Carcere & dintorni/ Lettera aperta di una giovane operatrice della salute mentale
                
 Sono Elisa Mauri, ho ventisette anni e sono una psicologa. 
                  Questa mattina stavo rileggendo un paio di testi scritti da 
                  due basagliani di prima generazione: Lettera aperta a un 
                  giovane operatore della salute mentale di Peppe dell'Acqua 
                  e Raccomandazioni ai giovani marinai di un intrepido equipaggio 
                  di Benedetto Saraceno. Entrambi riattualizzano i principi della 
                  deistituzionalizzazione e forniscono indicazioni precise su 
                  che cosa si deve intendere per cura, salute mentale e relazione 
                  terapeutica: fondamentalmente ti chiedono di prendere posizione 
                  come operatore e di fare una precisa scelta di campo. 
                  Tornare sulle loro parole mi conforta sempre, mi fa sentire 
                  un'operatrice meno sola ma soprattutto mi permette di riflettere. 
                  Questa lettera nasce dal confronto con queste parole ma soprattutto 
                  dalla mia esperienza di vita professionale nell'ultimo anno 
                  e dalla condivisione con altri giovani colleghi. 
                  Gli scritti di questi due maestri sono un passo avanti rispetto 
                  alla mia riflessione, perché parlano di un operatore 
                  che si trova nelle condizioni di poter fare il suo lavoro e 
                  che deve decidere in quale modo lo vuole fare, secondo quale 
                  paradigma o posizionamento epistemologico. Purtroppo però 
                  è necessario fare un passo indietro e parlare dell'assenza 
                  di possibilità lavorativa nel campo della cura e del 
                  sociale. 
                   Dopo 
                  cinque anni di studio, il tirocinio di mille ore per l'abilitazione, 
                  alcuni mesi per dare l'esame di stato, che ti conferisce finalmente 
                  la possibilità di avere il riconoscimento sociale – 
                  ti attribuisce un ruolo, ti iscrivi a un albo – per ciò 
                  che vuoi diventare e, in alcuni casi, per essere semplicemente 
                  ciò che sei, arriva il fatidico momento in cui devi trovarti 
                  un lavoro – ebbene sì, anche gli psicologi hanno 
                  bisogno di lavorare. 
                  Facciamo un esperimento: prendete un qualsiasi sito che contenga 
                  annunci di lavoro, inserite la parola psicologo e il luogo in 
                  cui siete residenti, ma anche paesi limitrofi, e cliccate “cerca”: 
                  vi accorgerete che i risultati fornirti non contengono la parola 
                  psicologo. Un risultato paradossale, ma che dipinge realisticamente 
                  il vuoto che c'è attorno a questa figura professionale. 
                  Se ci fate caso, gli annunci che, eventualmente, troverete appartengono 
                  a due macro gruppi: quello della selezione del personale nelle 
                  aziende oppure quello dell'educazione scolastica e/o domiciliare. 
                  Quindi, io che sono una giovane psicologa e voglio lavorare 
                  nel sociale – perché non mi piace molto l'idea 
                  di appartenere a quell'antico cliché di fare la psicologa 
                  dei borghesi, di quelli che hanno i mezzi per potersi curare 
                  – l'unico sentiero che ho davanti a me è quello 
                  di spacciarmi per un'educatrice – di fatto non lo sono 
                  - e di lavorare con l'età evolutiva. 
                  Sorgono spontanee un paio di domande: perché il sistema 
                  richiede solo educatori? E perché così tanta attenzione 
                  all'infanzia? I più virtuosi risponderanno che è 
                  per fare prevenzione – di che poi non l'ho ancora capito. 
                  Io invece credo che la sempre più massiccia presenza 
                  degli educatori, soprattutto in ambito scolastico, sia legata 
                  alla pioggia di diagnosi che si abbatte sulle nuove generazioni: 
                  dai disturbi dell'attenzione, a quelli specifici dell'apprendimento, 
                  a quelli dello spettro autistico ecc. ecc. 
                  Qui potremmo aprire il drammatico discorso relativo all'avere 
                  un'etichetta diagnostica all'età di cinque anni, oppure 
                  al vissuto dei bambini, ma anche degli adolescenti, che devono 
                  stare nel gruppo classe avendo accanto figure di sostegno e/o 
                  educative: i bambini si vergognano, si sentono diversi e ti 
                  chiedono di andartene o di mentire sul tuo ruolo. Potremmo aprirlo 
                  questo capitolo, ma non posso parlare di tutto. 
                  Dicevamo che servono tanti, tantissimi educatori al sistema 
                  di cura, ma perché gli educatori? Perché non si 
                  integrano anche altre figure professionali come per esempio 
