Rivista Anarchica Online





Amilcare Cipriani/
Quel diario dal carcere: agghiacciante

Garibaldino dopo aver disertato dall'esercito piemontese, sodale di Mazzini in gioventù e infine anarchico, colonnello nella Comune di Parigi, deportato ai lavori forzati in Nuova Caledonia, esule e rivoluzionario internazionalista in Francia, Egitto, Grecia e Inghilterra, con una vita passata prevalentemente da galeotto, più volte eletto come candidato-protesta nel parlamento del Regno d'Italia rifiutando sempre l'incarico, Amilcare Cipriani (1843-1918) è un vero mito, “l'eroe più popolare della Romagna” nella definizione di Vittorio Emiliani.
Sempre pronto a imbracciare le armi e a schierarsi dalla parte degli oppressi, è un personaggio la cui biografia richiama, con tutta evidenza, quella intricata commistione fra Sinistra risorgimentale, repubblicanesimo, socialismo degli albori e anarchismo già sottolineata, ormai mezzo secolo fa, da illustri storici come Carlo Francovich e Giorgio Spini.
Il libro di Marco Sassi (Amilcare Cipriani. Il rivoluzionario, prefazione di Vittorio Emiliani, Bookstones, Rimini 2019, pp. 322 + ill., € 20,00), mentre traccia un'utile e accattivante ricostruzione della vita avventurosa di Cipriani, utilizzando peraltro con efficacia letteraria una vasta gamma di documenti, si fa apprezzare soprattutto per la sua robusta appendice antologica di articoli a carattere monotematico.
Questa è una sorta di diario che, destinato ad essere pubblicato a puntate sulle pagine de «Il Messaggero», era stato inviato dallo stesso protagonista al direttore di quel giornale. Il plico, spedito da Parigi, era accompagnato da un biglietto – datato 5 ottobre 1888 – con il seguente laconico contenuto: “Lo scritto che vi mando sono pensieri gettati giù in fretta nel tetro bugigattolo di Portolongone [oggi Porto Azzurro, Isola d'Elba]. Vorrei dargli una limata, ma il tempo mi manca. Accettatelo dunque com'è e come se vi giungesse da Portolongone stesso”.
La lettura del “diario”, che occupa circa la metà delle pagine del libro, ci fornisce – insieme al vissuto dettagliato di un prigioniero eccellente – uno spaccato incredibile sulla condizione carceraria nell'Italia sabauda: “trattati peggio dei cani”. E c'è una evidente linea di continuità fra le epoche precedenti negli Stati preunitari e le fasi successive della storia patria fino ai giorni nostri.
Si tratta di un documento agghiacciante per certi versi e che racconta – insieme alla quotidianità in una prigione riservata ai reietti e agli oppositori politici – la crudeltà, i soprusi e le violenze inaudite delle guardie, le assurde condizioni igienico-sanitarie di questi tuguri, ma anche le rivolte che, inevitabilmente, finiscono nel sangue. La vita dentro le mura di Portolongone, cadenzata da un regolamento vessatorio, è resa impossibile anche dalla volubilità e dalla prassi amministrativa messa in atto dalla direzione e dal personale.
Basti pensare che ai nuovi detenuti viene assegnato un vestiario formato da “i cenci sudici e coperti da mille pezze dei defunti e di coloro che sono sortiti”, che ciascun nuovo prigioniero viene subito “ferrato” con una robusta catena di otto chili che potrà alleggerirsi nel peso solo una volta scontati isolamento iniziale e almeno sei mesi di buona condotta. Le punizioni, in genere cella d'isolamento e raddoppio della catena, sono inflitte con criteri assolutamente discrezionali del capoguardia. Fra le torture più frequenti la consegna ritardata, oppure non attuata, della corrispondenza dei familiari.
Il vitto giornaliero è costituito da 730 grammi di pane nero e da 60 centilitri di minestra di terza qualità cotta nell'acqua con soffritto di lardo e, ogni 15 giorni, “un briciolo di carne”. Il tutto servito in mastelli di legno che non vengono mai lavati. L'infermeria, dove “nove su dieci muoiono per mancanza di cure”, è un inferno.
“Se si ha bisogno di un recipiente per raccogliere immondezze, sozzure, cataplasmi, cenci d'infermeria pieni di sangue, marcia od altro, si prende uno di questi mastelletti ove si serve la minestra ai condannati. Fatta la corvée, senza darsi pensiero di dargli una sciacquata, si mette nel mucchio e cinque minuti dopo è piena di minestra...” (p. 293).
Da “irregolare” quale era, Cipriani ha voluto lasciarci quindi non solo la sua testimonianza di rivoluzionario indomito, ma anche quella di semplice galeotto. Scrive il prefatore, ben delineandone così la personalità:
“...ormai vegliardo, Amilcarino (Micrìn), quando gli avanzava qualche spicciolo, andava al mercato parigino della Cité e comprava una gabbietta col solo intento di dare libertà all'uccellino in essa rinchiuso. Un gesto simbolico, poetico, nel quale però c'è tutto il Cipriani di questa bella, ricca, animata biografia di Marco Sassi. Che speriamo insegni passione civile e coraggio libertario ai più giovani” (p. 9).
Il volume, corredato da una piccola biografia e da un inserto fotografico interessante, sebbene presenti qualche piccolo difetto di editing (mancano incredibilmente gli indici e le citazioni delle fonti spesso non sono puntuali), assume comunque un forte valore documentario a prescindere anche dalla vicenda storica peculiare, e abbastanza conosciuta, del protagonista.

