scendere con un book block.

Jacopo Frey



Sul Sessantotto/
Come è stato possibile arrivare allo squallore odierno?

Chi l'avrebbe mai detto. Che un “battito d'ali”, all'apparenza insignificante, potesse rivelare conseguenze così durature, estese, profonde e imprevedibili, tanto da trasformarsi nel primo evento globale del Novecento, inaugurando la contemporaneità. Su quel maggio di barricate e di rivolta l'invettiva, a caldo, del generale De Gaulle era stata sprezzante, lapidaria, sbrigativa eppure molto pop: “chienlit!” (carnevalata, cacata a letto). Il fatto è che quell'inquietudine, incomprensibile all'establishment, si sarebbe poi davvero dimostrata senza luogo e senza tempo, e avrebbe indifferentemente attraversato il mondo bipolare generato dalla guerra fredda, a est come a ovest, e perfino il cosiddetto terzo mondo.
E alla fine siamo arrivati al punto. Superando demonizzazioni, mitizzazioni e pressapochismi, ma anche attraverso la sempre maggiore disponibilità di fonti e nuovi lavori di scavo, sia sul versante interpretativo che su quello storiografico, il Sessantotto ha assunto le sembianze dilatate di un oggetto di studio talvolta indefinito e inafferrabile, certo connesso ai mutamenti della modernità, ma soprattutto di “ultima rivoluzione, sconfitta ma non consenziente o complice”.
Saltate in tal modo – sul piano euristico e del metodo – le classiche, anguste, dimensioni spazio-temporali, tutto si è fatto molto più interessante. È il caso di questo bel volume collettaneo, strutturato a medaglioni tematici, composto da numerosi saggi firmati da autori assai conosciuti, oltre che da qualche giovane e promettente studioso. Dedicata alla memoria del compianto Ivan Della Mea (nel decennale della scomparsa), l'opera (L'ultima rivoluzione. Figure e interpreti del Sessantotto, a cura di Pier Paolo Poggio e Carlo Tombola, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia 2019, pp. 302, prezzo non specificato) raccoglie i risultati di un articolato seminario organizzato dalla Fondazione Micheletti negli anni 2017-2018.
Il filo conduttore di quegli interventi e le motivazioni di fondo dell'iniziativa scientifico-editoriale sono ben esplicitati nelle prime righe della quarta di copertina: “La distruzione di memoria e storia, condizione necessaria per la loro manipolazione senza limiti, è un tratto distintivo del tempo presente. Nella battaglia contro la cultura, il Sessantotto è una preda ambita. Il cinquantesimo anniversario è servito a confermare che la modalità distruttiva più efficace e incisiva avviene nella forma della banalizzazione, tramite media”.
Pier Paolo Poggio, nella sua sostanziosa introduzione (pp. 5-14) dedicata ai riflessi attuali di quell'evento, pone l'accento sulla “doppia asimmetria”, confermatasi nel tempo presente rispetto a mezzo secolo fa, sia sull'impatto distruttivo della tecnologia sull'ambiente, sia sulle disuguaglianze sociali.
Su questo però vede, realisticamente, una distanza incolmabile tra i movimenti di allora e le nuove generazioni di oggi, per via dell'impossibilità di trasmettere la memoria e di un'evidente lacerazione della continuità storica, fermo restando “una comunicazione istantanea e onnipervasiva che prescinde dalla conoscenza e fa leva unicamente sulle emozioni”.
Diversa invece la valutazione sul pacifismo, originato dal trauma di Hiroshima ed esternatosi nella coinvolgente mobilitazione per il Vietnam, da considerare tuttora valido, al pari delle dimensioni dell'universalismo e dell'anticolonialismo. Di contro – sostiene Poggio – “il Sessantotto, inteso come l'insieme dei movimenti dell'epoca, con rare eccezioni, è stato completamente cieco sulla realtà del comunismo novecentesco...”. Ambivalente è stata la sua natura, rivolta cioè sia al passato, nell'utilizzo delle categorie ideologiche, sia al futuro, incarnando il processo di cambiamento antropologico culturale in atto a livello planetario.
La carrellata dei saggi parte da Rosa Luxemburg, L'eredità inconsapevole di Massimo Cappitti, e prosegue con le Note semifilosofiche sugli anni Sessanta e Settanta di Roberto Finelli. In un pantheon affollato di figure significative – ma anche segnato da qualche inevitabile assenza – emergono le analisi sui lasciti teorici sessantotteschi. Da Hannah Arendt (di Eugenia Lamedica) a Marcuse (di Marco Maurizi), a Fortini, su cui vi sono ben tre contributi (rispettivamente di Luca Mozzachiodi, Luca Lenzini e Sergio Bologna). Dal panafricanista Malcom X (di Ferruccio Gambino) a Henri Lefebvre (di Francesco Biagi), da Lacan (di Mario Pezzella) a Elvio Fachinelli (di Lea Melandri), fino a Giorgio Cesarano e il suo “non accaduto” (di Neil Novello). Da segnalare il contributo di Anselm Jappe sull'Internazionale situazionista e quello di Giorgio Moroni dedicato a Gianfranco Faina. La ricostruzione di quest'ultima biografia intellettuale si rivela utilissima per la comprensione della vicenda del gruppo lottarmatista libertario Azione Rivoluzionaria. A seguire saggi sul cinema radicale (di Flavio Vida), sul canto popolare sociale (di Cesare Bermani), su Giulio Alfredo Maccacaro e Medicina Democratica (di Enzo Ferrara). Infine: Luigi Piccioni su Una relazione lasca sul Sessantotto; Giorgio Barberis su Ivan Illich e la Teoria della Liberazione; Franco Toscani su padre Balducci; Federico Faloppa su Alexander Langer (Pensare locale, agire globale); René Capovin su “il nuovo spirito del capitalismo” e, ancora e per concludere, Sergio Bologna su La vera rivoluzione del Sessantotto.
Un libro per riflettere e studiare. Che si chiude con una domanda (p. 296), amara, che facciamo nostra: “Com'è stato possibile che questa ricchezza rivoluzionaria si sia andata disperdendo nei decenni successivi fino ad arrivare allo stato miserabile, dal punto di vista culturale, politico, economico, in cui versa l'Italia di oggi?”.