                  gli psicologi? In questo caso non so quale potrebbe essere la 
                  risposta dei più virtuosi quindi dovrete accontentarvi 
                  solo della mia: gli educatori costano meno: un'ora lavorativa 
                  di un educatore costa al sistema meno della metà di quella 
                  di uno psicologo. 
                  Non chiedetemi l'origine di questa disparità salariale, 
                  non la conosco. 
                  Vedo però il progressivo e ineluttabile impoverimento 
                  delle politiche sociali: i progetti che si occupano di marginalità 
                  quando riescono a partire o si basano sul volontariato – 
                  questo significa che ci sono operatori che lavorano e non vengono 
                  pagati – oppure su finanziamenti di enti privati di buon 
                  cuore. A me pare assurdo che un progetto che ha come obiettivo 
                  promuovere il benessere dell'intera comunità debba essere 
                  finanziato da tasche private. Mi pare una contraddizione in 
                  termini oltre che, vi garantisco, una ricerca alquanto certosina: 
                  cercare fondi diventa un lavoro per poter avere un lavoro. Questa 
                  logorante caccia ai fondi termina quando si riesce ad ottenere 
                  un finanziamento sul lungo termine: per qualche anno, due o 
                  tre, il progetto è al sicuro. Poi... chissà.. 
                  nessuno ci pensa. 
                  Ci sono cooperative, che lavorano in carcere con successo da 
                  molti anni, che hanno dovuto ridurre il loro personale per la 
                  mancanza di fondi e che non possono, per la stessa ragione, 
                  assumerne né tantomeno possono pensare di avviare nuovi 
                  progetti di inclusione sociale. 
                  Le comunità di accoglienza per persone migranti sono 
                  come paralizzate, non sanno quale sarà il loro destino 
                  visti i decreti emanati dall'attuale governo. C'è una 
                  mia carissima amica e collega che è interessata al tema 
                  delle migrazioni e che si è vista più volte chiudere 
                  la porta in faccia a causa di questa incertezza. 
                  La mancanza di opportunità rende il futuro impensabile. 
                  Se sei una giovane psicologa e hai una forte passione per il 
                  sociale, l'unico modo per coltivarla è attraverso le 
                  esperienze di tirocinio, che contribuendo alla tua formazione 
                  professionale chiaramente non ti vengono retribuite, oppure 
                  di volontariato. E tu le fai anche: le prime perché obbligatorie 
                  e le seconde perché fanno curriculum – la classica 
                  frase consolatoria. 
                  Però a ventisette anni un* ragazz* avrebbe anche voglia 
                  di costruirsi un'autonomia e un'indipendenza economica ma soprattutto 
                  vorrebbe vedere riconosciuti i suoi sforzi, e anche quelli della 
                  sua famiglia che gli ha pagato gli studi, per formarsi come 
                  operatore della salute mentale. Veniamo accusati di essere dei 
                  mammoni, dei bamboccioni senza spina dorsale né volontà 
                  da un sistema che non è in grado di offrirci nessuna 
                  opportunità. Lo stesso sistema che allunga inesorabilmente 
                  la nostra formazione, nel vano tentativo di ritardare il nostro 
                  inevitabile ingresso nel mondo del lavoro, e che pretende operatori 
                  sempre più specializzati, ma come la paga una formazione 
                  un* che non lavora? O hai alle spalle una famiglia che può 
                  permettersi di aiutarti oppure, oppure niente. Quindi ci risiamo: 
                  chi non ha non è. 
                  Conosco diversi ragazzi che hanno abbandonato l'idea di poter 
                  diventare psicologi perché questo tipo di formazione 
                  era lunga e costosa e loro non avevano i mezzi economici per 
                  farvi fronte. Oppure ragazz* che non hanno neppure cominciato 
                  perché, guardando sapientemente avanti, sapevano che 
                  non avrebbero trovato lavoro ma trovare un lavoro era per loro 
                  una necessità primaria. 
                  Abbiamo perso degli ottimi operatori della salute mentale. 
                  Poi ci sono quelli come me, che in qualche modo, con qualche 
                  aiuto, ce l'hanno fatta a diventare psicologi e che riluttano 
                  e continuano a sperare. 
                  Anche se, come mi insegnano i detenuti lungo-espianti, la speranza 
                  non dura in eterno. La speranza ha bisogno di essere nutrita 
                  da opportunità di vita concrete. 
Elisa Mauri 
Monza 
                  Dibattito 
                  xenofemminismo/ L'aberrazione è già qui 
                   