Giorgio Sacchetti



Repressione/
Restaurato il docu-film su Battipaglia 1969

“I poveri non vanno contro i poveri”. Parole che dovrebbero essere scontate, ma non in questo tempo e nel nostro Paese imbruttito nelle coscienze, incattivito, tra l'altro, da una malsana propaganda politica. Parole che escono dalla bocca di un'operaia che si vede in Battipaglia analisi di una rivolta, docu-inchiesta che Giorgio Rambaldi e Luigi Perelli (il nome si lega a sei serie televisive della “Piovra”) girarono nel 1970, esattamente un anno dopo i dolorosi eventi che si consumarono nella cittadina della Valle del Sele, all'epoca un polo dell'industria agro-conserviera. Era il 9 aprile del 1969, tutta Battipaglia si fermò per protestare contro la chiusura di uno zuccherificio e un tabacchificio che davano occupazione, seppur stagionale, a centinaia di lavoratori. Una folla di circa ventimila manifestanti occupò strade, campagne e i binari della ferrovia.
A pararsi contro un forte spiegamento delle forze dell'ordine che, ben istruito dai sui vertici, iniziò a manganellare e a sparare ad altezza d'uomo. Moltissimi dimostranti dovettero far ricorso alle cure sanitarie, più sfortunati furono Carmine Citro, un operaio di 19 anni che venne colpito mortalmente alla testa, e Teresa Ricciardi, una professoressa di 26 anni, raggiunta al cuore da una pallottola vagante mentre seguiva la protesta dal balcone di casa. Gli incidenti di Battipaglia vennero raccontati sulle prime pagine dei principali quotidiani nazionali (quelli più conservatori parlarono di “moti eversivi”) e nel giorno dei funerali delle due vittime ci fu uno sciopero in molte piazze del Paese. Perelli e Rambaldi a distanza di dodici mesi dagli incidenti piazzarono la loro macchina da presa nella Camera del Lavoro di Battipaglia lasciando liberamente parlare i presenti.

Battipaglia (Sa), 9 aprile 1969 - La stazione ferroviaria,
epicentro della repressione poliziesca

Oltre a quella dell'operaia che invita alla solidarietà tra i poveri, si sentono le voci di chi accusa la polizia per l'inaudita violenza scatenata, di chi invece mette sul banco degli imputati la magistratura per non essere riuscita a dare nome e cognome ai responsabili delle due vite stroncate, di chi ricorda le dimissioni del locale consiglio comunale e l'arrivo del commissario prefettizio che poi non assolverà gli impegni presi coi cittadini di Battipaglia. Parlano commosse pure la madre e la sorella di Carmine Citro che aveva detto loro che andava in piazza quel giorno perché: “io un lavoro ce l'ho, ma è giusto che io mi batta per chi il lavoro non ce l'ha, o lo sta perdendo”.
Conservato dall'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e restaurato col contributo dell'Archivio Storico “Benedetto Petrone” di Brindisi, il documentario di Rambaldi e Perelli è stato presentato a Battipaglia nell'ambito delle manifestazioni per il “cinquantenario dei fatti del 9 aprile 1969”. Quelle immagini riviste oggi non fanno solo da lettura di una tragedia e delle sue cause, ma si pongono a “condizione” di un accostamento col presente, con una realtà industriale non così diversa da mezzo secolo fa se si pensa ai diritti violati sul lavoro, alla profonda crisi economica e industriale che investe, senza intravedersi vie d'uscita, l'area di Battipaglia e di tutta la Piana del Sele.
È un film in cui rimbombano fuori campo le parole enunciate all'indomani dei fatti del “9 aprile” dal presidente della Camera Sandro Pertini: “Solo pensando ai vivi non sicuri del loro domani possiamo degnamente onorare i morti, povere vittime innocenti”.

