Rivista Anarchica Online




Carcere & dintorni/ Lettera aperta di una giovane operatrice della salute mentale

Sono Elisa Mauri, ho ventisette anni e sono una psicologa.
Questa mattina stavo rileggendo un paio di testi scritti da due basagliani di prima generazione: Lettera aperta a un giovane operatore della salute mentale di Peppe dell'Acqua e Raccomandazioni ai giovani marinai di un intrepido equipaggio di Benedetto Saraceno. Entrambi riattualizzano i principi della deistituzionalizzazione e forniscono indicazioni precise su che cosa si deve intendere per cura, salute mentale e relazione terapeutica: fondamentalmente ti chiedono di prendere posizione come operatore e di fare una precisa scelta di campo.
Tornare sulle loro parole mi conforta sempre, mi fa sentire un'operatrice meno sola ma soprattutto mi permette di riflettere.
Questa lettera nasce dal confronto con queste parole ma soprattutto dalla mia esperienza di vita professionale nell'ultimo anno e dalla condivisione con altri giovani colleghi.
Gli scritti di questi due maestri sono un passo avanti rispetto alla mia riflessione, perché parlano di un operatore che si trova nelle condizioni di poter fare il suo lavoro e che deve decidere in quale modo lo vuole fare, secondo quale paradigma o posizionamento epistemologico. Purtroppo però è necessario fare un passo indietro e parlare dell'assenza di possibilità lavorativa nel campo della cura e del sociale.
Dopo cinque anni di studio, il tirocinio di mille ore per l'abilitazione, alcuni mesi per dare l'esame di stato, che ti conferisce finalmente la possibilità di avere il riconoscimento sociale – ti attribuisce un ruolo, ti iscrivi a un albo – per ciò che vuoi diventare e, in alcuni casi, per essere semplicemente ciò che sei, arriva il fatidico momento in cui devi trovarti un lavoro – ebbene sì, anche gli psicologi hanno bisogno di lavorare.
Facciamo un esperimento: prendete un qualsiasi sito che contenga annunci di lavoro, inserite la parola psicologo e il luogo in cui siete residenti, ma anche paesi limitrofi, e cliccate “cerca”: vi accorgerete che i risultati fornirti non contengono la parola psicologo. Un risultato paradossale, ma che dipinge realisticamente il vuoto che c'è attorno a questa figura professionale.
Se ci fate caso, gli annunci che, eventualmente, troverete appartengono a due macro gruppi: quello della selezione del personale nelle aziende oppure quello dell'educazione scolastica e/o domiciliare. Quindi, io che sono una giovane psicologa e voglio lavorare nel sociale – perché non mi piace molto l'idea di appartenere a quell'antico cliché di fare la psicologa dei borghesi, di quelli che hanno i mezzi per potersi curare – l'unico sentiero che ho davanti a me è quello di spacciarmi per un'educatrice – di fatto non lo sono - e di lavorare con l'età evolutiva.
Sorgono spontanee un paio di domande: perché il sistema richiede solo educatori? E perché così tanta attenzione all'infanzia? I più virtuosi risponderanno che è per fare prevenzione – di che poi non l'ho ancora capito. Io invece credo che la sempre più massiccia presenza degli educatori, soprattutto in ambito scolastico, sia legata alla pioggia di diagnosi che si abbatte sulle nuove generazioni: dai disturbi dell'attenzione, a quelli specifici dell'apprendimento, a quelli dello spettro autistico ecc. ecc.
Qui potremmo aprire il drammatico discorso relativo all'avere un'etichetta diagnostica all'età di cinque anni, oppure al vissuto dei bambini, ma anche degli adolescenti, che devono stare nel gruppo classe avendo accanto figure di sostegno e/o educative: i bambini si vergognano, si sentono diversi e ti chiedono di andartene o di mentire sul tuo ruolo. Potremmo aprirlo questo capitolo, ma non posso parlare di tutto.