                   
                  Sullo scorso numero abbiamo pubblicato una recensione di 
                  Marco Piracci del libro di Helen Hester Xenofemminismo 
                  (Xenofemminismo/Liberazione 
                  o aberrazione?, “A” 432, pp. 70-71). Sullo stesso 
                  argomento, pubblichiamo uno scritto del collettivo Resistenze 
                  al Nanomondo. 
                   
                  Le ideologie del cyborg, del trans-xeno-femminismo queer, 
                  dalle polverose stanze accademiche dove sono nate si stanno 
                  diffondendo in contesti anarchici, antispecisti, femministi. 
                  Ideologie figlie di questi tempi postmoderni, senza memoria, 
                  alienati e biotecnologici, fatti di attivismo virtuale, di pornoattivismo 
                  accademico e di rivoluzioni a ormoni. Idee, pratiche e rivendicazioni 
                  che vorrebbero presentarsi alternative e sovversive, quando 
                  corrono perfettamente allineate a questo sistema tecno-scientifico, 
                  abbracciando logiche di dominio e aspirazioni transumaniste. 
                  Dal libro Xenofemminismo di Helen Hester emergono molte 
                  fobie. 
                  Una fobia del corpo che diventa una “tecnologia da hackerare”, 
                  una “piattaforma rielaborabile”, “un'entità 
                  malleabile e modellabile” in cui le biotecnologie possono 
                  offrire nuove possibilità. 
                  Una fobia della natura: “Se la natura è ingiusta, 
                  cambiala!”, è il nuovo slogan xenofemminista; quando 
                  il problema non è la natura da cambiare, ma un sistema 
                  da stravolgere. La crisi ecologica in atto mette in evidenza 
                  proprio l'indispensabilità del mondo naturale e l'impossibilità 
                  di sostituirne o di artificializzarne i processi. 
                  Una fobia delle bambine e dei bambini, una fobia della procreazione 
                  in cui la gravidanza è vista come “deformazione”. 
                  Le tecnologie riproduttive, compresa l'ectogenesi (che prevede 
                  lo sviluppo del feto in un ambiente esterno artificiale), sono 
                  considerate un mezzo per liberarsi dalla “tirannia riproduttiva”. 
                  Così si consegna in mano ai tecnici la dimensione della 
                  procreazione cancellando la nostra autonomia rimasta. 
                    