Giorgio Sacchetti



Rojava/
Un libro, tante presentazioni, numerose questioni

Nel mese di marzo 2019 sono cominciate le presentazioni del libro La sfida anarchica nel Rojava edito da BFS di Pisa (2019, pp. 192, € 20,00).
La partecipazione del pubblico è stata attiva e ha coinvolto diverse generazioni, interessate a conoscere l'argomento ma anche a porre domande e criticità. Il racconto del libro ha toccato diversi spazi: la Biblioteca Alessandrina dell'Università La Sapienza e lo Sweet Bunch di Roma, il Csoa Cox18, la Libreria Calusca e l'Archivio Primo Moroni a Milano, l'Asilo di Napoli, la Sala polivalente di Dolceacqua (IM), il Chimica 40 di Palermo, il Cosmonauta di Viterbo.
Le prime tappe di questo viaggio sono state accompagnate da un video saluto di Debbie Bookchin, giornalista e esponente dell'Institute for Social Ecology, di Umberto De Giovannangeli, giornalista esperto di Medio Oriente e Islam (dei cui interventi abbiamo ricavato una fedele sintesi nei box in queste pagine), e da altre proiezioni di autori meno conosciuti e reporter di documentari tra cui “Sehid Namirin” di Giacomo Sini e Francesca Simdi. Hanno portato il loro contributo i relatori e le relatrici invitate tra cui Carlotta Pedrazzini (“A” Rivista Anarchica), Martino Seniga (RaiNews24), Carmine Malinconico (avvocato di Giuristi democratici e attivista di Rete Kurdistan). Toccante e senza retorica la video-testimonianza di Erol Aydemir, attivo nella comunità curda in Italia che ha dato voce alla lotta del suo popolo mentre era in sciopero della fame ospite nel Centro socio culturale di Ararat a Roma.
Si è entrati nella struttura del libro attraverso la filogenesi dei saggi raccolti dove in ognuno è contenuta una riflessione, un'esperienza, la narrazione di un agire individuale e collettivo in un vissuto sociale protagonista in maniera diretta e indiretta della prima grande rivoluzione del XXI secolo.
Tra gli argomenti emersi: la guerra e l'antimilitarismo, il diritto di resistenza, il fallimento della struttura dello stato-nazione, il lento processo radicale di trasformazione sociale, il sistema autogestionario nel Rojava costruito sulle macerie di una grande guerra, il comunalismo e il municipalismo libertario, l'ecologia sociale e la rivoluzione delle donne alla base del Confederalismo democratico. Non è mancato il parallelo con la rivoluzione spagnola del '36, un vasto esperimento sociale compiuto nel bel mezzo di un conflitto civile ed europeo (prodromo della seconda guerra mondiale), preparato da decenni di lavoro politico e sociale effettuato capillarmente da militanti e mujeres libres della FAI e della CNT e che infine è stato sconfitto militarmente senza che però si possa affermarne il fallimento (a differenza delle rivoluzioni ispirate al marxismo-leninismo del XX secolo).
Seppur rimanendo in ambito anarchico e libertario l'argomento è trattato, nei saggi raccolti in questo libro, da diversi punti vista e questo ha certamente facilitato nelle presentazioni un dibattito più esteso e inclusivo delle differenze. Nei dibattiti aperti in queste prime presentazioni è stato affrontato in diversi momenti l'argomento del leaderismo, le gerarchie, la trasformazione del paradigma, il sistema orizzontale assembleare, le strutture del movimento, come funzionano le cooperative e i consigli, le comuni. Ha trovato spazio la parte storica, soprattutto degli ultimi anni, in quel contesto storico e geografico. Molta la curiosità intorno alla rivoluzione delle donne curde, la storia della loro autorganizzazione, le loro differenze e le analogie con alcune tematiche proprie della storia del femminismo, dell'anarcofemminismo e del movimento di liberazione della donna in generale e in merito ad alcuni aspetti specifici.