Mimmo Mastrangelo



Libereso Guglielmi/
Un meraviglioso erbario

L'erbario figurato di Libereso Guglielmi (L'erbario di Libereso. Meraviglie della natura attraverso la matita del giardiniere di Calvino, Pentàgora, Savona 2018, pp. 172, € 15,00) è un bel libretto con 110 tavole a colori e in bianco/nero accompagnato da due testi di presentazione. Al suo interno vi sono riprodotti i disegni a matita, gli appunti e gli acquerelli di uno dei più grandi esperti di botanica al mondo: Libereso Guglielmi.
Libereso - un nome che significa libertà - figlio di un anarchico tolstojano, vegetariano da sempre e pioniere del concetto di biodiversità, è stato senza dubbio un testimone fecondo di un modo libero e responsabile di vivere a contatto con la natura.
Come già ricordato ai suoi tempi sulle pagine di questa rivista, Libereso ci ha lasciati, novantenne, nel 2016, dopo una vita coerentemente libertaria. È conosciuto ai più come il giardiniere di casa Calvino o come il ragazzo che aveva ispirato il personaggio del Barone rampante: quel Cosimo Piovasco di Rondò che si rifiutava di mangiare le lumache arrampicandosi sull'albero era infatti proprio Libereso, che sapeva spostarsi di ramo in ramo. Ma sarebbe veramente riduttivo ricordarlo solo così, infatti il suo contributo alla botanica è notevole e la sua continua opera di ricerca lo ha portato a girare il mondo scoprendo nuove piante e biodiversità ovunque, dalla Riviera dei Fiori, passando per il Sud Italia e l'Inghilterra, fino ai suoi numerosi viaggi in Asia, India e Indonesia.
Negli ultimi anni della sua vita, senza mai trascurare il suo giardino a San Remo, si era speso soprattutto nelle scuole elementari, anteponendo sempre gli incontri con i bambini a quelli con gli adulti dal momento che “i grandi pensano di sapere già tutto”; non rifiutava però inviti a conferenze sulla flora spontanea in giro per l'Italia, preferendo soprattutto posti dove non era mai stato “perché il mondo è grande e io vorrei vederlo tutto”, tra cui vorrei ricordare la sua calorosa presenza alle Cucine del Popolo di Massenzatico (Reggio Emilia) nel 2012.
All'amore per la botanica ha sempre accompagnato la passione per il disegno, seguendo il disegnatore sanremese Antonio Rubino, suo vicino di casa. Libereso disegnava ovunque e su qualsiasi cosa, convinto che “il disegno è per tutti”, e accanto ai disegni botanici si trovano, purtroppo non ancora in un volume, scene quotidiane, caricature e fumetti anticlericali, contro la guerra e il capitalismo.
Insomma, sfogliare L'erbario di Libereso, curato da Claudio Porchia con la collaborazione della figlia Tanya Guglielmi e del nipote Ryan, è sicuramente un bel modo per avvicinarsi a Libereso e iniziare a conoscere questo libero pensatore, anarchico, antifascista, obiettore di coscienza, vegetariano ben prima che diventasse un modo di vivere comune a tanti, grande divulgatore dell'amore per la natura e per il prossimo, creativo nella botanica, nel disegno ma anche in cucina con le sue ricette a base di fiori e di erbe.