Dicevamo che servono tanti, tantissimi educatori al sistema di cura, ma perché gli educatori? Perché non si integrano anche altre figure professionali come per esempio gli psicologi? In questo caso non so quale potrebbe essere la risposta dei più virtuosi quindi dovrete accontentarvi solo della mia: gli educatori costano meno: un'ora lavorativa di un educatore costa al sistema meno della metà di quella di uno psicologo.
Non chiedetemi l'origine di questa disparità salariale, non la conosco.
Vedo però il progressivo e ineluttabile impoverimento delle politiche sociali: i progetti che si occupano di marginalità quando riescono a partire o si basano sul volontariato – questo significa che ci sono operatori che lavorano e non vengono pagati – oppure su finanziamenti di enti privati di buon cuore. A me pare assurdo che un progetto che ha come obiettivo promuovere il benessere dell'intera comunità debba essere finanziato da tasche private. Mi pare una contraddizione in termini oltre che, vi garantisco, una ricerca alquanto certosina: cercare fondi diventa un lavoro per poter avere un lavoro. Questa logorante caccia ai fondi termina quando si riesce ad ottenere un finanziamento sul lungo termine: per qualche anno, due o tre, il progetto è al sicuro. Poi... chissà.. nessuno ci pensa.
Ci sono cooperative, che lavorano in carcere con successo da molti anni, che hanno dovuto ridurre il loro personale per la mancanza di fondi e che non possono, per la stessa ragione, assumerne né tantomeno possono pensare di avviare nuovi progetti di inclusione sociale.
Le comunità di accoglienza per persone migranti sono come paralizzate, non sanno quale sarà il loro destino visti i decreti emanati dall'attuale governo. C'è una mia carissima amica e collega che è interessata al tema delle migrazioni e che si è vista più volte chiudere la porta in faccia a causa di questa incertezza.
La mancanza di opportunità rende il futuro impensabile.
Se sei una giovane psicologa e hai una forte passione per il sociale, l'unico modo per coltivarla è attraverso le esperienze di tirocinio, che contribuendo alla tua formazione professionale chiaramente non ti vengono retribuite, oppure di volontariato. E tu le fai anche: le prime perché obbligatorie e le seconde perché fanno curriculum – la classica frase consolatoria.
Però a ventisette anni un* ragazz* avrebbe anche voglia di costruirsi un'autonomia e un'indipendenza economica ma soprattutto vorrebbe vedere riconosciuti i suoi sforzi, e anche quelli della sua famiglia che gli ha pagato gli studi, per formarsi come operatore della salute mentale. Veniamo accusati di essere dei mammoni, dei bamboccioni senza spina dorsale né volontà da un sistema che non è in grado di offrirci nessuna opportunità. Lo stesso sistema che allunga inesorabilmente la nostra formazione, nel vano tentativo di ritardare il nostro inevitabile ingresso nel mondo del lavoro, e che pretende operatori sempre più specializzati, ma come la paga una formazione un* che non lavora? O hai alle spalle una famiglia che può permettersi di aiutarti oppure, oppure niente. Quindi ci risiamo: chi non ha non è.
Conosco diversi ragazzi che hanno abbandonato l'idea di poter diventare psicologi perché questo tipo di formazione era lunga e costosa e loro non avevano i mezzi economici per farvi fronte. Oppure ragazz* che non hanno neppure cominciato perché, guardando sapientemente avanti, sapevano che non avrebbero trovato lavoro ma trovare un lavoro era per loro una necessità primaria.
Abbiamo perso degli ottimi operatori della salute mentale.
Poi ci sono quelli come me, che in qualche modo, con qualche aiuto, ce l'hanno fatta a diventare psicologi e che riluttano e continuano a sperare.
Anche se, come mi insegnano i detenuti lungo-espianti, la speranza non dura in eterno. La speranza ha bisogno di essere nutrita da opportunità di vita concrete.