Importante il contributo di Carmine Malinconico che ha spiegato come “seppur non appartenendo al movimento anarchico, il libro ha sollecitato riflessioni sulle tematiche riguardanti alcuni processi sociali rivoluzionari, della democrazia e del come le idee e i saperi si intrecciano con la prassi all'interno di questi processi rivoluzionari”.
Malinconico, in un ambito più articolato del suo intervento, ha posto una critica alle esperienze rivoluzionarie del Novecento guidate dall'idea centralista di formare uno stato attraverso la gerarchia di un partito, sottolineando invece la questione “della liberazione come costruzione umana dell'umano, come ricostruzione e ridefinizione delle priorità umane”, nonché i rischi “della sacralizzazione di un capo e di un leader” e “gli anticorpi” che il movimento di liberazione curdo finora ha rielaborato. Malinconico ha informato inoltre che non esiste attualmente una norma nel sistema giuridico internazionale che sancisca in ambito legale il diritto di resistenza nei confronti di un tiranno o di uno stato che commette atti di ingiustizia o lesivi nei confronti di un cittadino, sfera che appartiene alla politica e non in maniera specifica a quella del diritto.
Intanto nel mese di marzo altri accadimenti si aggiungevano a quanto contenuto nel libro. Pochi giorni prima della caduta di Baghuz, moriva l'anarchico Lorenzo Orsetti di Firenze, partigiano nella liberazione dell'ultima roccaforte dello stato islamico insieme alle milizie curde che si erano rese già protagoniste della liberazione di Kobane, Mosul, Raqqa e di altre città e villaggi. Eppure anche dopo la caduta di Baghuz, la guerra nelle regioni del Kurdistan non è finita. Dopo l'assedio di Afrin nel mese di gennaio 2018 (cantone del Rojava insieme a Kobane e Cizire), un altro grande attacco è stato lanciato dallo stato turco nel mese di luglio 2019 quando la Turchia ha bombardato il campo profughi di Makhmura al confine con l'Iraq.
Le riflessioni emerse hanno inoltre riguardato sia la risonanza, avuta in occidente e in Europa, della trasformazione sociale nel Rojava, sia le ragioni che hanno suscitato l'impulso in molti e molte giovani, non solo nel portare solidarietà ai popoli coinvolti, ma anche nel trovare in quella terra l'orizzonte di una prospettiva radicale inedita per poter cambiare il proprio modo di vivere non in maniera individuale, come indotto dal sistema neoliberale, quanto piuttosto in una dimensione collettiva. Anche a rischio della propria vita, il che forse ci rinvia alla vuotezza di un'esistenza più o meno agiata e precaria quale viene vissuta nel nostro mondo tanto iper-connesso alle cose futili quanto ultra-sconnesso dalle questioni cruciali di una libertà socialmente condivisa, di una vita degna di chiamarsi tale per tutte e per ciascuno.
In questi mesi il libro, seppur ad oggi pubblicato unicamente in lingua italiana, è stato accolto anche dalla comunità curda in Italia e all'estero. Nel mese di giugno era già esaurito ed è andato in ristampa con un breve Poscritto dal titolo “19 luglio 2019. Nel cuore e nella testa” di Norma Santi. Il 19 luglio 2012 cominciava infatti ufficialmente la rivoluzione nel Rojava e sono stati sette anni di lotta e di lunghi anni di guerra voluta e sostenuta dalle nazioni coinvolte, ma sono stati per i popoli che abitano quelle terre anche anni di speranza, di liberazione ed emancipazione dagli stati, dalle nazioni, dalla guerra e dal genocidio.

