migrazioni
Umanità repressa
di Giulio D'Errico
Il processo di criminalizzazione della solidarietà colpisce attivisti e militanti no-border, ma anche giornalisti, avvocati, ONG. E il raggio di questa attività di stigmatizzazione è sempre più ampio.
Il caso della ONG Sea Watch e
della sua capitana Carola Rakete ha scatenato scalpore e indignazione
in gran parte del mondo progressista italiano e non. Al coro
si sono aggiunti un numero di rappresentanti istituzionali degli
stati membri dell'UE e della stessa Unione. Tutto molto giusto,
se non fosse che quanto successo a fine giugno scorso rappresenta
la normalità e non l'eccezione nell'approccio alle forme
di solidarietà con migranti e rifugiati, e non da ieri.
Come ben affermava l'Institute of race relations britannico
nel 2017, sfere di “ambiguità e incertezza legale”
sono state appositamente aggiunte e integrate alla stessa “struttura
legale dell'Unione Europea”, per facilitare la criminalizzazione
delle manifestazioni di solidarietà verso le persone
migranti1.
Una direttiva europea del 20022
ordinava agli stati membri di criminalizzare chiunque facilitasse
il superamento illegale dei confini, per lucro, ma non solo.
Questa ossessione securitaria diede il via a un uso sproporzionato
della legge contro diversi gruppi e individui solidali alla
causa migrante, specialmente come fattore di dissuasione.
Nei luoghi di confine questo si tradusse con la possibile criminalizzazione
delle navi da soccorso delle ONG, ma anche di chi offriva passaggi
e – più di recente – di chi non fa altro
che offrire indicazioni sulle vie da seguire nel passare da
un paese all'altro, o supporta chi il confine lo ha appena attraversato.
Lontano dai confini divenne invece possibile essere arrestati
e incriminati per offrire cibo, riparo o cure mediche. Insomma,
tutti quei diritti basilari che gli stati dovrebbero tutelare
ma rifiutano di farlo.
In più, questo permette di arrestare con una certa continuità
un numero di persone migranti per ogni sbarco sulle coste europee,
accusandoli di essere trafficanti solo perché forzati
a prendere il controllo del barcone o della barchetta su cui
si trovavano. Succede spesso, ma fa molta meno notizia. A luglio,
un uomo eritreo arrestato nel 2016 in una operazione congiunta
tra autorità italiane e servizi segreti britannici con
l'accusa di essere uno dei più importanti trafficanti
di uomini del mondo, è stato rilasciato dopo 3 anni di
custodia cautelare, perché vittima di uno scambio di
persona3.
In tutta Europa, tra il 2015 e l'inizio del 2019, almeno 150
persone sono state incriminate o condannate per reati di solidarietà.
È successo ai confini meridionali e orientali dell'Unione
(Italia, Grecia, Spagna, Croazia, Ungheria), in Scandinavia,
nel Regno Unito e nel cuore dell'Europa (Germania, Francia,
Austria), senza eccezione. E non ha riguardato solo attivisti
no-border e militanti rivoluzionari: giornalisti, accademici,
avvocati e difensori civici, membri di ONG e organizzazioni
caritatevoli, agricoltori e pensionati sono stati tutti colpiti
da questo attacco.
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Spagna, 2018 - Rifugiati chiedono aiuto a una grande nave da crociera
Gene Isenko/Shutterstock.com |
Un passo indietro, nessun passo avanti
È il maggio 2004, l'ONG tedesca Cap Anamur salva 37
persone nel Mediterraneo centrale. Per tre settimane le autorità
di Italia, Malta e Germania si rimpallano la patata bollente.
Alla fine le autorità italiane permettono lo sbarco,
per poi sequestrare la nave e arrestare e incriminare il capitano
e l'equipaggio della nave. Solo 5 anni dopo, nell'ottobre 2009,
tutti gli imputati vengono assolti. Ricorda qualcosa?
Alle persone salvate in mare va molto peggio. Dopo l'attracco
e una breve sosta nel centro di accoglienza di Agrigento, tutti
e 37 sono deportati nei paesi da cui stavano scappando.
Dal 2004 in poi, in Italia come in Grecia, casi di questo tipo
si sono moltiplicati, includendo pescatori e marinai di navi
commerciali. E già a quel tempo l'Italia orgogliosamente
stringeva accordi con la Libia di Gheddafi e riportava indietro
sulle coste nordafricane le barche intercettate nel Mediterraneo.
Tredici anni dopo, nel 2017, il ministro renziano Minniti stringe
nuovi accordi con il governo libico post-Gheddafi e riapre alla
criminalizzazione del soccorso in mare. Prima viene pubblicato
un codice di condotta che limita le possibilità delle
attività umanitarie tra l'Italia e la Libia – e
non è un caso se quelle ONG che hanno firmato tale accordo
non sono più presenti in quello stretto di mare. Poi
le autorità italiane hanno infiltrato l'equipaggio della
nave Juventa, della ONG Jugend Rettet (che più di ogni
altra aveva criticato il codice di condotta di Minniti), sequestrato
l'imbarcazione e poi iniziato un'investigazione che dopo due
anni ancora non ha portato a delle accuse definite, ma che secondo
gli inquirenti potrebbe comportare pene fino a 20 anni di prigione
per la capitana Pia Klemp e multe fino a 15.000 euro per ogni
persona salvata e portata in Italia.