                  La fobia e il conseguente rifiuto della sofferenza come componente 
                  della vita e della nostra vulnerabilità: nello xenomondo 
                  la liberazione del corpo è intesa come liberazione dal 
                  corpo e dai suoi limiti. L'oppressione femminile non è 
                  più da ricercare in un contesto sociale, ma frugando 
                  dentro i corpi, aspirando flussi mestruali, passando con disinvoltura 
                  da uno strumento semplice come il Del-Em (estrazione delle mestruazioni 
                  con cannule e siringhe) all'ingegneria genetica, dal self-help 
                  al biohacking. 
                  Significativo un progetto di coltivazione di tabacco transgenico 
                  per autoprodurre liberamente ormoni senza impedimenti normativi, 
                  chiedendo l'accesso alle risorse scientifiche per sviluppare 
                  “metodi accessibili per produrre biotecnologie”. 
                  Senza giri di parole si vuole “portare il laboratorio 
                  alle comunità queer” e fare di queste un 
                  laboratorio. Così il laboratorio non è più 
                  un luogo di dominio da distruggere. 
                  “Il nostro destino è legato alla tecnoscienza, 
                  dove nulla è tanto sacro da non poter essere riprogettato 
                  e trasformato. [...] Non vi è nulla, sosteniamo, che 
                  non si possa studiare scientificamente e manipolare tecnologicamente.” 
                  Bisogna “schierare strategicamente le tecnologie esistenti 
                  per riprogettare il mondo”. 
                  Tutto ciò che esce da un laboratorio non può essere 
                  considerato quale elemento potenzialmente in grado di scardinare 
                  una struttura di potere di cui è intriso. Il laboratorio 
                  che da tempo ha aperto il proprio campo sperimentale al mondo 
                  intero e ai corpi stessi che diventano dei laboratori viventi. 
                  È ingenuo pensare di poter gestire e controllare gli 
                  sviluppi tecno-scientifici e non è possibile un'emancipazione 
                  con tecnologie che manipolano il vivente: il danno e il dominio 
                  sono insiti nell'idea di riprogettazione del mondo che rende 
                  i corpi tutti disponibili, smembrabili e modificabili ad uso 
                  e consumo del sistema. E l'accelerazione dei processi tecnologici 
                  non può portare alla riduzione delle disuguaglianze, 
                  ma ad un aggravarsi della distruzione di interi ecosistemi naturali, 
                  di comunità umane e animali, con tutto un portato di 
                  irreversibilità e di ricombinabilità degli stessi 
                  disastri. 
                  Lo xenofemminismo non pecca di ingenuità, è un'adesione 
                  entusiasta al tecno-mondo e aspira a una partecipazione alla 
                  società biotecnologica. È un entusiasmo di chi 
                  può permettersi di fascinarsi pensando alle chimere transgeniche 
                  con voli pindarici che hanno perso la realtà delle conseguenze 
                  sul mondo e sull'intero vivente. 
                  Hester segue il pensiero di Preciado che identifica l'intervento 
                  tecnico sul corpo e all'interno di questo come mezzo di contestazione. 
                  Prendere testosterone non è un atto politico e non ci 
                  fa diventare dissidenti, ma clienti delle multinazionali farmaceutiche. 
                  Doparsi con ormoni è una delle nuove frontiere della 
                  trasgressione pseudoalternativa. Una sperimentazione e una propaganda 
                  tra l'altro irrispettose nei confronti di chi quegli ormoni 
                  li assume per un disagio con il proprio corpo. 
                  Quando un bisogno privato diventa lo sguardo e la prospettiva, 
                  la rivendicazione politica diventa solo una richiesta di soddisfazione 
                  di tale bisogno e questo non ha nulla di sovversivo. La sofferenza 
                  e il disagio non possono rappresentare il criterio con cui costruire 
                  la nostra analisi, altrimenti sarà fuorviata da sofferenze, 
                  bisogni e interessi personali. 
                  “Nell'ultimo decennio, un'altra grande sfida all'ordine 
                  medico è stata lanciata da un attivismo genderqueer, 
                  transessuale e intersessuale che lotta per i diritti umani e 
                  medici [...] comprendendo procedure come la chirurgia plastica 
                  e ricostruttiva e la consulenza psicologica, così come 
                  il test genetico, le terapie ormonali e le tecnologie per la 
                  fertilità. [...]” 
                  Nessuna grande sfida, non sono neanche istanze che potrebbero 
                  essere recuperate e riassorbite, vanno di pari passo con questi 
                  tempi e sono perfettamente conformi alla tendenza di questo 
                  sistema. Tempi di riproduzione artificiale e di editing 
                  genetico, di GPA e PMA invocate a gran voce per tutti e tutte 
                  con la retorica dell'uguaglianza contro le discriminazioni, 
                  di risignificazione della maternità e della donna, di 
                  attacco da parte della teoria e della politica queer 
                  al corpo femminile, di autoimprenditoria e autogestione del 
                  proprio sfruttamento. 
                  Nel libro viene criticato l'ecologismo per il suo senso di responsabilità 
                  verso le nuove generazioni e per la denuncia delle mutazioni 
                  genetiche causate dall'inquinamento. Per lo xenofemminismo queste 
                  mutazioni genetiche rappresentano “ambiguità, variabilità, 
                  mutevolezza”: in altre parole, una fonte di ispirazione. 
                  Gli effetti dei perturbatori endocrini come benzene, diossina, 
                  PCB... rientrerebbero in “un'ontologia malleabile della 
                  vita”: una “queerness tossica”. Una 
                  neolingua per nascondere quel sotteso sempre presente di adorazione 
                  per le manipolazioni genetiche. 
                  Nel pensiero ecologista una foresta rappresenta un fitta rete 
                  di piccole e grandi interrelazioni tra organismi viventi, nuove 
                  generazioni che si affacciano nel mondo, pronte a interagire 
                  con esso. 
                  Nello xenomondo quello che nasce proviene da un intruglio di 
                  laboratorio, unico luogo dove può essere compreso e dove 
                  può farsi comprendere. Lo xenofemminismo non ha bisogno 
                  della natura perché nella sua premessa l'ha già 
                  sostituita con la biologia sintetica, i semi che si appresta 
                  a diffondere sono come quelli terminator della Monsanto. 
Silvia Guerini  
                  www.resistenzealnanomondo.org 
                  Profughi/ Quel silenzio dell'opposizione assente 
                   
                   
Gentile Redazione, 
scrivo per unire la mia voce a quella già forte che rema contro le politiche autoritarie applicate da questo nostalgico governo. 
                  Anzitutto, vorrei congratularmi per l'ottimo lavoro giornalistico 
                  svolto, sostenuto da solide basi ideologiche cui sento di aderire 
                  fortemente e con passione. Leggendo l'articolo pubblicato sul 
                  numero 430 di dicembre-gennaio, “Sti negri di merda”, ho compreso come atteggiamenti 
                  xenofobi e razzisti non siano causati unicamente da un consenso 
                  delle masse, ma anche dal silenzio di una opposizione che pare 
                  assente. 
Per non rimanere nel silenzio, ho tentato dunque di esprimere, sensibilizzare qualche animo, con l'unico metodo che mi è consono, quello poetico. Allego a questa mail una lirica che narra del dialogo fra un migrante morto nel tentativo di valicare il confine alpino e la madre. Tutto questo, per non essere silente assieme alla massa che annuisce stolta. 
Federico Lenzi 
Mesagne (Br) 
  “...All'alba non muore solo la notte, muore anche l'uomo e il suo divenire...” 
Riccardo Mannerini 
Lamento di un profugo ai morti sulle Alpi 
 
Madre, son pungoli gelati le stelle 
in questa notte di paura ansimante, 
gocciolano sulla mia pelle 
che già sento di marmo raggelante. 
 