Elisa Mauri
Monza

Dibattito xenofemminismo/ L'aberrazione è già qui

Sullo scorso numero abbiamo pubblicato una recensione di Marco Piracci del libro di Helen Hester Xenofemminismo (Xenofemminismo/Liberazione o aberrazione?, “A” 432, pp. 70-71). Sullo stesso argomento, pubblichiamo uno scritto del collettivo Resistenze al Nanomondo.

Le ideologie del cyborg, del trans-xeno-femminismo queer, dalle polverose stanze accademiche dove sono nate si stanno diffondendo in contesti anarchici, antispecisti, femministi.
Ideologie figlie di questi tempi postmoderni, senza memoria, alienati e biotecnologici, fatti di attivismo virtuale, di pornoattivismo accademico e di rivoluzioni a ormoni. Idee, pratiche e rivendicazioni che vorrebbero presentarsi alternative e sovversive, quando corrono perfettamente allineate a questo sistema tecno-scientifico, abbracciando logiche di dominio e aspirazioni transumaniste.
Dal libro Xenofemminismo di Helen Hester emergono molte fobie.
Una fobia del corpo che diventa una “tecnologia da hackerare”, una “piattaforma rielaborabile”, “un'entità malleabile e modellabile” in cui le biotecnologie possono offrire nuove possibilità.
Una fobia della natura: “Se la natura è ingiusta, cambiala!”, è il nuovo slogan xenofemminista; quando il problema non è la natura da cambiare, ma un sistema da stravolgere. La crisi ecologica in atto mette in evidenza proprio l'indispensabilità del mondo naturale e l'impossibilità di sostituirne o di artificializzarne i processi.
Una fobia delle bambine e dei bambini, una fobia della procreazione in cui la gravidanza è vista come “deformazione”. Le tecnologie riproduttive, compresa l'ectogenesi (che prevede lo sviluppo del feto in un ambiente esterno artificiale), sono considerate un mezzo per liberarsi dalla “tirannia riproduttiva”. Così si consegna in mano ai tecnici la dimensione della procreazione cancellando la nostra autonomia rimasta.
La fobia e il conseguente rifiuto della sofferenza come componente della vita e della nostra vulnerabilità: nello xenomondo la liberazione del corpo è intesa come liberazione dal corpo e dai suoi limiti. L'oppressione femminile non è più da ricercare in un contesto sociale, ma frugando dentro i corpi, aspirando flussi mestruali, passando con disinvoltura da uno strumento semplice come il Del-Em (estrazione delle mestruazioni con cannule e siringhe) all'ingegneria genetica, dal self-help al biohacking.
Significativo un progetto di coltivazione di tabacco transgenico per autoprodurre liberamente ormoni senza impedimenti normativi, chiedendo l'accesso alle risorse scientifiche per sviluppare “metodi accessibili per produrre biotecnologie”. Senza giri di parole si vuole “portare il laboratorio alle comunità queer” e fare di queste un laboratorio. Così il laboratorio non è più un luogo di dominio da distruggere.
“Il nostro destino è legato alla tecnoscienza, dove nulla è tanto sacro da non poter essere riprogettato e trasformato. [...] Non vi è nulla, sosteniamo, che non si possa studiare scientificamente e manipolare tecnologicamente.” Bisogna “schierare strategicamente le tecnologie esistenti per riprogettare il mondo”.
Tutto ciò che esce da un laboratorio non può essere considerato quale elemento potenzialmente in grado di scardinare una struttura di potere di cui è intriso. Il laboratorio che da tempo ha aperto il proprio campo sperimentale al mondo intero e ai corpi stessi che diventano dei laboratori viventi. È ingenuo pensare di poter gestire e controllare gli sviluppi tecno-scientifici e non è possibile un'emancipazione con tecnologie che manipolano il vivente: il danno e il dominio sono insiti nell'idea di riprogettazione del mondo che rende i corpi tutti disponibili, smembrabili e modificabili ad uso e consumo del sistema. E l'accelerazione dei processi tecnologici non può portare alla riduzione delle disuguaglianze, ma ad un aggravarsi della distruzione di interi ecosistemi naturali, di comunità umane e animali, con tutto un portato di irreversibilità e di ricombinabilità degli stessi disastri.
Lo xenofemminismo non pecca di ingenuità, è un'adesione entusiasta al tecno-mondo e aspira a una partecipazione alla società biotecnologica. È un entusiasmo di chi può permettersi di fascinarsi pensando alle chimere transgeniche con voli pindarici che hanno perso la realtà delle conseguenze sul mondo e sull'intero vivente.
Hester segue il pensiero di Preciado che identifica l'intervento tecnico sul corpo e all'interno di questo come mezzo di contestazione. Prendere testosterone non è un atto politico e non ci fa diventare dissidenti, ma clienti delle multinazionali farmaceutiche. Doparsi con ormoni è una delle nuove frontiere della trasgressione pseudoalternativa. Una sperimentazione e una propaganda tra l'altro irrispettose nei confronti di chi quegli ormoni li assume per un disagio con il proprio corpo.
Quando un bisogno privato diventa lo sguardo e la prospettiva, la rivendicazione politica diventa solo una richiesta di soddisfazione di tale bisogno e questo non ha nulla di sovversivo. La sofferenza e il disagio non possono rappresentare il criterio con cui costruire la nostra analisi, altrimenti sarà fuorviata da sofferenze, bisogni e interessi personali.
“Nell'ultimo decennio, un'altra grande sfida all'ordine medico è stata lanciata da un attivismo genderqueer, transessuale e intersessuale che lotta per i diritti umani e medici [...] comprendendo procedure come la chirurgia plastica e ricostruttiva e la consulenza psicologica, così come il test genetico, le terapie ormonali e le tecnologie per la fertilità. [...]”
Nessuna grande sfida, non sono neanche istanze che potrebbero essere recuperate e riassorbite, vanno di pari passo con questi tempi e sono perfettamente conformi alla tendenza di questo sistema. Tempi di riproduzione artificiale e di editing genetico, di GPA e PMA invocate a gran voce per tutti e tutte con la retorica dell'uguaglianza contro le discriminazioni, di risignificazione della maternità e della donna, di attacco da parte della teoria e della politica queer al corpo femminile, di autoimprenditoria e autogestione del proprio sfruttamento.
Nel libro viene criticato l'ecologismo per il suo senso di responsabilità verso le nuove generazioni e per la denuncia delle mutazioni genetiche causate dall'inquinamento. Per lo xenofemminismo queste mutazioni genetiche rappresentano “ambiguità, variabilità, mutevolezza”: in altre parole, una fonte di ispirazione. Gli effetti dei perturbatori endocrini come benzene, diossina, PCB... rientrerebbero in “un'ontologia malleabile della vita”: una “queerness tossica”. Una neolingua per nascondere quel sotteso sempre presente di adorazione per le manipolazioni genetiche.
Nel pensiero ecologista una foresta rappresenta un fitta rete di piccole e grandi interrelazioni tra organismi viventi, nuove generazioni che si affacciano nel mondo, pronte a interagire con esso.
Nello xenomondo quello che nasce proviene da un intruglio di laboratorio, unico luogo dove può essere compreso e dove può farsi comprendere. Lo xenofemminismo non ha bisogno della natura perché nella sua premessa l'ha già sostituita con la biologia sintetica, i semi che si appresta a diffondere sono come quelli terminator della Monsanto.

