Rivista Anarchica Online





Arditi del Popolo/
Ma la storiografia “ufficiale” ha cercato di cancellarli

Nel secondo dopoguerra i partiti, fattisi imprenditori politici della memoria, avevano di fatto prestabilito metodi e “luoghi” deputati alla ricerca contemporaneistica, avevano a lungo e con protervia presidiato le scienze storiche, quasi paventassero imminenti invasioni di alieni. Così l'opposizione armata al primo fascismo in Italia era stata, e per troppo tempo, una pagina volutamente dimenticata in quanto non conforme, episodio rimosso della storia internazionalista e proletaria, vittima del revisionismo storiografico sia di destra che di sinistra.
Un bel tomo, ricco, assai documentato e dall'editing raffinato, ricapitola ora questa storia epica che, ormai, è il caso di sottolinearlo, non può più considerarsi come “dimenticata”. Persino nelle pagine austere dell'Enciclopedia Treccani – ha annotato con malcelata ironia il prefatore di questo volume – si possono ora leggere (alla voce Ardito) informazioni corrette sugli Arditi del Popolo.
Questa nuova edizione (la prima è del 2002) dello studio di Luigi Balsamini (Gli Arditi del Popolo. Dalla guerra alla difesa proletaria contro il fascismo (1917-1922), prefazione di Marco Rossi, Casalvelino Scalo, Galzerano editore, 2018, pp. 448, € 20,00) non solo aggiornata e ampliata ma “completamente ripensata e riscritta, nella forma e nei contenuti” (p. 11), ci fornisce l'esatta misura di un intenso e plurale percorso storiografico venuto a maturazione in questi ultimi due decenni. Periodo nel quale si è focalizzata, con sempre maggiore insistenza, l'attenzione degli storici sugli esiti di breve e lunga durata del primo conflitto mondiale quale “atto di nascita della guerra civile europea”. È lo sviluppo conseguente delle antiche suggestioni di Ernst Nolte e di Eric Hobsbawm, ma in specifico poi anche di quelle di Ferdinando Cordova su arditi e legionari dannunziani (che risalgono addirittura al 1969).
Il volume, corredato da un'importante e sostanziosa appendice documentaria, oltre che da una suggestiva e significativa rassegna fotografica, è articolato in undici densi capitoli: Introduzione; L'arditismo di guerra; Lo “spirito ardito” sul fronte interno; dai Fasci di combattimento al partito dell'ordine; Nascita e sviluppo degli Arditi del Popolo; La parabola dell'arditismo popolare; Il Partito comunista e l'inquadramento militare; Gli Arditi rossi di Vittorio Ambrosini; Gli Arditi del popolo e l'antifascismo anarchico; Nessuna pacificazione; Sulle ultime barricate, estate 1922.