Madre, ho veduto boschi, sentieri 
e fiumi di cristallo, ed io non forte 
odiai colori del poeta, colori non veri 
che dipingono vivaci la mia morte. 
 
Madre, ho veduto labbra d'amore 
gonfiarsi e sputarmi in viso, 
sputare non so quale dolore, 
ché sono negro, negro deriso. 
 
Madre, fra dirocche montagne 
è il cimitero; chi lieto giungerà 
ridente e benestante dalle campagne 
abbia rigurgito della mia pietà. 
Madre, vent'anni per crescermi, 
solo un'ora per appassire, 
con Nessuno qui a tessermi 
sudario, seta per fuggire. 
 
Madre, è l'alba. Tempo di morire: 
un popolo gioirà contento. 
Qui non solo l'uomo, ma il suo divenire, 
questo scritto con fame mio memento. 
 
Madre, furon pungoli gelate le stelle 
nella notte di paura ansimante, 
gocciolarono sulla mia pelle. 
Ora niente che marmo raggelante. 
                  Il 
                  mio '68/ Le idee di rivolta non sono mai morte  
                   
                  Mio padre era un operaio del cotonificio Fossati. In una serata 
                  estiva del 1968, a fine turno, andai ad aspettarlo all'uscita 
                  della fabbrica e fui impressionato dal suono della sirena e 
                  dalla moltitudine di operai che uscivano a ciclo continuo, contenti 
                  del fine lavoro quotidiano ma non certo felici. E infatti immerso 
                  in questa atmosfera al pensiero della moderna schiavitù 
                  industriale fui preso da una infinita tristezza. 
                  Da ragazzo della Via Maffei mi sentivo tagliato fuori dalla 
                  “Sondrio bene” ma ero orgoglioso delle mie origini 
                  proletarie e di un padre che da comunista e attivista sindacale 
                  portava avanti le sue lotte contro i padroni, per migliorare 
                  le condizioni di tutti noi. 
                  L'inizio degli anni settanta coincise con la frequentazione 
                  dell'Istituto Professionale (IPIA) dove vissi i primi subbugli 
                  giovanili con assemblee generali, forti discussioni politiche, 
                  cortei cittadini e addirittura un'occupazione sia pur di breve 
                  durata; il preside Fausto Sidoli e la vice Elena Meneghini non 
                  apprezzarono le nostre contestazioni giovanili e ci fecero “sgomberare” 
                  dai genitori allarmati dall'idea che stessimo distruggendo la 
                  scuola. 
                  Nel settembre 1973 partecipai a Sondrio alla mia prima manifestazione 
                  politica, contro Pinochet e il suo golpe appoggiato dal governo 
                  USA. Avevano assassinato il Cile democratico e socialista di 
                  Salvador Allende e da giovane e ingenuo studente comunista rimasi 
                  piuttosto stupito dalle tensioni tra Avanguardia Operaia e Movimento 
                  Studentesco per il primato della testa del corteo. Non riuscivo 
                  a capire queste divergenze quando tutti si stava dalla stessa 
                  parte. 
                   È 
                  verso la fine del 1973 che mi iscrissi alla Federazione Giovanile 
                  Comunista (FGCI) entrando così sotto l'ala protettiva 
                  del più grande partito comunista dell'Europa occidentale 
                  che tallonava, sia pur a distanza, la Democrazia Cristiana; 
                  mi affascinava l'idea di un futuro sorpasso per mettere finalmente 
                  in campo e concretizzare le idee di rinnovamento democratico 
                  ed equità sociale. 
                  La facile rivoluzione dei gruppi extraparlamentari non mi convinceva 
                  e la teoria della dittatura del proletariato mi lasciava piuttosto 
                  perplesso. I “gruppuscoli”, come venivano chiamati 
                  negli ambienti del PCI, raccoglievano comunque molto consenso 
                  negli ambiti studenteschi e giovanili mentre noi quattro gatti 
                  della FGCI potevamo contare solo sul grande Partito. 
                  Di quel periodo ricordo il grande entusiasmo nella diffusione 
                  de “L'Unità”, la campagna a favore del divorzio, 
                  accese discussioni, qualche manifestazione e, nell'apprendere 
                  l'uso del ciclostile iniziai a soddisfare la passione tipografica 
                  che mi inseguiva fin dai tempi delle scuole elementari. 
                  Nell'attesa del sorpasso cominciai a nutrire qualche dubbio 
                  sul ruolo del Partito per un cambiamento sostanziale dell'esistente 
                  e spesso nelle scelte e nei comportamenti di vita quotidiana 
                  non riuscivi a distinguere un democristiano da un comunista. 
                  Ci voleva ben altro che un cambio elettorale per rendere più 
                  orizzontale una società troppo elitaria e verticistica 
                  e nelle mie inquietudini, più esistenziali che politiche, 
                  anche il Partito era espressione di quel vecchio mondo che ci 
                  stava scavando la fossa. 
                  Furono le amicizie e le letture giuste al momento giusto a facilitarmi 
                  l'uscita dalle sabbie mobili del conformismo di sinistra. Mi 
                  riconoscevo sempre più nei percorsi accidentati dell'anarchismo 
                  e vedevo le mie inquietudini ben orientate contro un vecchio 
                  mondo autoritario da fare a pezzi. Sono riconoscente anche al 
                  settimanale “Umanità Nova” e al mensile “A 
                  – rivista anarchica” per aver contribuito a sviluppare 
                  quel pensiero critico che mi aiutò nell'estate del 1975 
                  ad abbandonare la palude del riformismo di Stato. 
                  La scoperta dell'anarchismo fu come esplorare un altro pianeta: 
                  le storie dei vecchi compagni tra esilio, carcere, fughe, la 
                  lotta armata contro i franchisti (e gli stalinisti) in Spagna 
                  ed i fascisti in Italia; fu importante nel corso degli anni 
                  conoscere personalmente Franco Leggio di Ragusa, Ivan Guerrini 
                  di Brescia, Libero Fantazzini di Bologna, Pietro Secchiari e 
                  Gogliardo Fiaschi di Carrara e altri che ho sempre considerato 