Selva Varengo



Trilogia sul fascismo/
Buona la prima

M. Il figlio del secolo (Antonio Scurati, Bompiani, Milano 2018 pp. 848, € 24,00) è una sfida, una provocazione, un contributo alla storia e alla divulgazione dell'antifascismo di cui si sentiva la mancanza. Scurati rimedia a questa falla e lo fa inerpicando la sua narrazione su un sentiero sconosciuto: raccontare dall'interno il Moloch fascista, la sua stessa genesi, i primi passi del ventennio; l'epifania di Benito Mussolini passato da essere un focoso signor nessuno a uomo della provvidenza d'Italia.
Il libro – parte di una trilogia – copre l'arco cronologico che va dalla fondazione dei Fasci di combattimento (23 marzo 1919) alla seduta della camera dei deputati del 3 gennaio 1925: i tempi immediatamente successivi all'assassinio di Giacomo Matteotti. Tempi in cui quell'efferatezza era più che mai presente nella vita italiana; tempi che avrebbero potuto vedere il sipario chiudersi sul movimento fascista: sfaldato, al suo interno, da varie correnti e additato e temuto dalla popolazione per le sue mani sporche di sangue. Ma Scurati non si concede sortite di alcun genere nella Storia controfattuale. Man mano che le pagine scorrono, però, è indomabile la sensazione che l'Italia avesse potuto evitare di vestirsi con camicie nere così a lungo. Si vorrebbe che – quasi per magia – la letteratura potesse piegare il corso della Storia e farci svegliare da quel flashback che ha inquinato, e continua a inquinare, la nostra memoria collettiva e il nostro dibattito pubblico.
A proposito di M. Il figlio del secolo nelle pagine di rispetto del volume ci viene detto che abbiamo tra le mani un “romanzo documentario”; una prima considerazione sulla curatela editoriale porta a ritenere perlomeno discutibile la scelta di far campeggiare in copertina la dicitura “romanzo”: primo perché fuorviante nei confronti dei lettori, secondo perché macchia una resa grafica altrimenti azzeccata.
In secondo luogo, tralasciando la necessità di dover per forza incasellare all'interno di un genere letterario un'opera la cui stessa natura prende le distanze da facili definizioni, la dicitura “romanzo documentario” ci viene in aiuto nell'analisi dello stile di Scurati e, soprattutto, riguardo a ciò che vuole comunicare. Il Nostro colloca la sua macchina da presa nelle piazze e nelle parate fasciste, negli scioperi operai che dal rosso sfumano verso il nero, nelle stanze del potere, per non parlare dei salotti e dei bordelli. Nelle campagne e nei vicoli dove si consumano le bastonature: insomma l'autore non fa sconti e prima ancora che al contesto socio-politico, non fa sconti ai suoi lettori. Siamo di fronte a una non-fiction novel sublimata da una penna poliedrica che sa entrare nei gangli dei primi anni Venti italiani facendosi cronista, fine conoscitrice della mente umana, abile analista di politica interna, reporter di una guerra civile ai suoi albori.
Minimo comun denominatore rimane, per tutte le 800 pagine del volume, uno stile da scrittore di razza, che se in rare occasioni sembra concedere qualcosa alla ricostruzione storiografica pura, non scade mai nel retorico e nel melenso offrendo un registro linguistico e narrativo di livello.
La prima parte della sfida di Scurati – in attesa del resto della trilogia – può dirsi vinta: innestare, tramite una divulgazione ben documentata, un cortocircuito di prospettive nella pancia e nella mente dei lettori si rivela un esercizio di riflessione necessario; costringere, tramite patto narrativo, a un corpo a corpo con il duce del fascismo spinge, giocoforza, i lettori oltre la lettura del libro. Dove li spingerà ci piacerebbe fosse il segno di un futuro migliore a dirlo.

Matteo Pedrazzini



“Pazzia”/
I bambini istituzionalizzati

All'interno di quel caleidoscopico viaggio che è “Buon Compleanno Faber” (festival che si svolge a febbraio in Sardegna), quest'anno è stato presentato un interessante lavoro di ricerca sul mondo della psichiatria infantile. Alberto Gaino, giornalista e scrittore, ha pubblicato un volume dal titolo Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione (Ega Edizioni Gruppo Abele, Torino 2017, pp. 224, € 15,00).
La storia raccontata è tutta nel titolo. Gaino ha indagato la realtà, poco conosciuta, delle strutture manicomiali dedicate all'infanzia e adolescenza che furono attive nel nostro paese fino alla seconda metà degli anni '70 del XX sec., studiando il caso di Villa Azzurra, manicomio per minori di Grugliasco, paese alle porte di Torino, sorto nel 1937 e chiuso definitivamente nel 1979 (la Legge 180, cosiddetta Basaglia, viene approvata nel maggio del 1978).
L'inchiesta di Gaino da qui si dipana per indagare la situazione attuale della “follia” dei minori, puntando il focus su problematiche nuove e dinamiche che pericolosamente si avvicinano a quelle del passato. La lucida e terrificante follia della creazione e gestione di strutture manicomiali dedicate a bambini è inevitabilmente il dato che colpisce appena ci si cala nel mondo raccontato da Gaino: Villa Azzurra, la cui storia si sviluppa inestricabilmente unita a quella dell'Ospedale Psichiatrico di Collegno, nasce per ospitare bambini/e e ragazzi/e minorenni (vi si poteva accedere dall'età di 3 anni) considerati “malati”, “pericoli per sé e per gli altri”. Erano figli della povertà socio-economica e culturale dell'epoca.