Se all'epoca della sua prima edizione questa monografia di Balsamini, così come gli scritti di Marco Rossi e Eros Francescangeli, dovevano considerarsi studi pionieristici e controcorrente, esemplare esito euristico del superamento nei fatti di certe impostazioni ideologiche ancora in auge nella sinistra storiografica, oggi il volume s'inserisce a pieno titolo in una rinnovata feconda stagione di ricerche. La rimozione ed espulsione di fatto del fenomeno dell'arditismo popolare dalle vicende complessive del movimento operaio e dall'antifascismo non era stata, evidentemente, solo il frutto di meschini calcoli o magari di gretti pregiudizi, ma la semplice diretta conseguenza dell'applicazione di un “metodo” aprioristico, inaccettabile in sede storica. La “rottura del monopolio statale della violenza” (Claudio Pavone) messa in scena con il protagonismo adrenalinico di chi aveva vissuto la trincea, elemento determinante per i successivi sviluppi socio-politici; ed il concetto stesso di “guerra civile”, applicato al primo dopoguerra già nel ponderoso saggio di Fabio Fabbri (Utet 2009) sulle origini del fascismo, sono concetti base e chiavi interpretative che qui troviamo ben utilizzati. È un metodo questo che dovremmo sempre applicare.
Non bisogna aver paura di fare i conti con la Storia, e in particolare con quella disturbante e “scomoda” all'apparenza, dove cioè più si insinuano le contraddizioni. In tal senso appare palese, nella vicenda degli Arditi del Popolo, una sorta di militarismo antimilitarista, per così dire, degli anarchici. Anarchici che furono fondamentale componente di questo movimento. Contrastare le squadre di Mussolini, fin da subito e manu militari, erano gli intenti generosi ereditati, certo in forma spuria, dal cameratismo di trincea. Nell'arditismo popolare si era in parte ricomposta la frattura della guerra con la convergenza strategica nelle formazioni militarizzate sia di ex interventisti divenuti anti-mussoliniani, sia di antimilitaristi libertari e anarchici.
Sul piano di un'analisi di lungo periodo, pur tenendo in debita considerazione la componente tradizionale e antica del sovversivismo popolare, rimarrebbe – ad avviso del recensore – da ricollocare opportunamente il pur breve eterogeneo fenomeno nell'alveo tumultuoso di una dimensione tutta “italiana” della storia europea. Un filone politico ideale, culturale della “Sinistra” nel nostro paese, a partire dal Risorgimento ha mantenuto una sua precisa riconoscibile identità su alcuni fondamentali assi di pensiero. Laicismo, insurrezionalismo, pluralismo, volontarismo, autonomia del movimento operaio, federalismo...: è la cifra dei principi su cui si attesteranno poi scambio e confronto fra libertari e azionisti-repubblicani, fra libertari e liberalsocialisti. Questo particolare lascito post-risorgimentale manterrà tracce ideali in significative esperienze novecentesche: nelle trincee del 1915-1918, nell'arditismo popolare antifascista come nella guerra di Spagna; finanche nella elaborazione “revisionista” di Camillo Berneri per quanto concerne la strategia anarchica novecentesca nelle alleanze per la lotta antifascista.