Silvia Guerini
www.resistenzealnanomondo.org

Profughi/ Quel silenzio dell'opposizione assente

Gentile Redazione,
scrivo per unire la mia voce a quella già forte che rema contro le politiche autoritarie applicate da questo nostalgico governo.
Anzitutto, vorrei congratularmi per l'ottimo lavoro giornalistico svolto, sostenuto da solide basi ideologiche cui sento di aderire fortemente e con passione. Leggendo l'articolo pubblicato sul numero 430 di dicembre-gennaio, “Sti negri di merda”, ho compreso come atteggiamenti xenofobi e razzisti non siano causati unicamente da un consenso delle masse, ma anche dal silenzio di una opposizione che pare assente.
Per non rimanere nel silenzio, ho tentato dunque di esprimere, sensibilizzare qualche animo, con l'unico metodo che mi è consono, quello poetico. Allego a questa mail una lirica che narra del dialogo fra un migrante morto nel tentativo di valicare il confine alpino e la madre. Tutto questo, per non essere silente assieme alla massa che annuisce stolta.

Federico Lenzi
Mesagne (Br)

“...All'alba non muore solo la notte, muore anche l'uomo e il suo divenire...”
Riccardo Mannerini

Lamento di un profugo ai morti sulle Alpi

Madre, son pungoli gelati le stelle
in questa notte di paura ansimante,
gocciolano sulla mia pelle
che già sento di marmo raggelante.

Madre, ho veduto boschi, sentieri
e fiumi di cristallo, ed io non forte
odiai colori del poeta, colori non veri
che dipingono vivaci la mia morte.

Madre, ho veduto labbra d'amore
gonfiarsi e sputarmi in viso,
sputare non so quale dolore,
ché sono negro, negro deriso.

