Rivista Anarchica Online


società

Questi tempi di odio

di Renzo Sabatini

Oggi in molti si sentono in diritto di insultare, colpire, umiliare persone che nemmeno conoscono. E per alcuni la prepotenza è un vanto. La rabbia degli sfruttati si rivolge ad altri sfruttati. E ormai contano solo gli istinti.

Gli incendiarono il letto sulla strada di Trento.
(La domenica delle salme
, F. De André e M. Pagani, 1990)

La domenica delle salme è una canzone disperata, di persone che credevano di poter vivere almeno in una democrazia e si sono accorte che questa democrazia non esisteva più”.
Ho ritrovato queste parole di Fabrizio De André in un'intervista del 1993.1 Non ricordo cosa ne feci all'epoca, oggi penso che avesse ragione, che avesse visto più lontano di tutti gli altri, come gli accadeva di frequente. Aveva cercato di comunicarci quella disperazione attraverso una sequenza di immagini allucinate: il cadavere di utopia accompagnato fra i flauti, la scimmia del quarto Reich a ballare la polka, i trafficanti di saponette che mettevano pancia verso est, i polacchi inginocchiati ai semafori a rifare il trucco alle troie di regime, il ministro dei temporali ad auspicare democrazia con le mani sui coglioni. Intorno i segni di una pace terrificante.
La canzone prendeva spunto da vari fatti di cronaca, incluso quello di un barbone dato alle fiamme a Trento. Un episodio che all'epoca suscitò orrore, anche perché gli assassini avevano scelto la loro vittima a caso. Se il fatto fosse accaduto oggi, venticinque anni dopo, probabilmente gli autori avrebbero anche girato un video destinato a divenire virale sui social. Prima della sua rimozione molti avrebbero postato feroci commenti di approvazione e forse qualche ministro avrebbe finito per dare la colpa al barbone, vera minaccia per la pubblica sicurezza. La malvagità elettronica è divenuta comune, l'odio viene diffuso standosene nascosti dietro le tastiere dei telefonini.
Il confine tra decenza e indecenza non è più definito, la morale è saltata. Oggi può accadere che un uomo mediocre possa scendere in strada, sparare a dei migranti scelti a caso e trovare qualcuno pronto a giustificare il suo gesto. Un prete qualsiasi può affermare che sparare al ladro, anche disarmato, è cosa buona e giusta, senza provocare riprovazione. Un ministro può eccitare gli animi, suscitare ammirazione e consenso irridendo la mamma adottiva di un ragazzo che ha ricevuto minacce di morte, affermando, dopo una strage di islamici, che il vero problema sono le vittime, lanciando slogan elettorali da un carcere, mentre conversa amabilmente con un assassino.

Jugoslavia 1992

Per involontarie associazioni della memoria questi fatti hanno fatto riaffiorare il ricordo di un episodio che risale forse all'inizio dell'estate ’92, quando la guerra infuriava poco oltre il nostro confine orientale. In quei tempi, a breve distanza da casa nostra, la gente si ammazzava con inaspettata crudeltà, distinguendosi secondo antiche divisioni etniche e religiose che molti di noi, cresciuti nel dopoguerra con la Jugoslavia di Tito, nemmeno sapevamo esistessero. In quei giorni mi ritrovai in viaggio in quelle zone di guerra, visitando campi profughi per conto di una rete italiana di solidarietà. Un pomeriggio, in Croazia, la sosta per un caffè in un paesino provocò una strana agitazione in un gruppo di contadini; qualcuno però andò a parlarci e tornò subito il sereno. Quasi non mi resi conto di nulla, ma ero stato io a turbare l'atmosfera, come mi spiegò subito l'interprete. I paesani si erano infatti convinti che fossi serbo. In quel villaggio sperduto al confine con l'Ungheria, in tempi di odio, per la gente del posto assomigliavo al nemico, quindi, ero il nemico. Uno del gruppo, sorridendo, mi si avvicinò, mi strinse la mano e mi disse qualcosa, che capii grazie al gesto inequivocabile con cui accompagnò la sua battuta, portandosi la mano al collo e percorrendolo col taglio lungo la linea mediana, da una parte all'altra. Solo dopo alcune settimane, ripensando a quell'episodio, mi resi conto di aver rischiato il linciaggio per un equivoco e mi montò dentro la rabbia.
In quel viaggio, ad ogni posto di blocco, avevo subito la prepotenza di militari dal volto indurito dalle battaglie. Avevo visto la furia delle pulizie etniche nei paesini in cui le case degli “altri” erano state date alle fiamme e i “nemici”, spesso i vicini di casa di una vita, erano stati uccisi o cacciati per sempre. Avevo partecipato alla preghiera di donne violate che avevano perso tutto. Ma avevo rischiato davvero la vita quando un gruppo di contadini croati mi aveva scambiato per serbo. Che significato dare a tutto ciò? Anche fossi stato serbo, perché degli sconosciuti a cui non avevo fatto nulla di male avrebbero dovuto uccidermi? Non ha alcun senso, eppure è accaduto.
Se quel vecchio episodio mi torna in mente è perché lo associo ai fatti di cui oggi sono testimone. Mi ricorda le responsabilità dei politici, che infiammano gli animi e scatenano incendi, inventando nemici della patria e dandoli poi in pasto alla gente, capri espiatori per ogni male della nazione. Uomini mediocri fondano le loro fortune politiche sul clima ostile che essi stessi creano. Molti si fanno scudo delle loro parole, si sentono incoraggiati ad agire, giustificati nella loro arroganza.