Giorgio Sacchetti



Noam Chomsky/
Il suo pensiero (anche) anarchico

«Il patrimonio delle idee anarchiche e delle grandiose lotte di chi ha cercato di liberarsi dall'oppressione e dal dominio, deve essere custodito e tesaurizzato, non come mezzo per congelare il pensiero in un nuovo paradigma, bensì come base da cui partire per comprendere la realtà sociale e lavorare indefessamente per modificarla. Non vi è ragione di credere che si sia giunti alla fine della Storia e che le attuali strutture autoritarie e di dominio siano incise nella pietra. Sarebbe d'altra parte un grave errore sottovalutare le forze sociali che lotteranno per conservare il potere e il privilegio», così scrive Noam Chomsky nella prefazione al suo libro ultimamente pubblicato: Anarchia, idee per l'umanità liberata (Ponte alle Grazie, Firenze 2018, pp. 390, € 18,50).
Mentre Barry Pateman, sempre nella prefazione, sottolinea: «Lo scopo di questo volume è presentare alcune idee e riflessioni di Noam Chomsky sull'anarchismo, che è di solito ritratto da media come autorevole anarchico/libertario/comunista/anarcosindacalista (scegliete a vostro piacimento). In realtà, è lui stesso a collocarsi in questo orizzonte politico. Abbiamo selezionato una serie di saggi con l'intento di far conoscere e apprezzare ai lettori non soltanto il contributo di Chomsky al pensiero anarchico ma anche l'importanza dell'anarchismo oggi, come strumento per interpretare e cambiare il mondo. Questo volume raccoglie alcune conferenze e interviste mai pubblicate che, insieme ad altri scritti ormai noti, confermano e approfondiscono la visione di Chomsky su ciò che potrebbe essere l'anarchismo».
E dal capitolo settimo «Anarchia, marxismo e speranza per il futuro» riprendo alcuni passaggi interessanti.
«Noam, da sempre sei un difensore del pensiero anarchico. Molti conoscono la tua introduzione del 1970 al libro di Daniel Guerin, L'anarchisme. Ma anche di recente, ad esempio nel film documentario La fabbrica del consenso, hai colto l'occasione per rimarcare la potenzialità dell'anarchia e del pensiero anarchico. Cosa ti attrae dell'anarchismo?
Ero attratto dall'anarchismo già da ragazzo, da quando cominciai a riflettere sul mondo da una prospettiva meno angusta. In seguito, non avrei trovato valide ragioni per cambiare idea. Penso che l'unica cosa sensata sia identificare e contrapporsi alle strutture autoritarie, gerarchiche e di dominio in ogni campo della vita: a meno che non si trovi una giustificazione per la loro esistenza, esse vanno considerate illegittime e dunque smantellate per estendere la sfera della libertà umana. Ciò vale per il potere politico, per la proprietà e la sua gestione, ma interessa anche i rapporti fra uomini e donne, fra genitori e figli, la responsabilità riguardo al destino delle prossime generazioni (che, a mio giudizio, dovrebbe essere l'imperativo categorico del movimento ambientalista) e così via. Ovviamente ciò significa sfidare le gigantesche istituzioni della coercizione e del controllo: lo Stato, le tirannie provate che dirigono irresponsabilmente gran parte dell'economia nazionale e internazionale, eccetera. Ma non solo.
Ho sempre pensato che l'essenza dell'anarchismo sia l'idea che qualsiasi autorità che non riesce a farsi carico dell'onere della prova vada abolita. A volte è possibile.»
E, a conclusione, l'indice di questo volume: 1. Obiettività e cultura liberale, 2. Linguaggio e libertà, 3. Note sull'anarchismo, 4. L'importanza dell'anarco-sindacalismo, 5. Prefazione ad Antologija anarhizma, 6. Contenere la minaccia della democrazia, 7. Anarchia, marxismo e speranza per il futuro, 8. Obiettivi e visioni, 9 L'anarchismo, gli intellettuali e lo Stato, 10 Intervista con Barry Pateman, 11 Intervista con Ziga Vodonik.

Luciano Lanza



Donne contro/
Nella Resistenza (e non solo)