Il bambino ama chi rispetta”
Erano figli di madri nubili, di genitori che non avevano la possibilità di accudirli dignitosamente, provenienti da situazioni familiari spesso già pesantemente compromesse. È un quadro già visto, lo sappiamo bene, dice Gaino «è un fatto che nei quattro ospedali psichiatrici di Torino e provincia il picco di ricoverati (...) si raggiunse nel 1966. Il 37 per cento dei pazienti (...) era costituito da ex operai, il 28 per cento da casalinghe, il 9 per cento da agricoltori. Non si è trovato un rifermento a quanto non fosse nemmeno ex qualcosa.»
Si capisce bene che fine facessero i figli di questi ex qualcosa. Come nei manicomi per adulti, così anche in quelli per bambini venivano internati individui con differenti patologie fisiche e/o psicologiche, epilettici, sordi, ciechi, ipovedenti oppure bambini semplicemente troppo vivaci e irrequieti o considerati “ritardati”. In quanto tali, erano minori “pericolosi” perché, in modi differenti, si trovavano al di fuori di una normalità definita da una società che si considerava civile (all'interno di Villa Azzurra si veniva etichettati come “educabili” o “non educabili”).
Se la povertà costituisce la base su cui si fondano le storie dei piccoli ricoverati, le cartelle cliniche di alcuni pazienti, scarse quasi tutte d'informazioni sulla vita dei singoli, rivelano altro: non vi era alcuna capacità e volontà di prevenzione né di aiuto, ma l'unica modalità messa in campo era quella della contenzione. I minori di Villa Azzurra e di Collegno venivano contenuti all'interno di strutture nate per tale scopo e venivano contenuti anche fisicamente ai loro letti, alle panchine e alle reti di recinzione durante la notte e il giorno.
La punizione era vista come privilegiato mezzo rieducativo, “Il bambino ama chi rispetta” questo era il motto. Un percorso in libera e veloce discesa verso la totale disumanizzazione passava anche attraverso il linguaggio utilizzato: i ricoverati non erano bambini, non erano degenti, non erano neanche malati, ma erano “gli arnesi”. Di un “arnese” si fa ciò che si vuole. Sarebbe stato molto più dignitoso chiamarli “pazienti”, perché quello facevano, “soffrivano” ma la dignità è un concetto lontano dal mondo che Gaino descrive.
Una prima scossa al sistema di Villa Azzurra avviene nel 1968 quando scoppia il caso di Alberto B., bambino internato nella struttura e vittima, come gli altri, dei continui abusi. Il Direttore di quel tempo era Giorgio Coda, noto “elettricista” soprannome dovuto alla facilità con la quale applicava elettroshock ed elettromassaggi (scariche elettriche alle zone pubiche) che verrà condannato nel 1974 ma mai radiato dall'Ordine dei Medici. È però del 1970 lo scandalo che apporterà alcune modifiche al sistema e condurrà, nel 1979, alla chiusura della struttura: “L'Espresso”, nel luglio 1970, pubblica un articolo a firma di Gabriele Invernizzi sulle condizioni disumane dei piccoli ricoverati di Villa Azzurra. L'articolo è arricchito da fotografie di Mauro Vallinotto che non lasciano nulla all'immaginazione, “celebre” la foto di Maria, una bimba nuda crocifissa al suo letto.
La follia di Villa Azzurra non avrebbe potuto reggere se non ci fossero stati quelli che Gaino chiama “meccanismi del potere” all'interno di una “cultura della protezione” che, come scrive l'autore «fu il collante ideologico, più che culturale, che da sinistra a destra aveva messo d'accordo tutti, persino gli illuminati di quel tempo oscuro.» Anche queste sono le storie di istituzionalizzazione del sottotitolo. Per convenienza/connivenza o per cecità, le istituzioni alimentarono il sistema. Poche e isolate furono le voci che si levarono come critica al sistema manicomiale, pochissime quelle che si occuparono di internamento infantile.