Slogan come quello di Hitler

Accade così che delle persone qualsiasi si improvvisino sceriffi, poliziotti, giudici e giustizieri, come quei contadini che volevano sgozzare il serbo di passaggio.
Molti oggi si sentono in diritto di insultare, colpire, umiliare persone che nemmeno conoscono. Le loro azioni malvagie restano impunite e talvolta se ne fanno vanto. Le cronache sono piene di racconti di italiani incupiti, rabbiosi, che se la prendono con i più deboli, incitati da un potere becero che non perde occasione di infiammare gli animi. Chi si oppone a tutto questo ragionando, nota quanto certi slogan assomiglino a quelli lanciati quasi un secolo fa da Adolf Hitler. L'insensato prima gli italiani, pronunciato da chi, tra l'altro, negli italiani non ha mai creduto, ricorda infatti il grido nazista prima i tedeschi. “Chi aiuta i clandestini odia gli italiani” fa il paio con le parole terribili del führer, preludio dell'olocausto: “chi aiuta gli ebrei odia i tedeschi”.
Prigioniero dei miei ricordi, aggiungo che il grande dramma nazifascista non è nemmeno stato l'ultimo incubo europeo, che dopo la fine di quei regimi terribili ci sono stati altri odi, altri conflitti, scoppiati quando la pace pareva ormai assicurata per sempre. Venticinque anni fa, a due passi da casa nostra, l'odio politico ha acceso la miccia e l'incendio è divampato. Stupro e omicidio sono diventati pane quotidiano. Non uccidevano e stupravano solo gli eserciti, ma anche i civili, colti da raptus di insensata follia. Le cronache raccontavano del maestro serbo che aveva sparato allo studente croato e del medico croato che aveva rifiutato le cure al ferito serbo, condannandolo a morte. I cecchini a Sarajevo sparavano su tutto ciò che si muoveva. Il ponte di Mostar venne abbattuto per impedire ogni possibile riconciliazione fra le comunità. Ci si illude che certe cose da noi non possano accadere ma, intanto, si moltiplicano le aggressioni.
Rabbrividisco pensando ai molti che hanno giustificato il gesto di Luca Traini, l'uomo che a Macerata, nel febbraio 2018, sparò a casaccio su cittadini stranieri e solo per caso non commise una strage. Mi terrorizza che il suo atto vile sia divenuto fonte di ispirazione per un emulo degli antipodi, che il suo nome fosse scritto sull'arma con cui, un anno dopo, l'australiano Brendon Tarrant ha fatto strage di fedeli nelle moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda. La follia viaggia nella rete, arriva lontano, produce ammirazione.