La lunga lotta delle donne svolta a Roma, come in Italia, nell'800 e nel corso del secolo scorso per l'autonomia e l'emancipazione, per i diritti e la propria libertà, ha trasformato in modo determinante la società patriarcale italiana, sotto l'aspetto antropologico, sociale e politico. Sebbene oggi la specificità di genere si sia imposta in diversi tipi di normative esistenti, da quelli relativi alla rappresentanza politica a quelli concernenti la tutela della salute e le pari opportunità, soltanto per citarne alcuni, tuttavia non si può affermare che la violenza sulle donne nel nostro Paese sia un ricordo di altri tempi.
A ricordarci quanto ancora la violenza contro le donne sia presente nella società italiana, radicata con fitte radici, è la cronaca quotidiana delle aggressioni e dei femminicidi, nonché i dati forniti dal Telefono Rosa che, in un libro appena uscito, relativo alla sua attività trentennale, indica che in tale periodo ha assistito 700.000 donne.
Pasquale Grella, in sintonia con la percezione di questa realtà, con il suo libro Sovversive ad honorem (L'Incisiva Edizioni, Roma 2018, € 10,00, pp. 104), ci ricorda quanto sia importante conservare e accrescere ciò che, a Roma, le donne (anarchiche e non) hanno conquistato nello scorso secolo. Questo libro cita donne di assai rilevante statura come Anna Kulisciof, Maria Montessori, Eleonora Fonseca Pimental, Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Luigia Minguzzi, Giuditta Tavani e dà voce a donne perlopiù sconosciute, che hanno contribuito a creare la base della democrazia.
Grella, con sensibilità partecipe, ci descrive anche gli enormi sacrifici affrontati dalle donne che si opposero alla violenza dello squadrismo e allo strapotere fascista e che, dopo l'8 settembre del '43, lottarono nella Resistenza. A questo proposito l'autore riporta fatti di inumana ferocia che videro le donne pagare le proprie idee di libertà con torture fisiche e morali e con la morte.
L'autore descrive come, nel secondo dopoguerra, i due partiti egemoni intesero riportare le donne resistenti nelle mura di casa e come ciò avvenne con contrasti tra queste e i dirigenti comunisti.
Dal libro emerge soprattutto una profonda differenza tra l'attività intrapresa prima e durante il fascismo. Fin dai primi del '900, quest'attività fu aperta e diffusa, intrapresa dalle donne anarchiche in gruppi “di genere” e in gruppi “misti” contro la povertà, la miseria, le abitazioni malsane, la mortalità infantile il militarismo; attività che, durante il fascismo, divenne limitata e spiata in ogni modo dal regime totalitario, sottoposta al ricatto di vedersi togliere i figli per eccessiva opposizione sociale e politica.
La sopraddetta attività svolta fino all'avvento del fascismo è contestualizzata nella storia sociale e politica della città di Roma, quando l'orientamento democratico del sindaco Nathan nella gestione della edificazione di case popolari e nello sviluppo dei servizi pubblici della città, venne sopraffatto dagli interessi dei grandi proprietari terrieri.
Il periodo giolittiano vede il movimento anarchico romano ben radicato in città e nella campagna romana, partito tra gli altri partiti. Grella ricorda la lotta del movimento per un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, come ad esempio per l'utilizzo del chinino contro la malaria e per la salute nelle campagne malsane. La lotta si riallacciava alla propaganda e all'azione costruttrice di Errico Malatesta: Grella scrive che “gli anarchici, sotto le direttive di Bakunin e dei primi internazionalisti, muovono i loro primi passi proprio verso questa direzione che ha come parola d'ordine la scolarizzazione di massa, la creazione delle stazioni sanitarie in tutti i rioni, e nelle sezioni di campagna, avviando una durissima battaglia contro il caporalato. Si muovono con il fine di far riconoscere ai maestri anche il ruolo di registrazione delle nascite. Su tutti il documento Fra i contadini, scritto da Errico Malatesta, il più diffuso documento politico anarchico che spinge la partecipazione nelle scuole di campagna, nella costituzione di biblioteche popolari e di rione, nei centri sanitari pubblici”.
Nel libro vengono tracciati alcuni profili di donne anarchiche nate o abitanti a Roma, fra i quali quello di Annamaria Pietroni che “nel 1965 entra a far parte della nuova redazione di Umanità Nova raccogliendo attorno a sé un nuovo e agguerrito gruppo di giovani anarchici con i quali guiderà la controinformazione militante all'indomani della strage di Stato del dicembre del 1969”.
La Bibliografia e un racconto molto commovente sulla memoria di una Roma sparita, concludono un grande libro.
Il libro, oltre a essere un'esperienza di conoscenza di fatti, idee e generose militanze – condensati in un testo rigoroso, sintetico e completo – è anche un'esperienza emotiva. A rappresentare il valore e il messaggio del libro, basta il commiato dell'autore: “Forse questo è il segreto della memoria, le parole e i sogni che rimangono dentro le persone che ascoltano, e se è così allora mi sento sicuro perché non sono solo.”