                  dei buoni maestri di vita. 
                  Il '68 fu certo una rinascita vitale dell'anarchismo dove i 
                  nonni incontrarono i nipoti e a parte qualche inevitabile attrito 
                  generazionale si creò una buona complicità antiautoritaria. 
                  Con entusiasmo mi lanciai in questa nuova dimensione dove si 
                  confondevano militanza e vita quotidiana. Diffusione della stampa 
                  fuori dalle scuole, attacchinaggi notturni di manifesti, incontri 
                  e riunioni fuori Valle, un Parco Lambro 1976 che non mi lasciò 
                  entusiasta, una burrascosa fuoriuscita dalla famiglia ed altro 
                  ancora caratterizzarono quegli anni vivaci e indimenticabili. 
                  Fui preso in contropiede dal servizio militare che non seppi 
                  rifiutare andando contro i miei ideali libertari nell'accettare 
                  gli obblighi della naja. Quell'anno in divisa vissuto a Bolzano 
                  fu terribile. Non bastarono le contestazioni con scioperi del 
                  silenzio in mensa dopo ogni suicidio in caserma o i volantini 
                  antimilitaristi, attacchinati clandestinamente nei cessi, per 
                  impedirmi di arrivare sul filo del deperimento organico e della 
                  depressione. 
                  Fortunatamente nel rientro a Sondrio trovai un clima stranamente 
                  effervescente e un'abitazione collettiva con amici e compagni. 
                  Si allargò poi il giro e ci si ritrovò con spirito 
                  sovversivo e il forte desiderio di dare uno scossone a questo 
                  infame e grigio sistema, senza mediazioni politiche e senza 
                  dirigenti. Si leggeva divertiti la rivista satirica “Il 
                  Male”, i fumetti di Andrea Pazienza, Scozzari e tutto 
                  quanto di creativo era in circolazione in quel periodo, continuando 
                  a seguire con interesse le vicende del Paese. 
                  La repressione di quel movimento del '77 a cui sentivamo di 
                  appartenere ci stimolava ad agire. Mentre il fenomeno della 
                  lotta armata continuava la sua ascesa, la repressione era il 
                  prezzo da pagare per aver messo in discussione non solo i classici 
                  poteri forti clerico-fascisti ma i nuovi padroni rossi, i tecnoburocrati 
                  della sinistra, il PCI che si era fatto Stato, la complicità 
                  dei Sindacati e le stesse avanguardie sessantottine che si erano 
                  riciclate e vendute per qualche briciola di potere. 
                  Il problema Sondrio era che la crisi dei gruppi extraparlamentari 
                  aveva creato un pauroso vuoto, soprattutto nelle scuole. Democrazia 
                  Proletaria era allora il punto di riferimento delle esperienze 
                  del '68 e dei primi anni '70, ma non era la nostra storia. 
                  Nel gennaio del 1978 aprimmo a Sondrio il “Circolo Rivoluzionario 
                  di Controcultura”, in via Angelo Custode 9, certo non 
                  era via dei Volsci a Roma ma ci si poteva accontentare. Ci si 
                  trovò mischiati: anarchici, autonomi, indiani metropolitani, 
                  studenti medi da Berbenno all'Alta Valle e qualche occasionale 
                  suonato di passaggio. Si ripartì dalle scuole con volantini 
                  di controinformazione e presenza fisica nella città. 
                  Il tutto contornato da discussioni senza fine, buone bevute, 
                  qualche fumata mettendo il veto all'eroina, ricerche storiche 
                  sulla caccia alle streghe, musica rock e blues, critica femminista 
                  e i tentativi, purtroppo falliti, di uno spazio per oggetti 
                  ad uso libero e di un orto biodinamico collettivo. Nel corso 
                  di un corteo, senza cattiveria ma con determinazione, si invase 
                  il Centro Rosselli contestando l'iniziativa studentesca organizzata 
                  dal PCI. 
                  Non mancarono le solite intimidazioni sbirresche e addirittura 
                  un fermo aggressivo con armi spianate da parte dei locali Carabinieri, 
                  tanto per darci un segnale che l'aria era cambiata. 
                  E in effetti esauritisi i momenti magici del movimento l'aria 
                  era cambiata. Il circolo iniziò a disgregarsi e si sfaldò 
                  del tutto; nei nostri limiti non si riuscì a contrastare 
                  le aziende idroelettriche e il monopolio delle banche locali. 
                  Soprattutto non si riuscì a combattere il fenomeno dell'eroina 
                  che dal 1977 venne diffusa scientificamente in tutta Italia 
                  per togliere energie vitali a un'intera generazione ribelle. 
                  Nel frattempo sull'altro versante delle nostre Alpi Retiche, 
                  tra la Val Poschiavo e Coira, sull'onda libertaria del '68 era 
                  cresciuto l'impegno politico di Marco Camenisch. Un impegno 
                  orientato sempre più verso l'ecologismo radicale, in 
                  rotta di collisione quindi con le grandi aziende elettronucleari 
                  tanto da riuscire a dinamitarle con un paio di sabotaggi a novembre 
                  e dicembre del 1979. Questo prima del suo arresto l'8 gennaio 
                  1980. 
                  Collettivamente si continuarono le attività anarchiche 
                  con volantini, un foglio mensile ciclostilato, scritte murali 
                  ed iniziai la collaborazione con la rivista antimilitarista 
                  “Senzapatria” di Padova che sosteneva attivamente 
                  i giovani che per il rifiuto della coscrizione obbligatoria 
                  (servizio militare e civile) finivano a Peschiera o Gaeta. 
                  Fallito il tentativo di un cambiamento radicale impostai la 
                  mia vita il più possibile ai margini e contro una società 
                  sempre più autoritaria. 
Piero Tognoli 
Sondrio 
                  Pordenone/ La Biblioteca Mauro Cancian ha trovato finalmente la sua nuova “casa” 
                   