Madre, fra dirocche montagne
è il cimitero; chi lieto giungerà
ridente e benestante dalle campagne
abbia rigurgito della mia pietà.
Madre, vent'anni per crescermi,
solo un'ora per appassire,
con Nessuno qui a tessermi
sudario, seta per fuggire.

Madre, è l'alba. Tempo di morire:
un popolo gioirà contento.
Qui non solo l'uomo, ma il suo divenire,
questo scritto con fame mio memento.

Madre, furon pungoli gelate le stelle
nella notte di paura ansimante,
gocciolarono sulla mia pelle.
Ora niente che marmo raggelante.

Il mio '68/ Le idee di rivolta non sono mai morte

Mio padre era un operaio del cotonificio Fossati. In una serata estiva del 1968, a fine turno, andai ad aspettarlo all'uscita della fabbrica e fui impressionato dal suono della sirena e dalla moltitudine di operai che uscivano a ciclo continuo, contenti del fine lavoro quotidiano ma non certo felici. E infatti immerso in questa atmosfera al pensiero della moderna schiavitù industriale fui preso da una infinita tristezza.
Da ragazzo della Via Maffei mi sentivo tagliato fuori dalla “Sondrio bene” ma ero orgoglioso delle mie origini proletarie e di un padre che da comunista e attivista sindacale portava avanti le sue lotte contro i padroni, per migliorare le condizioni di tutti noi.
L'inizio degli anni settanta coincise con la frequentazione dell'Istituto Professionale (IPIA) dove vissi i primi subbugli giovanili con assemblee generali, forti discussioni politiche, cortei cittadini e addirittura un'occupazione sia pur di breve durata; il preside Fausto Sidoli e la vice Elena Meneghini non apprezzarono le nostre contestazioni giovanili e ci fecero “sgomberare” dai genitori allarmati dall'idea che stessimo distruggendo la scuola.
Nel settembre 1973 partecipai a Sondrio alla mia prima manifestazione politica, contro Pinochet e il suo golpe appoggiato dal governo USA. Avevano assassinato il Cile democratico e socialista di Salvador Allende e da giovane e ingenuo studente comunista rimasi piuttosto stupito dalle tensioni tra Avanguardia Operaia e Movimento Studentesco per il primato della testa del corteo. Non riuscivo a capire queste divergenze quando tutti si stava dalla stessa parte.
È verso la fine del 1973 che mi iscrissi alla Federazione Giovanile Comunista (FGCI) entrando così sotto l'ala protettiva del più grande partito comunista dell'Europa occidentale che tallonava, sia pur a distanza, la Democrazia Cristiana; mi affascinava l'idea di un futuro sorpasso per mettere finalmente in campo e concretizzare le idee di rinnovamento democratico ed equità sociale.
La facile rivoluzione dei gruppi extraparlamentari non mi convinceva e la teoria della dittatura del proletariato mi lasciava piuttosto perplesso. I “gruppuscoli”, come venivano chiamati negli ambienti del PCI, raccoglievano comunque molto consenso negli ambiti studenteschi e giovanili mentre noi quattro gatti della FGCI potevamo contare solo sul grande Partito.
Di quel periodo ricordo il grande entusiasmo nella diffusione de “L'Unità”, la campagna a favore del divorzio, accese discussioni, qualche manifestazione e, nell'apprendere l'uso del ciclostile iniziai a soddisfare la passione tipografica che mi inseguiva fin dai tempi delle scuole elementari.
Nell'attesa del sorpasso cominciai a nutrire qualche dubbio sul ruolo del Partito per un cambiamento sostanziale dell'esistente e spesso nelle scelte e nei comportamenti di vita quotidiana non riuscivi a distinguere un democristiano da un comunista. Ci voleva ben altro che un cambio elettorale per rendere più orizzontale una società troppo elitaria e verticistica e nelle mie inquietudini, più esistenziali che politiche, anche il Partito era espressione di quel vecchio mondo che ci stava scavando la fossa.
Furono le amicizie e le letture giuste al momento giusto a facilitarmi l'uscita dalle sabbie mobili del conformismo di sinistra. Mi riconoscevo sempre più nei percorsi accidentati dell'anarchismo e vedevo le mie inquietudini ben orientate contro un vecchio mondo autoritario da fare a pezzi. Sono riconoscente anche al settimanale “Umanità Nova” e al mensile “A – rivista anarchica” per aver contribuito a sviluppare quel pensiero critico che mi aiutò nell'estate del 1975 ad abbandonare la palude del riformismo di Stato.
La scoperta dell'anarchismo fu come esplorare un altro pianeta: le storie dei vecchi compagni tra esilio, carcere, fughe, la lotta armata contro i franchisti (e gli stalinisti) in Spagna ed i fascisti in Italia; fu importante nel corso degli anni conoscere personalmente Franco Leggio di Ragusa, Ivan Guerrini di Brescia, Libero Fantazzini di Bologna, Pietro Secchiari e Gogliardo Fiaschi di Carrara e altri che ho sempre considerato dei buoni maestri di vita.