Enrico Calandri



Psichiatria e infanzia/
Contro la medicalizzazione della libertà

Se si può dire che il tipo di malattia/disagio siano sempre stati specchio della società in cui si sviluppano, possiamo anche dire che il disagio e le malattie dei nostri giorni sono conseguenti alla paura. Paura di perdere il controllo, ansia di non farcela, stress per riuscire a mantenere il ritmo della corsa. E la cosa peggiore di tutto è che questo sta coinvolgendo fasce di età sempre più giovani, entrando in ambienti come la scuola il cui scopo dovrebbe essere lontano mille miglia da qualsiasi ansia di prestazione o competitività. Ma quando a bambini di una dozzina d'anni viene dato un “cartellino da timbrare” – lo chiamano badge (distintivo) in inglese – che va usato all'ingresso di scuola, così da sapere sempre chi c'è e chi non c'è ed evitare di perdere tempo con l'appello, il segnale è pessimo, indica qualcosa che velocemente sta trasformando la scuola pubblica in un luogo di addestramento piuttosto che di educazione, un posto dove essere bambini non si può.
Divieto d'infanzia. Psichiatria, controllo, profitto, a cura di Chiara Gazzola e Sebastiano Ortu (Pisa 2018, pp. 94, € 10,00) e ristampato nel 2018 da quelli della casa editrice BFS, è un libro uscito in prima edizione dieci anni fa, creando un certo allarme, in quanto denunciava come sofferenze psicologiche causate da problematiche sociali venissero “risolte” prescrivendo farmaci in grado di controllare i sintomi. Oggi che l'assunzione di psicofarmaci, regolarmente prescritti, è in continuo aumento da parte di tutta la popolazione mondiale, si è resa necessaria una ristampa che aggiornasse soprattutto sulle diagnosi riguardanti infanzia e adolescenza.
Siamo parte di una società che offre precarietà in cambio di efficienza e concorrenzialità, che costantemente crea senso di inadeguatezza, dove gli eventi naturali che segnano le tappe cruciali nell'esistenza di un individuo – quei periodi della vita in cui è necessario prendersi tutto il tempo che serve, aiutarsi reciprocamente, essere attenti – vengono medicalizzati come se niente fosse, così che gravidanza, nascita, pubertà, andro/menopausa, sono trattati alla stregua di malattie dove chi paga lo scotto maggiore sono soprattutto le donne e i bambini ai quali non vengono più lasciati spazi e tempi liberi per organizzarsi autonomamente nel gioco, per i quali tutto è già predisposto in modo tale che fantasia, creatività e anche, perché no, della sana noia, non esistano più.
Per quelli che meno si adattano e manifestano insofferenza, si può sempre fare una diagnosi medica che prescriva qualche farmaco tranquillizzante.
Ovviamente gli americani in queste cose ci sanno fare e sono sempre all'avanguardia, ma noi andiamo a ruota cercando di non essere da meno. Quindi il disagio comportamentale invece di essere valutato come un campanello d'allarme, la dichiarazione di qualcosa che non funziona all'interno della relazione adulto-bambino, viene incasellato come difetto/malattia, il genitore (o l'adulto facente funzione educativa) è deresponsabilizzato, non deve mettere in discussione se stesso e può delegare “il problema” a un esperto che lo affronterà dal punto di vista della salute mentale.
Tutti gli atteggiamenti infantili e/o adolescenziali non riconducibili dentro una norma (ogni cultura ha le sue norme, i modi di fare “giusti” nei luoghi appropriati) vengono così contenuti chimicamente e il potenziale di libertà che, attraverso fantasie, desideri, aspirazioni e anche comportamenti trasgressivi, dovrebbe portare al formarsi di un'idea personale dell'esistenza, viene eliminato risolvendo tutti i problemi. Se poi si pensa che è considerato problema anche la timidezza, possiamo farci un'idea di quanto possano essere arbitrarie tutte le “spiegazioni scientifiche” volte a giustificare la prescrizione massiva di psicofarmaci. Non vi sono dubbi, quello in atto sembra proprio il tentativo di attuare un controllo sociale preventivo, affinché il comportamento infantile si adegui alla “normalità”. Che si abituino, da subito!
«Ma se la normalità viene sempre più racchiusa in un concetto di produttività, le “anormalità” si moltiplicheranno e si cureranno con un sicuro vantaggio per le multinazionali del farmaco e per chi è delegato ad agire sul controllo e per il profitto (...) quando poi il termine “diversità” può essere sostituito da “inferiorità”, si concretizza una discriminazione; non a caso tra gli utenti psichiatrici sono in aumento le persone che vivono in un paese a loro straniero.»
È un libretto agile e chiaro, poco più di 90 pagine che forniscono importanti riflessioni su infanzia, educazione, malattia mentale e psichiatria, allarmanti dati su come funziona la diagnosi, e conseguente terapia, per quello che è stato chiamato disturbo da deficit attentivo sia negli Stati uniti che in Italia. Possiamo leggere anche il questionario che viene somministrato per formulare una diagnosi, l'aggiornamento al 2013 del più diffuso manuale diagnostico e così via a comporre un testo che tutt*, non solo genitori, insegnanti o educatori, dovrebbero leggere.
Un invito rivolto a tutta la comunità adulta, affinché prenda coscienza della situazione in corso, si informi e divenga consapevole del dovere che abbiamo di difendere le nuove generazioni perché fantasia, creatività e libertà di scelta continuino a essere le loro caratteristiche peculiari.