Tra gli anni '90 e i primi 2000 l'attenzione degli attivisti
antirazzisti e no-border era indirizzata verso il Mediterraneo
Occidentale e il contrasto al modello di difesa dei confini
di Marocco e Spagna, con le enclave coloniali di Ceuta e Melilla
a far coincidere sponda sud e sponda nord del Mediterraneo.
Quel modello – brutale e razzista – valse ai due
paesi il titolo di “gendarmi d'Europa”, ed è
ancora oggi fonte di ispirazione per governi Europei di ogni
colore.
Decenni dopo, il 27 giugno 2019, nel silenzio generale, il governo
spagnolo, attraverso la direzione generale della marina mercantile,
ha spedito una missiva alla ONG Proactiva Open Arms, con base
in Catalogna, vietandole operazioni di soccorso e minacciando
multe fino a 901 mila euro. Questo nel contesto di un tentativo
di svendita e privatizzazione di Salvamento Maritimo, agenzia
pubblica (e non militare) di soccorso marittimo, e di una lotta
sindacale durata anni da parte dei suoi lavoratori per mantenere
il soccorso in mare un servizio pubblico e collettivo.
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Puglia, 2015 - Rifugiati nordafricani su una nave nel porto di Taranto |
Non solo ONG
Per elencare i diversi casi di criminalizzazione della solidarietà sul territorio europeo occorrerebbero decine di pagine. Alcuni però sono utili a mostrare l'ampio raggio di quest'attività di stigmatizzazione delle migrazioni e di chi difende i diritti dei migranti. Nel 2015, in Ungheria, Ahmed è arrestato nel corso di una protesta al confine con la Serbia. Ahmed era lì per accompagnare la sua famiglia, in fuga dalla devastazione in Siria, verso l'Unione Europea. Per le autorità ungheresi Ahmed invece diventa un terrorista, responsabile dei (risibili) scontri della giornata. Viene condannato prima a 10 anni di prigione e poi la pena viene ridotta a 5. È in carcere da quel giorno.
Nel marzo 2018, un gruppo di 14 persone riesce a superare il confine tra Serbia e Croazia e contatta l'associazione con base a Zagabria Are You Syrious per informazioni e supporto sulle procedure per richiedere asilo. Dragan, un volontario, si reca sul posto, contatta la polizia locale e accompagna il gruppo dalle autorità per assicurarsi che le pratiche per la richiesta d'asilo vengano attivate. Giorni dopo, Dragan viene accusato di aver aiutato il gruppo ad attraversare illegalmente il confine e viene condannato – in primo grado – a pagare una multa di 8,000 euro.
La Francia ha visto diversi casi di questo tipo, con risultati altalenanti. Il caso dell'agricoltore della valle della Roya, Cedric Herrou, che offriva riparo a chi riusciva a superare il confine tra l'Italia e la Francia ha suscitato scalpore, quando la Corte Costituzionale francese ha ribadito la giustezza delle sue azioni basandosi sul principio di fratellanza. Non molto tempo prima, però, a Calais, un'altra corte aveva stabilito che chi fosse stato trovato a distribuire cibo, indumenti o offrire servizi di prima assistenza medica a “sans papiers”, avrebbe rischiato l'incriminazione e multe salate.
Dulcis in fundo, nel Regno Unito, lo scorso febbraio si è concluso il processo agli Stansted15, un gruppo di attivisti che il 28 marzo 2018 si è incatenato a un aereo usato per deportare 60 persone in 3 diversi stati africani.
Oltre 2,000 persone all'anno vengono deportate in questo modo.
Fino a prima dell'azione, pratica comune del ministero dell'interno
britannico era di “deportare prima, appellarsi dopo”,
mettendo così a rischio la vita di quelli che venivano
mandati “a casa loro”4.
In base a una legge sulla sicurezza negli aeroporti, gli attivisti
sono stati incriminati come terroristi, rischiando l'ergastolo.
A febbraio la corte ha dichiarato gli imputati colpevoli, ma
ha sospeso la sentenza, riconoscendo la giustezza delle loro
motivazioni.
Queste poche situazioni rendono conto sia dell'ampia discrezionalità usata da polizie e procure nell'appioppare accuse di “favoreggiamento dell'immigrazione clandestina” o ben più gravi accuse di terrorismo con ben poche basi giuridiche a sostegno, sia – di conseguenza – il ruolo principalmente dissuasivo che queste accuse giocano.
La traiettoria quasi ventennale disegnata dall'utilizzo di queste incriminazioni mostra in modo cristallino la compatibilità delle politiche del governo italiano nel contesto delle più ampie politiche migratorie dell'Unione Europa, a dispetto delle sfuriate dell'uno e delle lacrime di coccodrillo dell'altra.
Giulio D'Errico
- Fekete, Webber, Edmond-Pettitt, Humanitarianism: the unacceptable face of solidarity, Institute of race relations, 2017; Fekete, Webber, Edmond-Pettitt, When witnesses won't be silenced: citizens' solidarity and criminalisation, Institute of race relations, 2019.
- Direttiva 2002/90/CE del Consiglio, del 28 novembre 2002, volta a definire il favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del soggiorno illegali.
- L'uomo eritreo accusato per errore di essere un trafficante sarà rilasciato, “Il Post”, 12/07/2019.
- Bronwen Jones, “The End of 'deport first, appeal later':
The decision in Kiarie and Byndloss”, Border criminologies,
Univeristy of Oxford, su www.law.ox.ac.uk.
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