Il '68 fu certo una rinascita vitale dell'anarchismo dove i nonni incontrarono i nipoti e a parte qualche inevitabile attrito generazionale si creò una buona complicità antiautoritaria. Con entusiasmo mi lanciai in questa nuova dimensione dove si confondevano militanza e vita quotidiana. Diffusione della stampa fuori dalle scuole, attacchinaggi notturni di manifesti, incontri e riunioni fuori Valle, un Parco Lambro 1976 che non mi lasciò entusiasta, una burrascosa fuoriuscita dalla famiglia ed altro ancora caratterizzarono quegli anni vivaci e indimenticabili.
Fui preso in contropiede dal servizio militare che non seppi rifiutare andando contro i miei ideali libertari nell'accettare gli obblighi della naja. Quell'anno in divisa vissuto a Bolzano fu terribile. Non bastarono le contestazioni con scioperi del silenzio in mensa dopo ogni suicidio in caserma o i volantini antimilitaristi, attacchinati clandestinamente nei cessi, per impedirmi di arrivare sul filo del deperimento organico e della depressione.
Fortunatamente nel rientro a Sondrio trovai un clima stranamente effervescente e un'abitazione collettiva con amici e compagni. Si allargò poi il giro e ci si ritrovò con spirito sovversivo e il forte desiderio di dare uno scossone a questo infame e grigio sistema, senza mediazioni politiche e senza dirigenti. Si leggeva divertiti la rivista satirica “Il Male”, i fumetti di Andrea Pazienza, Scozzari e tutto quanto di creativo era in circolazione in quel periodo, continuando a seguire con interesse le vicende del Paese.
La repressione di quel movimento del '77 a cui sentivamo di appartenere ci stimolava ad agire. Mentre il fenomeno della lotta armata continuava la sua ascesa, la repressione era il prezzo da pagare per aver messo in discussione non solo i classici poteri forti clerico-fascisti ma i nuovi padroni rossi, i tecnoburocrati della sinistra, il PCI che si era fatto Stato, la complicità dei Sindacati e le stesse avanguardie sessantottine che si erano riciclate e vendute per qualche briciola di potere.
Il problema Sondrio era che la crisi dei gruppi extraparlamentari aveva creato un pauroso vuoto, soprattutto nelle scuole. Democrazia Proletaria era allora il punto di riferimento delle esperienze del '68 e dei primi anni '70, ma non era la nostra storia.
Nel gennaio del 1978 aprimmo a Sondrio il “Circolo Rivoluzionario di Controcultura”, in via Angelo Custode 9, certo non era via dei Volsci a Roma ma ci si poteva accontentare. Ci si trovò mischiati: anarchici, autonomi, indiani metropolitani, studenti medi da Berbenno all'Alta Valle e qualche occasionale suonato di passaggio. Si ripartì dalle scuole con volantini di controinformazione e presenza fisica nella città. Il tutto contornato da discussioni senza fine, buone bevute, qualche fumata mettendo il veto all'eroina, ricerche storiche sulla caccia alle streghe, musica rock e blues, critica femminista e i tentativi, purtroppo falliti, di uno spazio per oggetti ad uso libero e di un orto biodinamico collettivo. Nel corso di un corteo, senza cattiveria ma con determinazione, si invase il Centro Rosselli contestando l'iniziativa studentesca organizzata dal PCI.
Non mancarono le solite intimidazioni sbirresche e addirittura un fermo aggressivo con armi spianate da parte dei locali Carabinieri, tanto per darci un segnale che l'aria era cambiata.
E in effetti esauritisi i momenti magici del movimento l'aria era cambiata. Il circolo iniziò a disgregarsi e si sfaldò del tutto; nei nostri limiti non si riuscì a contrastare le aziende idroelettriche e il monopolio delle banche locali. Soprattutto non si riuscì a combattere il fenomeno dell'eroina che dal 1977 venne diffusa scientificamente in tutta Italia per togliere energie vitali a un'intera generazione ribelle.
Nel frattempo sull'altro versante delle nostre Alpi Retiche, tra la Val Poschiavo e Coira, sull'onda libertaria del '68 era cresciuto l'impegno politico di Marco Camenisch. Un impegno orientato sempre più verso l'ecologismo radicale, in rotta di collisione quindi con le grandi aziende elettronucleari tanto da riuscire a dinamitarle con un paio di sabotaggi a novembre e dicembre del 1979. Questo prima del suo arresto l'8 gennaio 1980.
Collettivamente si continuarono le attività anarchiche con volantini, un foglio mensile ciclostilato, scritte murali ed iniziai la collaborazione con la rivista antimilitarista “Senzapatria” di Padova che sosteneva attivamente i giovani che per il rifiuto della coscrizione obbligatoria (servizio militare e civile) finivano a Peschiera o Gaeta.
Fallito il tentativo di un cambiamento radicale impostai la mia vita il più possibile ai margini e contro una società sempre più autoritaria.