Attraverso i pochissimi documenti disponibili
In opposizione al silenzio del passato, per «non dimenticare; ricordare a chi è vissuto al tempo dei manicomi e informare chi non c'era», Gaino dedica la parte centrale del suo lavoro al racconto di alcune storie di singoli ricoverati, ricostruite attraverso i pochi documenti disponibili e, in alcuni casi, attraverso le testimonianze dirette di chi è sopravvissuto: ricostruendo le vite dei singoli e pubblicandole, l'autore aiuta gli ex bambini di Villa Azzurra nel processo di riappropriazione della propria storia e, quindi, nel percorso di riappropriazione di una propria dignità. Ricordare, innanzitutto, per dare dignità alla vita.
Le “storie di istituzionalizzazione” non sono, però, solo quelle del passato; Villa Azzurra fa da specchio alle storie dell'oggi. Alcune di esse, ci ricordano più da vicino la follia e violenza della struttura piemontese, come l'esempio della comunità/cooperativa agricola “Il Forteto”, fondata nel 1977 (quando si stanno chiudendo i manicomi in Italia) da Rodolfo Fiesoli. Nelle intenzioni una comunità innovativa, improntata su un modello integrativo nel quale l'importanza dell'individuo era garantita e connessa con il lavoro agricolo, nella realtà si tramutò presto in una vera e propria setta laica, al cui apice stava il suo fondatore, basata su violenza e negazione dei diritti individuali: abusi sui minori, umiliazioni, rapporti/abusi sessuali visti come parte integrante della terapia. Fiesoli riuscì a creare e mantenere una struttura del genere grazie all'appoggio incondizionato interno ed esterno alla comunità.

I migranti psichiatrici
È incredibile vedere, come a distanza di qualche decennio ma con una legge, la 180 nel mezzo, la cecità delle istituzioni sia rimasta invariata rispetto a quella chiarita nell'esempio di Villa Azzurra. Il Forteto, infatti, riuscì a ingrandirsi e fortificarsi grazie al cieco appoggio delle istituzioni, primo fra tutte il Tribunale dei minori di Firenze; la comunità venne proposta come esempio da seguire sia dal punto di vista terapeutico sia da quello economico (divenne una delle più importanti realtà economiche agricole del Mugello). Fiesoli viene condannato solo nel 2015.
Ma non ci sono solo i casi eclatanti, fa spavento anche la normalità. Secondo l'indagine di Gaino manca una vera politica sociale di prevenzione legata ai problemi psichiatrici per l'età evolutiva: ci sono problemi oggettivamente derivanti dal taglio economico di alcune risorse e mancano percorsi formativi adatti, tutto ciò mentre le richieste di ricovero in strutture che si occupano di neuropsichiatria infantile sono in aumento perché in aumento le diagnosi (dovute a maggior capacità di diagnosi ma anche all'introduzione nel Manuale Diagnostico e Statistico di nuove patologie): diminuiscono, nel contempo, i posti letto e si allungano le liste d'attesa.
Una conseguenza di tutto ciò è l'incentivazione del fenomeno dei migranti psichiatrici, costretti a migrare da una regione all'altra del territorio italiano alla ricerca di disponibilità per il ricovero. Gaino tocca anche il problema ancora aperto dell'uso della forza, mostrando i tentativi di stesura di protocolli e raccomandazioni per normarla.
Esistono nuove emergenze psichiatriche, come quella legata al flusso di migranti minori stranieri: portatori, nella maggioranza dei casi, di vissuti traumatici alle loro spalle ma per i quali non esiste un piano condiviso né strutture capaci di venir incontro alle loro necessità. L'argomento viene affrontato attraverso la visita al centro di prima accoglienza di Archi (Rc) dove, nel 2016, scoppiò la protesta: giornate passate nell'inedia e nel degrado e assenza di mediatori culturali che possano aiutare i ragazzi.
Un dato importante su cui riflettere: il numero di minorenni che giungono in Italia è in aumento; questo, ci spiega Gaino, per la maggior facilità con la quale un minorenne è tutelato, almeno formalmente (ad es. ottenendo più facilmente i documenti). Ciò porta molti migranti a dichiarare un'età al di sotto dei 18 anni ma nel contempo aumenta l'interesse dei trafficanti umani per i minori (specialmente nell'ambito della prostituzione).
In conclusione, una citazione dalla prefazione “Un racconto di quel che è stato non può (...) trascurare il presente e il futuro. Oggi la follia è altro da quanto era in passato e ho provato a descrivere: fenomeno di massa, fenomeno di poveri, manicomi come discariche umane e sociali. Lo scrivo e subito mi chiedo: sicuro che sia così? La verità è che non ne sono affatto sicuro: i matti sono per lo più poveri, lo sono per la stessa condizione di emarginazione sociale in cui sono rinchiusi.”