foto etvulc/Depositphotos.com

Nuovi drammi alle porte

Il discorso politico di questi tempi è permeato di quella follia e tende a giustificare certe forme di violenza. Con lo slogan La difesa è sempre legittima, si promuovono nuove norme che giustificano autentici omicidi, come già da tempo accade negli Stati Uniti. Come già si fa da sempre oltreoceano, stanno cercando di convincerci che siamo tutti in pericolo e che armarsi sia la risposta giusta. Così, adesso, molti bramano la pistola, studiano i cataloghi online, soppesano fra le mani i gioielli delle armerie. Vogliono essere pronti ad accogliere l'intruso, il nemico del proprio gruzzolo che attende nella notte fuori dalle porte, pronto a intrufolarsi. Vogliono sparare. Le armi da fuoco ancora esercitano un fascino terribile sugli uomini, malati di virilità. Siamo ancora quelli della pietra e della fionda, persuasi allo sterminio. Nuovi drammi sono alle porte, me ne convinco consultando le statistiche, leggendo i resoconti degli studiosi, le cifre della guerra non dichiarata che insanguina gli Stati Uniti, con le stragi nelle scuole, le vendette, i colpi partiti per errore o per malizia. È quello il modello che stiamo emulando. I mercanti d'armi ringraziano.
Del resto è possibile che anche in tema di discorso politico l'esempio venga proprio dall'altra sponda dell'Atlantico: scimmiottare gli americani ci piace, da sempre. Da tempo negli USA si fa un uso indiscriminato dell'armamentario del disprezzo: i discorsi del presidente sono infarciti di intolleranza, insulti e violenza, fino ad ammiccare all'ultradestra neonazista, razzista e antisemita, fino talvolta ad incitare apertamente all'uso della violenza da strada. I commentatori d'oltreoceano li chiamano Hate Speeches, discorsi dell'odio, e ne denunciano la pericolosità, perché le parole del presidente sono ascoltate da molti milioni di persone e fanno scattare meccanismi di identificazione. I violenti si sentono protetti, incoraggiati da quelle parole, dagli ammiccamenti che arrivano direttamente dalla Casa Bianca. Non è un caso se, nelle settimane successive all'elezione di Trump, razzisti e neonazisti hanno rialzato la testa e le cronache locali hanno registrato un'ondata di violenze gratuite, per le strade, nelle università, persino nelle chiese. Anche l'infame Ku Klux Klan è tornato a farsi vedere in pubblico. Qualche analista si è spinto a individuare un fil rouge che collegherebbe l'odio profuso dal presidente al tragico attacco dell'ottobre 2018 a una sinagoga di Pittsburgh in Pennsylvania, costato la vita a undici fedeli, riuniti nella preghiera del sabato. Robert Bowers, l'esponente dell'ultradestra autore della strage, aveva infatti agito spinto dall'odio per l'HIAS, una non profit ebraica molto attiva nell'accoglienza dei rifugiati e, come si sa, il tema della pericolosità dei rifugiati è stato presente ossessivamente nei discorsi del presidente.

Il mito degli “italiani brava gente”

Anche da noi i discorsi dell'odio sono divenuti la norma: si pensi alle vicende delle navi delle organizzazioni umanitarie, coi loro carichi di migranti salvati e poi diventati merce di scambio per i livori politici europei; esseri umani lasciati a vagare per le acque burrascose del Mediterraneo o sequestrati nei pressi dei porti di sbarco, mentre a terra imperversava un dibattito feroce sul loro destino. Sulla pelle di quella gente sono state consumate rivalse, lanciati proclami, spese parole iperboliche, soddisfatti appetiti elettorali, ma siamo rimasti in pochi ad indignarci. Indifferenza, fastidio e rifiuto hanno prevalso.
Il mito degli “italiani brava gente” con cui anch'io sono cresciuto, è ormai sepolto. Ci hanno pensato gli storici seri come Angelo del Boca a scavarne la fossa, coi loro studi sui nostri tristi e violenti trascorsi coloniali, con i quali hanno documentato le atrocità di cui non credevamo essere capaci, e tuttavia abbiamo commesso in abbondanza. Sappiamo così che, quando se ne è data l'occasione, anche noi ci siamo comportati con la crudeltà dell'invasore che saccheggia, stupra, schiavizza, tortura, uccide e chiama bandito chi resiste al sopruso.
Sulla tomba di quel mito non intendo proporne di nuovi. Non credo negli “italiani cattiva gente”, né penso di santificare i migranti, quasi fossero immuni, anche loro, dalla cattiveria. Non mi importa che tutti amino a forza gli stranieri. Non è questo il punto. La questione riguarda invece che tipo di società vogliamo essere, quali sono i principi che, collettivamente ci guidano, quale etica informa la nostra vita assieme, quale morale. Il punto è se, come società, vogliamo rassomigliare più ai nostri padri che andavano a violentare donne africane cantando “Giovinezza” e “Faccetta nera” o più a quelli che hanno sognato un mondo di eguali, di persone con pari dignità sociale, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Il punto è che i naufraghi vanno salvati e i rifugiati accolti, i migranti non devono essere privati della libertà e della dignità, né spinti fra le mani di sfruttatori e aguzzini e i volontari che si impegnano nella solidarietà non devono essere vilipesi o criminalizzati.
Gli studiosi delle scienze sociali osservano come razzismo e intolleranza proliferino nell'ignoranza. Ebbene, noi, delle generazioni cresciute dopo la guerra, abbiamo tutti studiato. Gli strumenti per cercare di interpretare correttamente la realtà li abbiamo tutti, bene o male, acquisiti. Tuttavia, oggi lo sforzo di progredire culturalmente viene di norma svilito e si direbbe che alla fatica di studiare, aggiornarsi, analizzare, capire, si conferisca sempre meno importanza. Lo studio è solo confacente alla carriera, agli obiettivi professionali che si hanno in mente. Per tutto il resto valgono gli istinti. Stiamo forse scoprendo che il ritorno all'oscurantismo è sempre possibile. In questo vuoto della ragione si insinua la politica incitando al razzismo, alla violenza, al disprezzo, alla sopraffazione, spingendo a restare indifferenti davanti all'altrui sofferenza o addirittura a esserne infastiditi. Accade così che l'indignazione scoppi sempre meno frequentemente, che all'orrore si faccia l'abitudine e che qualcuno possa gioire pubblicamente su eventi tragici, senza essere seppellito dal disonore.