                   
Il Circolo Libertario E. Zapata, dopo l'annunciato sfratto dalla sua sede storica a Villanova ad opera della nuova giunta reazionaria a guida Ciriani, ha trovato uno spazio adeguato alle tante attività dei libertari e degli anarchici pordenonesi, sempre aperte alla città e alle pratiche autogestionarie e solidali.  Si trova in via Ungaresca, vicino a Viale Venezia, a venti minuti a piedi dal centro storico. 
Chi conosce la nostra storia sa che non abbiamo mai preso alcun soldo dalle istituzioni, anzi, a conti fatti abbiamo noi foraggiato il Comune di Pordenone con decine di migliaia di € in tutti questi anni di permanenza in una sede della cui manutenzione ci siamo sostanzialmente sobbarcati gran parte degli oneri.(...) 
Siamo pronti a ricominciare in un luogo nuovo, l'abbiamo trovato. Attraverso l'autofinanziamento totale acquisteremo la sede e la manterremo. Come? 
Con l'auto tassazione, con le tante iniziative che svolgeremo, come sempre, con i risparmi di questi anni e aprendo un mutuo della durata di 18 anni. 
Noi non abbiamo, né li vogliamo, presidenti di provincia, assessori regionali o sindaci che con i loro intrallazzi nepotisti e clientelari fanno acquistare sedi alle associazioni amiche o, peggio, di partito. 
Né abbiamo intenzione di mendicare sponsor privati mettendo un “prezzo” ad eventi e progetti: non ci interessa entrare nell'ottica dei “prodotti culturali”, ci interessa il suo opposto e cioè la cultura, diffusa, radicata, partecipata. Noi siamo di un'altra pasta, per scelta. 
Per questo ci rivolgiamo nuovamente a voi, amici, simpatizzanti, compagne e compagni. 
la solidarietà e il mutualismo come forma concreta di aiuto fa parte del nostro DNA: abbiamo raccolto soldi e beni di prima necessità per sostenere terremotati, alluvionati, lavoratori e lavoratrici, carcerati, migranti e profughi. 
In molti hanno già espresso in questi due anni solidarietà nei modi più diversi, partecipando alle iniziative, progetti e percorsi e finanziandone l'attività. La campagna nata su proposta del sito di storici nostrani “LaStoriaLeStorie” ha raccolto nel giro di un paio di mesi 600 firme che c'hanno aiutato a rendere pubblica non solo l'operazione di Ciriani & soci ma, soprattutto, la grande solidarietà ricevuta e che non c'aspettavamo: il tutto esaurito (150 posti) al ridotto del Teatro verdi con “Naon Jazz Up!”, le 400 persone che hanno partecipato alla maratona “Punk4Zapata” al Parareit di Cordenons, il “Blues Zapatista” nella sede di Villanova, strapieno di gente. 
Se fino ad oggi si trattava di una campagna generica, la ricerca di una “casa” ideale, oggi la sede c'è, ve la facciamo vedere e immaginerete che i costi saranno impegnativi per chi, come noi, ha scelto questa strada. Chiediamo a tutti di fare sottoscrizioni sia dirette (donazioni tramite paypal, bonifici o contanti) sia nei modi che ritenete più opportuni (benefit, aste, iniziative ecc.) che possano raccogliere finanziamenti. Il primo obiettivo che ci poniamo è di raggiungere la soglia dei 15.000 € di sottoscrizioni. Sappiamo che sono molti per chi, come noi, fatica ad arrivare alla fine del mese o, peggio, si barcamena in lavori precari o semplicemente è ancora studente. 
Eppure è grazie a questa forza dal basso, per quanto precaria e squattrinata, creativa e diffusa che siamo giunti alla soglia dei 40 anni di vita del Circolo libertario E. Zapata (2020) e della sua, insostituibile, Biblioteca M. Cancian con gli oltre 2500 volumi e materiale d'archivio storico e prezioso. 
Noi contiamo sulla vostra generosità. Pensiamo che la nostra voce, che cerca di darla anche a chi notoriamente non ne ha o viene silenziata tra i ricatti, la repressione e sotto i colpi del profitto, sia una risorsa per tutti. Persino per chi non ne condivide in parte le idee. 
Perché una voce libera, libertaria e non ricattabile, è comunque un'occasione di confronto e di crescita per una città, per un territorio, per una comunità. 
Noi faremo tutto quello che potremo per continuare, voi, se ne avete voglia e possibilità, aiutateci in questo cammino. 
Circolo Libertario E. Zapata 
Biblioteca M. Cancian 
Pordenone 
                  ”A”/ Ero un po' scettico, ma... 
                   