Alice Nozza



Musica per Emma Goldman/
Le passioni affiorano quando ce n'è bisogno

Si torna sempre più spesso a parlare di Emma Goldman, anche nel mondo della musica.
Conobbi la sua figura negli anni '90, un periodo in cui dai decenni precedenti ritornavano scottanti tra i movimenti giovanili temi come ecologismo, antispecismo, riscoperta del corpo, questioni di genere, sessualità, nuove tecnologie... Certo un volume edito nel '76 dal titolo “Anarchia femminismo e altri saggi” sembrava difficile da incastonare nel “contemporaneo” cambio di millennio, eppure tanto la foto di copertina pareva polverosa, tanto le parole tuonavano attualissime. Fu così che imparai anche la famosa citazione (peraltro mai pronunciata dalla Goldman nella versione sintetica che conosciamo) ”se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione”, un motto riscoperto giusto in tempo per essere adottato dalla controcultura rave quando fece irruzione nella scena mondiale. Proprio in quel periodo fioccarono infatti le citazioni dell'anarchica, prima di moltiplicarsi nell'ultimo quinquennio.
Un anno fa il collettivo napoletano E.L.E.M. (Marco Messina dei 99 Posse, Fabrizio Elvetico, Loredana Antonelli) pubblicava un notevole album di musica elettronica dal titolo “Godere Operaio”. Lì una traccia di musica dub “aliena” era dedicata alla Goldman con campionamenti in Inglese da un'intervista televisiva: “L'anarchismo è una filosofia sociale che mira all'emancipazione, economica, sociale, politica e spirituale della razza umana”. Il mese scorso, invece, è uscito un nuovo album di Xabier Iriondo (Afterhours) e Stefania “?Alos” Pedretti (OvO) dal titolo Coscienza di sé (Sangue Disken/Cheap Satanism 2019): un intero lavoro dedicato alla figura della scrittrice rivoluzionaria, registrato nel 2018, dicono, “quando il femminismo stava riprendendo linfa vitale, anche grazie al movimento Non Una di Meno”. Xabier e Stefania, lettori di “A”, hanno un percorso di militanza di oltre vent'anni; il primo anche per storia familiare, con il nonno nelle brigate garibaldine e il padre basco a Gernika sotto i bombardamenti del '37. In quest'opera hanno scelto di comunicare attraverso un sound sempre minimale e crudo, ma meno ostico, rispetto alla materia sonora abrasiva e detonante alla quale ci hanno abituato nel tempo, solitamente di ambito noise/metal. I testi, tratti da “Femminismo e anarchia” e cantati in Italiano, accompagnano l'ascoltatore attraverso la ripetitività ipnotica di una musica industrial-punk con venature melodiche. L'album è un trip che dall'incipit quasi “tibetano”, passando per violente arringhe, sfiora i margini del “pop” sciogliendosi in una ballata nel finale. È insomma un intenso viaggio iniziatico per rompere “i ceppi che imprigionano la tua mente”, come canta Stefania. Un disco importante che ancora una volta ribadisce l'attualità del pensiero di Emma.
Partito quindi alla ricerca dei lavori musicali dedicati alla figura della rivoluzionaria, il quadro che ne è emerso ha confermato la presenza via via più massiccia di citazioni, prima nel cambio di millennio e poi nell'ultimo triennio, in una rosa di artisti di svariati generi, con leggera prevalenza di musica elettronica e punk.