Silvia Papi



Franco Serantini/
Perché ringraziare Corrado Stajano

È appena arrivata sugli scaffali delle librerie la nuova edizione, in una bella veste grafica, de Il Sovversivo di Corrado Stajano (Il Saggiatore, Milano 2019, pp. 207, € 21,00), accompagnata da una nuova introduzione dello stesso autore e arricchita da una collezione di disegni inediti dell'artista Costantino Nivola (1911-1988).
Pisa, 7 maggio 1972, ore 9.45. Franco Serantini, vent'anni, studente/lavoratore, anarchico muore nel carcere Don Bosco dopo essere stato trattenuto e interrogato per due notti e un giorno, senza ricevere le cure di cui ha un evidente bisogno.
Nel tardo pomeriggio di due giorni prima, nel centro della città presidiata da un incredibile dispiegamento di forze dell'ordine, una manifestazione antifascista indetta contro il comizio del deputato Giuseppe Niccolai del MSI-DN, viene dispersa dalle cariche della polizia con scontri violentissimi tra poche centinaia di manifestanti e i poliziotti. In Lungarno Gambacorti, nei pressi dell'angolo con via Mazzini, Franco viene accerchiato e aggredito da una decina di poliziotti, per lo più suoi coetanei, tempestato di calci, pugni e manganellate con una ferocia che non risparmia alcun lembo del suo corpo.
Fino ad allora, quella di Franco Serantini è stata un'esistenza trascorsa con difficoltà affettive legate all'assenza di una famiglia, alla povertà e all'emarginazione coattiva negli istituti minorili voluta da uno Stato ottuso e arrogante. La sua storia è quella di un orfano che ha perso anche la madre e il padre adottivi, costretto a passare da un brefotrofio a un istituto, fino a ritrovarsi in riformatorio a Pisa anche se non ha commesso alcun reato. Proprio qui, alla fine degli anni Sessanta, nella città che gli appare come un bellissimo teatro, perso fra tanti altri ragazzi che affollano le vie e le piazze, Franco vive i suoi anni più felici. Gli ultimi.
Sembra la trama di un romanzo ottocentesco, ma nel Sovversivo l'indagine sulla morte dell'anarchico Serantini è condotta attraverso un coro di voci reali, un'attenta lettura dei documenti della burocrazia giuridica e dei giornali dell'epoca, componendo una narrazione civile di limpido rigore e grande partecipazione emotiva. Un libro che ha avuto il merito di proiettare la figura di Franco all'attenzione della coscienza civile nazionale.
Un libro che è stato ampiamente letto sia dalla generazione dei giovani che come Franco riempivano le piazze di allora, sia quelle successive che hanno raccolto e custodito gelosamente la sua memoria. Ne sono testimonianza non solo le tre fortunate edizioni pubblicate dall'Einaudi nel 1975, 1976 e 1979 in migliaia di copie, che ebbe anche una traduzione in lingua tedesca – Der staatsfeind: leben und tod des anarchisten Serantini, Berlin, Klaus Wagenbach, 1976 –, ma anche quelle degli anni Novanta, la prima sempre dell'Einaudi in coppia con un altro lavoro di Stajano, L'Italia nichilista (1992) e la seconda a cura del giornale «L'Unità» (1994); infine come non ricordare in anni più recenti le nuove edizioni curate dalla BFS, casa editrice della Biblioteca dedicata a Franco, quella del 2002 e poi quella del 2008, in coedizione con “A” rivista anarchica con in allegato il DVD S'era tutti sovversivi di Giacomo Verde.