                   
Buongiorno, 
ho comprato la rivista di febbraio per la prima volta, avendola vista esposta in una libreria e sono rimasto colpito dalla cura della grafica di copertina. 
Confesso che ero un po' scettico: pensavo fosse il “solito” foglio di propaganda invece, con piacere, ho scoperto una rivista colma di analisi e riflessioni oneste ed intelligenti. 
                  Molto bella l'infografica (credo si chiami così) di Valeria 
                  De Paoli sulla filiera del pomodoro italocinese. 
Complimenti, continuerò a seguirvi. 
Maurizio 
Torino 
                  
 
 
  
                  
                     
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                          nostri fondi neri 
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                          Sottoscrizioni. 
                            Maurizio Mancini (Catanzaro) 20,00; Franco Bellina 
                            (Roma) 10,00; Paolo Papini (Roma) 10,00; Aurora e 
                            Paolo (Milano) ricordando Amelia Pastorello e Alfonso 
                            Failla, 500,00; Alessandro e Valentina (Toronto – 
                            Canada) 100,00; Enrico Bonadei (Mautes - Francia) 
                            100,00; Collettivo Anarchico Libertario “Stella 
                            Nera” (Modena) ricavato cena benefit per “A” 
                            sabato 19 gennaio scorso, 100,00; Sibila Strazicic 
                            (Jesolo - Ve) per Pdf; Paolo Papini (Roma) 50,00; 
                            Filippo Rebecchi (Pontenure – Pc) 10,00; Vito 
                            Mario Portone (Roma) 5,00; Nicolò Budini Gattai 
                            (Firenze) 50,00. Totale € 
                            1.005,00. 
                             
                            Ricordiamo che tra le sottoscrizioni registriamo 
                            anche le quote eccedenti il costo dell'abbonamento 
                            annuo (€ 50,00 per l'Italia, € 
                            70,00 per l'estero). 
                          Abbonamenti sostenitori. 
                            (quando non altrimenti specificato, si tratta dell'importo 
                            di cento euro). Enrico Calandri (Roma); Gudo Bozak 
                            (Treviso) 200,00; Salvatore Corvaio (Vignale Monferrato 
                            – Al); Silvano Montanari (San Giovanni in Persiceto 
                            – Bo); Paolo Zonzini (Cailungo, Borgo Maggiore 
                            – Repubblica di San Marino); Roberto Di Giovannantonio 
                            (Roseto degli Abruzzi – Te); Roberto Panzeri 
                            (Valgreghentino – Lc) 110,00; Alberto Ramazzotti 
                            (Muggiò – Mb) 150,00; Chiara Mazzaroli 
                            (Trieste); Manuele Rampazzo (Padova); Tommaso Bressan 
                            (Forlì) 110,00; Pietro Mambretti (Lecco). Totale 
                            € 1.370,00. 
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