Rivista Anarchica Online


pensiero

Conoscenza, potere e libertà

di Marvi Maggio

Se le istituzioni escludono il pensiero critico, in che modo la conoscenza può dirsi libera? E chi riconosce la coerenza e la credibilità del pensiero prodotto fuori dalle accademie? Una riflessione sulla costruzione e il riconoscimento del pensiero.


Le conoscenze che appaiono sulla scena sociale non hanno tutte lo stesso riconoscimento. La loro credibilità è certificata dalle istituzioni preposte, in primo luogo le università, ma anche think tank finanziati dagli interessi economici e politici dominanti. Sono queste le istituzioni che in modo accurato ammettono o escludono sistemi di interpretazione della realtà e persone, e decidono quali ricerche e studi vadano finanziate e quali no. Cosa succede se le istituzioni preposte, come le università, escludono il pensiero e la conoscenza critica? La certificazione o no della persona e del suo pensiero attraverso l'immissione o l'esclusione dalle istituzioni culturali dominanti ha i suoi effetti: sminuire e rendere privo di valore il pensiero critico che emerge altrove, dove altrove significa nell'ambito di chi intende muoversi verso una società di liberi e uguali nei fatti, non solo nelle affermazioni e nelle dichiarazioni di principio. Se ti esprimi al di fuori dell'accademia il tuo pensiero deve farsi strada, ma chi certifica e riconosce la sua coerenza e la sua credibilità?
Se nel dopoguerra, l'antifascismo e poi i movimenti degli anni sessanta e settanta avevano consentito l'ingresso di pensiero critico nelle nostre scuole e università, a partire dagli anni ottanta si verifica una rigida progressiva e inesorabile espulsione di pensiero critico. Non di quello apparentemente critico, che può essere assimilato con successo nel sistema dominante, ma di quello davvero rivoluzionario, libertario e antagonista. Come si produce pensiero critico? Qui indichiamo alcuni elementi per la sua costruzione.

Il regime della verità

In ogni dibattito politico e sociale la verità viene sempre chiamata in gioco. Ma come sa bene chi si è trovato coinvolto, non basta essere convincenti per ottenere che le proprie argomentazioni siano considerate vere. E questo succede perché entra in gioco il regime della verità analizzato da Michel Foucault (1977), che esclude e nega la credibilità di chi non fa parte dei poteri egemoni.
La questione secondo Foucault è «di staccare il potere della verità dalle forme di egemonia (sociali, economiche, culturali) all'interno delle quali per il momento funziona» (Foucault, 1977, p. 28). La verità è interna al potere e viene prodotta in base a regimi specifici in ogni società e ha effetti di potere: «Ogni società ha il suo regime di verità, la sua 'politica generale' della verità: i tipi di discorsi cioè che accoglie e fa funzionare come veri; i meccanismi e le istanze che permettono di distinguere gli enunciati veri o falsi, il modo in cui si sanzionano gli uni e gli altri; le tecniche e i procedimenti che sono valorizzati per arrivare alla verità; lo statuto di coloro che hanno l'incarico di designare quel che funziona come vero» (Foucault, 1977, p. 25).
Si può disporre di dati e di argomentazioni convincenti, ma è necessario avere dalla propria parte intellettuali che siano in grado di connettere il sapere locale con questioni specialistiche, che siano parte delle strutture tecnico scientifiche e siano riconosciuti capaci di “designare quel che funziona come vero“. La politicizzazione delle questioni non riguarda solo cosa sia vero e cosa no, ma quali strutture di discorso sottostanno a questa definizione e chi possa prendere la parola e sia credibile nel prendere la parola.
La verità è legata a sistemi di potere in modo profondo, non si tratta solo di ideologia, ma di una condizione di formazione e sviluppo del capitalismo. La verità è connessa a sistemi di potere che la producono e la sostengono. E non lo fanno tanto imponendo contenuti in modo superficiale e esteriore, bensì agendo in profondità sulla verità intesa come «un insieme di procedimenti regolamentati per la produzione, la legge, la ripartizione, la messa in circolazione ed il funzionamento degli enunciati» (Foucault, 1977, p. 27).