Rabbia contro le vittime

Mi angoscia leggere la violenza che esplode ogni tanto nella rete o constatare come certe notizie sui migranti evidentemente false, addirittura paradossali, vengano diffuse, immediatamente condivise da utenti incauti, che non si prendono nemmeno il tempo di riflettere e verificare, moltiplicando così la rabbia elettronica. Mi indigna la violenza con cui ci si accanisce contro chi prova a ragionare o semplicemente non la pensa allo stesso modo.
L'esplosione dell'odio sul web ha fatto riemergere un altro lontano ricordo, quello di Radio Radicale che, nel 1986, a microfoni aperti, mandò in onda senza censura le telefonate in arrivo in redazione e la stragrande maggioranza degli ascoltatori ne approfittò per riempire l'etere di parolacce e insulti. Oggi quell'esperimento precursore si ripete nella rete, moltiplicato per milioni di volte. Ma, mentre all'epoca la rabbia degli ascoltatori si rivolse soprattutto contro il potere, adesso che, da noi, nei campi, nelle città e lungo le strade consolari, sono sorte nuove forme di sfruttamento e schiavitù, quella stessa rabbia sembra rivolgersi soprattutto contro le vittime. Il coro di protesta, invece, mi sembra che non sia più forte del frinire di cicale con cui si chiudeva La domenica delle salme, andando lentamente ad affievolire.

Renzo Sabatini


1. Ripubblicata nel 2018 in “Che non ci sono poteri buoni”, curato da Paolo Finzi per l'editrice A.


Marco Rossi

Morire non si può in aprile

L'assassinio di Teresa Galli e l'assalto fascista all'Avanti!
Milano 15 aprile 1919

Milano, 15 aprile 1919. A poche settimane dalla loro fondazione i Fasci di combattimento, assieme a gruppi armati di nazionalisti, militari e interventisti, mostrano la propria vocazione reazionaria, antiproletaria e sessista, sparando su un corteo di anarchici e “spartachisti”. Uccidono la giovane operaia Teresa Galli e altri due lavoratori e, successivamente, devastano la redazione del quotidiano socialista “Avanti!”. È il debutto dello squadrismo “tricolorato” e l'inizio della “controrivoluzione preventiva”, finanziata dal padronato e protetta dall'apparato statale.
A cento anni di distanza, la presente ricerca si propone di ricostruire antefatti, dinamiche, moventi del primo episodio della lunga guerra civile e di classe, mettendo in luce protagonisti, vittime, assassini, mandanti e controfigure, così come l'immutato ruolo della stampa nel fiancheggiare la repressione delle lotte sociali.
Nel vivo ricordo di Teresa Galli, la prima a morire per mano fascista, ma anche del suo essere stata dalla parte - ancora giusta - della barricata.

Marco Rossi si occupa da tempo della storia dei conflitti sociali e del sovversivismo, con particolare attenzione al periodo del primo trentennio del Novecento. Collabora a riviste e progetti di ricerca. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Capaci di intendere e di volere (ZIC); Gli ammutinati delle trincee (BFS); Il lavoro contro la guerra (Gruppo editoriale USI).

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