Rivista Anarchica Online


società

Disobbedire è una virtù

di Francesco Codello

Ragionando di oppressione, rivolta, disobbedienza, consenso, azione spontanea, ecc.
Spunti di riflessione per una scelta responsabile di libertà.


Che il conformismo e l'accettazione massiccia della realtà così com'è siano imperanti, mi pare davvero superfluo spiegarlo e argomentarlo. Certo alcuni fenomeni e azioni di rifiuto emergono continuamente (per fortuna), ma una sorta di “calma piatta” sostanziale e diffusa attraversa e caratterizza la gran parte delle nostre società. Perlomeno per quanto riguarda le proteste (a vario titolo espresse) che vanno nella direzione che noi possiamo auspicare, esse sono ancora molto minoritarie.
Non altrettanto si può onestamente sostenere se si analizza la ribellione, talvolta silente, che ha attraversato l'Europa e il continente americano e che ha portato alla ribalta quello che viene (non sempre correttamente) definito come fenomeno populista. In altri precedenti articoli in questa rivista ho proposto alcuni spunti di riflessione circa questi fatti e quindi tralascio adesso una loro disamina più articolata e specifica. Mi interessa invece provare, in questo momento, a ragionare su altri aspetti di questo percorso analitico, perché ritengo che sia quantomai urgente cercare di dimostrare che la disobbedienza è una virtù urgente e indispensabile.
La domanda che dovremmo avere sempre attiva nelle nostre teste e nei nostri dibattiti è: perché i singoli individui e/o le varie collettività accettano così supinamente di essere dominati?
Certo risposta non facile, probabilmente impossibile da soddisfare compiutamente, ma non per questo possiamo sentirci assolti dal non affrontarla, cercando però di avere l'onestà intellettuale di guardare anche dentro noi stessi e accettare che le persone che stimiamo e con le quali abbiamo delle significative relazioni ci possano restituire uno sguardo anche obliquo rispetto al nostro.


foto peus/Depositphotos.com

Essere liberi: volerlo essere

Innanzitutto mi pare di poter sostenere che disobbedire è qualcosa di più che non obbedire. Infatti l'azione del non obbedire è talvolta spontanea, immediata, «di pelle», non presuppone necessariamente un articolato ragionamento. Quanti esempi potremmo fare riferiti ai comportamenti quotidiani che possano suffragare questa valutazione. Quante azioni concrete e varie vengono attivate spontaneamente per sopravvivere in un mondo burocratizzato e organizzato come il nostro. C'è dunque una dimensione quasi inconsapevole della non obbedienza che, a ben guardare, nella vita associativa e organizzata permette, per fortuna, che determinate scelte in ambiti diversi trovino realizzazione concreta. Senza di essa anche bisogni primari e fondamentali per la nostra quotidiana esistenza non troverebbero sicuramente soddisfazione. Basta riflettere un solo momento sulla nostra esperienza personale per renderci conto di ciò.
Altra cosa mi pare di poter dire rispetto alla disobbedienza. L'azione spontanea, di riflesso quasi automatico, di buon senso, di sapere pratico ed esperienziale, completa con la disobbedienza un ulteriore passo in avanti. Disobbedire significa assumere in toto la paternità di un'azione di non obbedienza e farla diventare un comportamento visibile e consapevole, quindi trasformare un moto spontaneo in una scelta politica. Naturalmente esistono diversi stili di obbedienza così come si possono esprimere diverse forme di disobbedienza.
Tre pensatori, in particolare, hanno a mio giudizio qualche cosa di interessante e vero da suggerirci: Étienne de La Boétie (La servitù volontaria), Albert Camus (Mi rivolto dunque siamo), James Scott (Il dominio e l'arte della resistenza) e ultimo, in ordine di tempo, Frédéric Gros (Disobbedire). Le loro intuizioni e le loro riflessioni, collegate e interconnesse tra loro, possono davvero essere molto utili per approfondire il nostro ragionamento. Qui dobbiamo limitarci a darle per acquisite e tentare di suggerire alcune possibili implicazioni.
Innanzitutto è importante capire che essere liberi vuol dire prima di tutto voler essere liberi. Essere liberi è liberarsi dal desiderio di obbedire, estirpare la tendenza alla docilità, non pensare che sia sufficiente lavorare da soli per emanciparsi dall'obbedienza.
Ma per voler essere liberi è indispensabile capire che non siamo responsabili perché siamo liberi, ma siamo liberi perché siamo responsabili. Se non si comprende questo, a mio parere, si continua a giustificare sostanzialmente la sottomissione, si cerca pervicacemente, attraverso la delega a qualcosa o qualcuno, di spiegare, che diventa in questo modo un giustificare, ogni forma di sottomissione. Essere responsabili significa dunque assumersi il compito di interrogare sistematicamente le nostre abitudini, il nostro comportamento, le nostre relazioni, alla luce di una visione che alimenti ogni forma di liberazione possibile.
La radice più profonda del dominio non sta tanto in chi lo esercita ma soprattutto in chi lo subisce, per comodità, per abitudine, per interesse, per codardia, ecc., dunque per irresponsabilità. Disobbedire vuol dire esercitare ogni forma radicale di critica alla delega e alle spiegazioni giustificative che troppo spesso mettiamo in campo per assolverci dall'imperativo categorico che abbiamo assimilato con l'obbedienza. Pensare per luoghi comuni, per generalizzazioni, per standard morali, per automatismi, per formule fisse, impedisce di essere responsabili quindi di essere perlomeno approssimativamente liberi.
Hannah Arendt ha chiamato stupidità la capacità di rendersi ciechi e stupidi, la caparbietà di non voler sapere e capire, l'ha definita la banalità del male. A volte il comportamento degli uomini e delle donne è quello del sottomesso (lo schiavo), altre volte del subordinato (il bambino), altre ancora del conformista (l'automa). Ma una forma più subdola di dominio è quella che spesso viene esaltata come consenso, che si spiega come libero e che invece spesso non lo è affatto, perché costruito in modo da sintetizzarsi in un'adesione costruita a tavolino attraverso mezzi di varia natura e diverso condizionamento.

La radice più profonda del dominio

A tutto questo noi dobbiamo opporre il coraggio della verità, il coraggio di pensare in prima persona, far emergere il nostro «essere» indelegabile, non quello che si oppone al «tu» o al «noi» ma che combatte quello impersonale, generico, assuefatto alle consuetudini. Obbedire è dunque rinunciare a se stessi, dire sempre sì all'altro da sé e rinunciare sempre a se stessi: non voglio noie, non voglio vedere, capire, ascoltare, sentire; non voglio chiedere perché ho paura di quello che potrei scoprire, delle possibili conseguenze in termini di carriera, ruolo, posizione sociale; temo la solitudine, mi è comodo seguire l'onda del perbenismo, mi gratifica la considerazione di chi esercita un potere. Rispetto a tutto ciò ecco che disobbedire diventa un'assunzione profonda e radicale di responsabilità. Ma tutto questo costa fatica, prevede rischi, significa mettere in discussione le gerarchie in ogni ambito, rimettere in discussione abitudini, consuetudini, relazioni. Ma poiché, e qui appare proprio evidente, l'anarchia non si fa per forza, occorre considerare la disobbedienza una virtù.
Solo con una scelta responsabile di libertà è possibile contribuire a cambiare lo stato di cose esistenti.

Francesco Codello