Il rapporto fra oggettivo e soggettivo

La decisione fondata sull'oggettività e sul parere di esperti è spesso uno degli argomenti utilizzati per sostenere le scelte a favore del profitto e delle politiche neo-liberiste.
Il contrasto fra soggettivo e oggettivo viene spesso usato come argomentazione, come se l'oggettivo fossero i dati e le informazioni costruite dai proponenti di interventi distruttivi finalizzati al profitto e il soggettivo le convinzioni degli abitanti che vi si oppongono. Al contrario come nota Adorno in Minima Moralia ciò che è definito come oggettivo è in realtà soggettivo e ciò che è definito soggettivo in realtà è oggettivo «oggettivo è l'aspetto non controverso del fenomeno, il cliché accettato senza discutere, la facciata composta di dati classificati: e cioè il soggettivo; e soggettivo è ciò che spezza quella facciata, ciò che penetra nella specifica esperienza dell'oggetto, si libera dei pregiudizi convenuti e colloca il rapporto con l'oggetto al posto della risoluzione di maggioranza di coloro che, nonché pensarlo, non lo vedono neppure – e cioè l'oggettivo» (Adorno,1954, p.72). Di fronte a discorsi fondati su semplificazioni e stereotipi, su affermazioni indiscutibili, su politiche antisociali, è cruciale la capacità di interrogarsi e di porsi di fronte ai fatti con capacità critica e il coraggio di opporsi a dati che sono inficiati dall'ideologia che li ha prodotti. Per opporsi alla lettura dominante «...la ragione si è rifugiata ...nelle idiosincrasie personali, accusate di arbitrio dall'arbitrio dei potenti, che vogliono l'impotenza dei soggetti per timore dell'oggettività che è conservata solo presso di essi» (Adorno 1954, p.73).

La tensione fra interno e esterno

Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell'illuminismo (1966) pongono la necessità di un rapporto fra interno, noi stessi, e l'esterno, più riflessivo, in grado di superare le semplificazione e le impressioni fondate sulla proiezione di noi stessi e delle nostre convinzioni sull'esterno, per passare alla vera conoscenza. Non è un caso che loro pongano questa come una condizione strutturale per superare antisemitismo, padre di tutti i razzismi. La percezione è in parte una proiezione. E l'antisemitismo si basa sulla falsa proiezione. La falsa proiezione assimila l'ambiente a sé, traspone all'esterno l'interno. La questione è nell'incapacità di distinguere, da parte del soggetto, fra la parte propria e altrui nel materiale proiettato: «La proiezione è automatizzata, nell'uomo, come altre funzioni aggressive e difensive che sono divenute riflessi. Così si costruisce il suo mondo oggettivo...» (Adorno, Horkheimer, 1966, p. 202).
Ogni conoscenza si trova nella tensione fra interno ed esterno. Ogni persona deve controllare la proiezione che investe la sua percezione dell'esterno, deve affinarla e saperla dominare, rendendo possibile il distacco, l'identificazione, l'autocoscienza e la coscienza morale. La proiezione sottoposta a controllo si contrappone a quella «degenerata in falsa proiezione (che appartiene all'essenza dall'antisemitismo)» (Adorno, Horkheimer, 1966, p. 203). Esiste un rapporto intrecciato fra soggetto e oggetto, un rapporto dialettico: l'immagine percettiva contiene in realtà concetti e giudizi perché fra l'oggetto reale e il dato indubitabile dei sensi, c'è un abisso che il soggetto deve colmare. Ciò che è morboso nell'antisemitismo non è il comportamento proiettivo come tale, ma la mancanza della riflessione.
È necessario riflettere sull'oggetto e riflettere su di sé. I prodotti della falsa proiezione sono gli stereotipi del pensiero e della realtà. La riflessione che spezza la forza dell'immediatezza, si oppone così all'apparenza. Il pensiero non si può limitare all'apprensione del fatto isolato, connessioni teoretiche complesse sono necessarie: libertà e cultura. L'esperienza, fatta anche di percezione delle possibilità, è il fondamento della conoscenza e dobbiamo accettare che nulla è chiaro e indubitabile, perché accanto ai fatti, ci sono i progetti, il dischiudersi di possibilità.
“La conoscenza si situa in una fitta rete di pregiudizi, intuizioni, nervature, correzioni, anticipi ed esagerazioni, cioè nel contesto dell'esperienza, che, per quanto fitta e fondata, non è trasparente in ogni suo punto“ (Adorno, 1954, p. 86).