Piero Tognoli
Sondrio

Pordenone/ La Biblioteca Mauro Cancian ha trovato finalmente la sua nuova “casa”

Il Circolo Libertario E. Zapata, dopo l'annunciato sfratto dalla sua sede storica a Villanova ad opera della nuova giunta reazionaria a guida Ciriani, ha trovato uno spazio adeguato alle tante attività dei libertari e degli anarchici pordenonesi, sempre aperte alla città e alle pratiche autogestionarie e solidali.  Si trova in via Ungaresca, vicino a Viale Venezia, a venti minuti a piedi dal centro storico.
Chi conosce la nostra storia sa che non abbiamo mai preso alcun soldo dalle istituzioni, anzi, a conti fatti abbiamo noi foraggiato il Comune di Pordenone con decine di migliaia di € in tutti questi anni di permanenza in una sede della cui manutenzione ci siamo sostanzialmente sobbarcati gran parte degli oneri.(...)
Siamo pronti a ricominciare in un luogo nuovo, l'abbiamo trovato. Attraverso l'autofinanziamento totale acquisteremo la sede e la manterremo. Come?
Con l'auto tassazione, con le tante iniziative che svolgeremo, come sempre, con i risparmi di questi anni e aprendo un mutuo della durata di 18 anni.
Noi non abbiamo, né li vogliamo, presidenti di provincia, assessori regionali o sindaci che con i loro intrallazzi nepotisti e clientelari fanno acquistare sedi alle associazioni amiche o, peggio, di partito.
Né abbiamo intenzione di mendicare sponsor privati mettendo un “prezzo” ad eventi e progetti: non ci interessa entrare nell'ottica dei “prodotti culturali”, ci interessa il suo opposto e cioè la cultura, diffusa, radicata, partecipata. Noi siamo di un'altra pasta, per scelta.
Per questo ci rivolgiamo nuovamente a voi, amici, simpatizzanti, compagne e compagni.
la solidarietà e il mutualismo come forma concreta di aiuto fa parte del nostro DNA: abbiamo raccolto soldi e beni di prima necessità per sostenere terremotati, alluvionati, lavoratori e lavoratrici, carcerati, migranti e profughi.
In molti hanno già espresso in questi due anni solidarietà nei modi più diversi, partecipando alle iniziative, progetti e percorsi e finanziandone l'attività. La campagna nata su proposta del sito di storici nostrani “LaStoriaLeStorie” ha raccolto nel giro di un paio di mesi 600 firme che c'hanno aiutato a rendere pubblica non solo l'operazione di Ciriani & soci ma, soprattutto, la grande solidarietà ricevuta e che non c'aspettavamo: il tutto esaurito (150 posti) al ridotto del Teatro verdi con “Naon Jazz Up!”, le 400 persone che hanno partecipato alla maratona “Punk4Zapata” al Parareit di Cordenons, il “Blues Zapatista” nella sede di Villanova, strapieno di gente.
Se fino ad oggi si trattava di una campagna generica, la ricerca di una “casa” ideale, oggi la sede c'è, ve la facciamo vedere e immaginerete che i costi saranno impegnativi per chi, come noi, ha scelto questa strada. Chiediamo a tutti di fare sottoscrizioni sia dirette (donazioni tramite paypal, bonifici o contanti) sia nei modi che ritenete più opportuni (benefit, aste, iniziative ecc.) che possano raccogliere finanziamenti. Il primo obiettivo che ci poniamo è di raggiungere la soglia dei 15.000 € di sottoscrizioni. Sappiamo che sono molti per chi, come noi, fatica ad arrivare alla fine del mese o, peggio, si barcamena in lavori precari o semplicemente è ancora studente.
Eppure è grazie a questa forza dal basso, per quanto precaria e squattrinata, creativa e diffusa che siamo giunti alla soglia dei 40 anni di vita del Circolo libertario E. Zapata (2020) e della sua, insostituibile, Biblioteca M. Cancian con gli oltre 2500 volumi e materiale d'archivio storico e prezioso.
Noi contiamo sulla vostra generosità. Pensiamo che la nostra voce, che cerca di darla anche a chi notoriamente non ne ha o viene silenziata tra i ricatti, la repressione e sotto i colpi del profitto, sia una risorsa per tutti. Persino per chi non ne condivide in parte le idee.
Perché una voce libera, libertaria e non ricattabile, è comunque un'occasione di confronto e di crescita per una città, per un territorio, per una comunità.
Noi faremo tutto quello che potremo per continuare, voi, se ne avete voglia e possibilità, aiutateci in questo cammino.