Si inizia con il jazzista Phil Minton che pubblica “to Emma Goldman” nel 1981. Quattro anni dopo esce “Petals and Ashes (A Song For Emma Goldman)” dell'artista post-punk Jeremy Kidd. Nel 1986 Leonard Lehrman e Karen Ruoff Kramer scrivono “A Musical Portrait of Emma Goldman”, opera per canto e pianoforte in scena fino al 2015. Nel 1989 il funambolico gruppo olandese The Ex inserisce le parole di Emma nel brano “Tightly Stretched” in cui suona anche Lee Ranaldo dei Sonic Youth. Dopo questi “pionieri” saltiamo al 1996, anno in cui il musicista country Bucky Halker le intitola un brano, mentre i Refused, band svedese di culto della scena post-hardcore, inseriscono la citazione “Se non posso ballare...” sulla retrocopertina del mini album “Rather Be Dead”. L'anno dopo Steve Earle scrive per lei “Christmas in Washington”. La band Piggy: The Calypso Orchestra of the Maritimes le dedica una canzone omonima nel '99 e il gruppo folk tedesco Trio Kali Gari nel 2001. Fanno lo stesso, l'anno successivo, la cantautrice Jolie Rickman e il gitano Taraf Borzo, mentre l'omaggio del gruppo skate-punk Randy s'intitola “Karl Marx and History”. Songs for Emma Goldman è il nome di una band californiana attiva dal 98 al 2003, anno in cui Joan Baez esegue una cover della canzone di Steve Earle su citata. Sempre nel 2003, gli Zu, formazione romana di musica sperimentale, includono in una compilation il brano “Portrait N°2, Emma Goldman”; il gruppo post-punk Pretty Girls Make Graves pubblica “Modern Day Emma Goldman”; l'artista elettronico Cadmium Dunkel le dedica una traccia; stesso discorso, pochi mesi dopo, per i New Orleans Troublemakers e la band hardcore Kakistocracy che si chiede in “Red Emma” se la nostra amata abbia combattuto invano, visti i tempi che corrono. Nel 2005 i Chumbawamba incidono “When Alexander met Emma” e nel 2006 l'artista indie-rock White Town pubblica lo strumentale “Fanfare for Emma Goldman”. Nel 2007 le intitolano una canzone il gruppo post-rock Art Of Fying e la cantante folk Anne Feeney; Bev Grant lo fa un anno dopo e il collettivo Reggaecide nel 2009. Nel 2010 tocca al rapper greco B.D.Foxmoor ed è dell'anno seguente “Love & Emma Goldman: A Rock Opera” di Jeremy Bleich e Sarah-Jane Moody. Nel 2014 all'anarchica vengono dedicati quattro pezzi dalla cantante folk Jerusha, dalla folk band inglese Fit and the Conniptions, dall'artista elettronico Kirdek e da Sole, uno dei fondatori dell'etichetta “Anticon”, che pubblica insieme a DJ Pain “I Think I'm Emma Goldman”. Nel 2015 la band punk-electro tedesca 100blumen, sulla retrocopertina del disco “Under Siege”, scrive Emma Goldman come “autore” e il chitarrista britannico David Birchall dà alle stampe il brano “For The Third Time That Week She Asked Herself: What Would Emma Goldman Do?”. Il gruppo punk inglese Martha in “Goldman's Detective Agency” del 2016 immagina Emma la Rossa come un detective che investiga la corruzione di politici e polizia, e anche il produttore techno Plaggona le dedica una traccia. Ma è arrivando al 2018 che le citazioni si moltiplicano: a New York va in scena “Red Emma & The Mad Monk”, un'opera teatrale satirica di Katie Lindsay e Alexis Roblan; il producer tedesco AGF le dedica un brano sull'album “Dissentova”; il vibrafonista jazz di Atene pubblica un tributo sull'album “Indoles”; il produttore Lucius Work Here scrive “La Mujer Más Peligrosa De América (para Emma Goldman)”; la band punk americana Anti-flag incide “Trouble Follows Me: A tribute to Emma Goldman”; The Blood Feud Family Singers pubblicano “Emma Goldman's Arrest”. E poi, come dicevamo, escono il brano di E.L.E.M. e quest'anno l'album di ?Alos e Iriondo, quasi sventolando il fantasma di Emma La Rossa per rammentarci che la storia è già stata scritta, ma non tutti imparano dal passato e, tra un “Congresso Mondiale delle Famiglie” e una proposta di legge anti-abortista, i ricordi e le passioni affiorano quando ce n'è maggiormente bisogno.

Tobia D'Onofrio