La conoscenza prodotta dall'esperienza

Il fatto di dare voce alle classi subalterne è un progetto politico che ha influenzato l'intero mondo della cultura ed è strettamente connesso alla lunga storia delle lotte per l'emancipazione dei lavoratori, delle donne e di tutti i gruppi sociali oppressi e subalterni. Michel Foucault (1977, p.108) afferma il valore del punto di vista dei soggetti che vivono nelle istituzioni totali, come i prigionieri e i pazzi, per conoscerne il funzionamento ma soprattutto per lottare contro il potere che viene esercitato in esse. Foucault evidenzia che a partire dalle esperienze politiche degli anni settanta le classi subalterne non hanno bisogno degli intellettuali per scoprire la verità e per sapere che ci sono rapporti politici dove sembrano non essercene; il problema non era allora conoscere la verità, ma affrontare il sistema di potere che blocca, vieta e invalida quel sapere che è venuto alla luce. Per Foucault il ruolo dell'intellettuale non era più svelare la verità, che era già evidente, «è piuttosto di lottare contro le forme di potere là dove ne è ad un tempo l'oggetto e lo strumento: nell'ordine del 'sapere', della 'verità', della 'coscienza', del 'discorso'» (Foucault, 1977, p. 109). Allora, negli anni settanta, a differenza di quanto avviene oggi, era egemone una visione esplicita degli interessi di classe in gioco.
La conoscenza diretta è attivata nella produzione di identità a partire da sé e, nei movimenti come quello delle donne, si contrappone allo stereotipo e all'etero-direzione, all'imposizione normativa e sociale, per proporre una autodeterminazione e costruzione di sé oltre la cultura dominante, che è un progetto politico e bio-politico. Al contrario quando la conoscenza diretta a partire da sé è prodotta senza evitare gli stereotipi, con quella semplificazione distorcente e rapida, può anche produrre una identità che pur partendo da sé, ribadisce una proposta eterodiretta, per esempio quella prescritta da una religione o da una cultura dominante fondata sulla discriminazione e l'ineguaglianza.
In tutti e due i casi siamo di fronte ad un progetto politico: uno che guarda alla trasformazione sociale egualitaria nel diritto di costruire sé stessi dando vita a una molteplicità di possibilità; l'altro che ripropone spesso culture e relazioni sociali diseguali e misogine. In entrambi i casi abbiamo di fronte un progetto politico: una proposta di quali relazioni sociali vogliamo costruire, quali relazioni con la natura, stili di vita e tecnologie vogliamo, che tipo di città. La conoscenza che parte da sé può prendere strade opposte, non è univoca: nei movimenti rivoluzionari ha avuto un significato, in altri contesti può significare l'opposto.
La politica come prospettiva di cambiamento insita in ogni protesta e rifiuto, ogni negazione è una affermazione, fa parte del reale perché il possibile fa parte del reale, è: «la via aperta verso l'orizzonte» (Lefebvre,1973, p.55). C'è un rapporto dialettico fra il reale, il possibile, l'impossibile, e lo scopo è rendere possibile ciò che sembrava impossibile.
Conoscere il regime di verità con cui ci dobbiamo scontrare e i meccanismi che lo consacrano, non farci scoraggiare e sviare da false oggettività, usare la nostra soggettività non come elemento statico e fermo, ma come processo in continua trasformazione, riflettere e confrontarci con le nostre percezioni con capacità critica, individuale e collettiva che non si ferma all'immediatezza dell'impressione ma sa riflettere sulla realtà e andare oltre le apparenze: così possiamo costruire conoscenza che certifica la sua credibilità attraverso la progressiva costruzione di libertà e felicità, seppure ancora in sparsi frammenti da ricomporre.

Marvi Maggio

Bibliografia

Adorno Theodor W., (1954), Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Giulio Einaudi Editore, Torino.
Adorno Theodor W., Horkheimer Max, (1966), Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino.
Foucault Michel, (1977), Microfisica del potere. Interventi politici, Giulio Einaudi Editore, Torino.
Lefebvre, Henri (1970), Il diritto alla città, Marsilio editori, Padova.
Lefebvre, Henri (1973), La rivoluzione urbana, Armando, Roma.