Norma Santi
Salvo Vaccaro


Rojava/Due interventi sul libro


Chiediamo la fine dell'orrore

Credo che il tema affrontato in La sfida anarchica nel Rojava sia molto importante non solo per le persone dei luoghi coinvolti, ma anche per tutti noi che vogliamo capire come dar vita a un movimento di democrazia diretta. I problemi che affrontiamo oggi sembrano peggiorare a un ritmo che era inimmaginabile solo vent'anni fa. La rapida escalation della povertà, la crisi dei migranti, il riscaldamento globale, sembrano rispecchiare nella nostra cultura attuale una disumanità in aumento, un disprezzo per la vita umana che ci fa sentire come se non avessimo imparato nulla dal passato.
In Rojava il popolo curdo ha attuato un progetto profondamente democratico di autogoverno diverso da qualsiasi cosa mai vista in Medio Oriente e in tutto il mondo. È la società più democratica e rivoluzionaria che abbiamo visto sin dalle collettività anarchiche in Spagna nel 1936.
È stato per me un grande onore sapere che le strutture politiche del Rojava sono state costruite su molte idee elaborate da mio padre, Murray Bookchin, e che hanno influenzato il leader curdo Abdullah Öcalan. Bookchin le ha denominate “municipalismo libertario”, rivendicando le idee di cittadinanza attraverso la partecipazione attiva alle decisioni che riguardano il nostro quartiere, i nostri paesi e le nostre città. “Dobbiamo aprire la porta ed entrare nella sfera pubblica – ha detto Bookchin – e la vera sfera pubblica è il potere collettivo di ogni individuo come attore politico del suo quartiere e della sua città”. La politica municipalista è l'opposto della politica parlamentare. Nelle assemblee locali è trasparente, con candidati che sono al cento per cento responsabili verso le proprie organizzazioni di quartiere. Nell'atto stesso di fare politica diventiamo nuovi esseri umani, costruiamo un'alternativa alla modernità capitalista.
Sono stata di recente nel Rojava e ho visto il potere delle donne, il lavoro importante della comune internazionalista che ha scritto il bellissimo libro Make Rojava Green Again, ora tradotto anche in italiano, e la grande dedizione di tutti gli abitanti verso una democrazia diretta con assemblee locali. L'esempio del Rojava è cruciale per orientarci verso un futuro più razionale, democratico ed ecologico. È molto importante che questo progetto continui a realizzarsi.
Forse avete sentito l'anno scorso dell'assedio turco ad Afrin, una regione del Rojava. Questo assalto era un monumento all'indifferenza capitalista, alla sofferenza umana. Trecentomila persone curde sono state espulse dalle loro abitazioni e dislocate nei campi profughi all'aperto dove se ne contano ancora centosettantamila. La Turchia ha usato metodi di rapimento, tortura, omicidio, ha bruciato ettari e ettari di terra coltivabile. La Russia, l'Iran e gli Stati Uniti, che si preoccupano solo delle loro rispettive sfere di influenza e dei tesori economici, sono complici del genocidio del popolo curdo. Adesso la Turchia sta tentando di distruggere il resto del territorio del Rojava.
Dobbiamo fare tutto il possibile per non perderlo e per evitare che il dispotismo e il fascismo della Turchia vengano normalizzati come forma di governo. Quindi vorrei esortare tutti a chiedere la fine dell'orrore, della persecuzione spietata dei curdi da parte della Turchia e continuare a sostenere il progetto del Rojava.

Debbie Bookchin



Ma questa esperienza curda fa paura a tanti

La sfida anarchica nel Rojava è un libro toccante, nel senso che i due autori, Norma Santi e Salvo Vaccaro, sono riusciti a toccare varie corde, a emozionare, e allo stesso tempo a far riflettere, a far ragionare, a far conoscere, documentare, con testimonianze importanti, prese sul campo.
È un libro coraggioso perché si schiera, sceglie una parte, quella giusta, di un popolo eroico, quel popolo curdo che cerca di costruire sulle macerie un modello sociale, plurale, un modello in cui addirittura si delinea una cosa straordinaria, una parità di genere, non soltanto per il ruolo fondamentale che le donne curde hanno avuto e stanno avendo in una lotta che è tutt'altro che conclusa contro i nazi-jiadhisti dello stato islamico, ma per la costruzione di un'istituzione democratica nel senso più alto, più nobile della parola: un autogoverno che nasce da una mobilitazione e un impegno dal basso.
Ecco, in questa esperienza, raccontata nel libro, la società civile non soltanto vive, ma si organizza con un potere dal basso.
Io credo che il libro sia l'antidoto contro la banalizzazione dei valori di una cultura liberale, di una cultura democratica sempre in cerca del male minore, che per l'occidente e per l'Europa, in quella parte del mondo, significa cercare un gendarme che possa essere in qualche modo il garante delle due frontiere a sud.
Oggi le milizie curde devono far fronte non soltanto a ciò che resta dello stato islamico, ma anche alla volontà imperiale neo-ottomana della Turchia di costruire in quell'area una sorta di protettorato governato per procura. E la ragione è abbastanza semplice, perché questa esperienza curda fa paura a tanti, non soltanto a coloro che volevano instaurare lo stato della sharia, ma anche e soprattutto a quei potentati, a quei dittatori, a quei presidenti padroni che in qualche modo temono che l'esperienza nel Rojava di autogoverno, qui definita “la sfida anarchica”, possa penetrare anche dentro i confini di questi e altri stati.

Umberto De Giovannangeli