Circolo Libertario E. Zapata
Biblioteca M. Cancian
Pordenone

”A”/ Ero un po' scettico, ma...

Buongiorno,
ho comprato la rivista di febbraio per la prima volta, avendola vista esposta in una libreria e sono rimasto colpito dalla cura della grafica di copertina.
Confesso che ero un po' scettico: pensavo fosse il “solito” foglio di propaganda invece, con piacere, ho scoperto una rivista colma di analisi e riflessioni oneste ed intelligenti.
Molto bella l'infografica (credo si chiami così) di Valeria De Paoli sulla filiera del pomodoro italocinese.
Complimenti, continuerò a seguirvi.

Maurizio
Torino





I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Maurizio Mancini (Catanzaro) 20,00; Franco Bellina (Roma) 10,00; Paolo Papini (Roma) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia Pastorello e Alfonso Failla, 500,00; Alessandro e Valentina (Toronto – Canada) 100,00; Enrico Bonadei (Mautes - Francia) 100,00; Collettivo Anarchico Libertario “Stella Nera” (Modena) ricavato cena benefit per “A” sabato 19 gennaio scorso, 100,00; Sibila Strazicic (Jesolo - Ve) per Pdf; Paolo Papini (Roma) 50,00; Filippo Rebecchi (Pontenure – Pc) 10,00; Vito Mario Portone (Roma) 5,00; Nicolò Budini Gattai (Firenze) 50,00. Totale € 1.005,00.

Ricordiamo che tra le sottoscrizioni registriamo anche le quote eccedenti il costo dell'abbonamento annuo ( 50,00 per l'Italia, 70,00 per l'estero).

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, si tratta dell'importo di cento euro). Enrico Calandri (Roma); Gudo Bozak (Treviso) 200,00; Salvatore Corvaio (Vignale Monferrato – Al); Silvano Montanari (San Giovanni in Persiceto – Bo); Paolo Zonzini (Cailungo, Borgo Maggiore – Repubblica di San Marino); Roberto Di Giovannantonio (Roseto degli Abruzzi – Te); Roberto Panzeri (Valgreghentino – Lc) 110,00; Alberto Ramazzotti (Muggiò – Mb) 150,00; Chiara Mazzaroli (Trieste); Manuele Rampazzo (Padova); Tommaso Bressan (Forlì) 110,00; Pietro Mambretti (Lecco). Totale € 1.370,00.