Come spesso accade nelle opere di Corrado Stajano, la vicenda di un solo individuo svela il male di un paese intero, e nel corpo di un ragazzo si rintracciano i segni di un tempo spietato, lacerato dai conflitti politici e sociali e da una “giustizia” di Stato che semina ingiustizie.
Rileggere le pagine dedicate a Serantini, qui proposte con i bellissimi ed efficaci disegni di Costantino Nivola, significa riportare alla memoria, come accennato nella nuova introduzione al libro dello stesso Stajano, anche i volti di Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e di tante altre vittime innocenti. Storie di oggi: soprusi delle forze di polizia, depistaggi giudiziari, giovani vite finite che mettono sotto accusa uno Stato incapace di processare se stesso, e raccontano la notte di una democrazia che abdica violentemente alle proprie regole. Scrive Stajano che «quasi mezzo secolo dopo l'altra Italia non è ancora riuscita a ascoltare la lezione di dignità umana dettata dalla legge e dalla Costituzione della Repubblica (art. 2; art. 3; art. 13)». Il giornalista ricorda però anche l'impegno delle madri e delle sorelle delle vittime della violenza dello Stato, come degli amici e compagni di Serantini, e della loro energia positiva nel ricercare costantemente la verità e la giustizia, speranza per il futuro di un Italia diversa e migliore.
Ma oggi, anche se non abbiamo una “verità giuridica” sul caso della morte di Serantini – rispetto ad altri casi più recenti dove la “giustizia” ha svelato le responsabilità con nomi e cognomi di efferati delitti di Stato – della storia dell'anarchico ventenne abbiamo però la verità storica tenuta in vita grazie alle tante testimonianze che negli anni hanno permesso di non dimenticare questa tragica vicenda: come quelle dei volti anonimi di cittadini che ogni anno nella ricorrenza depositano fiori sulla tomba o al monumento in Piazza S. Silvestro (che la gente chiama comunemente Piazza Serantini); o dei suoi compagni di idee e di molti altri, tra cui molti artisti e poeti che hanno dedicato opere di valore alla memoria di Serantini.
Un esempio illustre, segnalato anche dalle pagine di questa rivista e ricordata anche da Stajano nella sua nuova introduzione, è stata l'opera del musicista pisano, Francesco Filidei, un'impresa prestigiosa e ardita dal punto di vista della tecnica musicale; oggi poi si aggiunge questa ulteriore testimonianza artistica di Nivola che, emigrato negli USA ancora giovane, lavorò nello studio di Le Corbusier, fu vicino stilisticamente a Saul Steinberg, insegnò alla Columbia University, alle università di Harvard e di Berkeley. A Orani, nel suo paese natale in Sardegna, il Museo Nivola ospita un'importante collezione delle sue opere.
Questo artista si appassionò alla storia di Serantini e una sera in casa di Stajano disegnò nella pagine bianche del libro della prima edizione, come incipit all'inizio dei capitoli e ai margini delle pagine, la vita e la morte del giovane anarchico, facendo sì che quell'esemplare del libro divenisse un «unicum editoriale» che oggi vede la luce.
Dunque, per Stajano, la vicenda di Serantini si conserva grazie alla memoria di molti, con un continuo ma necessario rito civile, perché non se ne dimentichi la figura, ed è anche per questo che nell'introduzione ricorda l'esistenza della stessa Biblioteca che da 40 anni continua coraggiosamente nel suo lavoro di raccolta di testimonianze e a custodire la memoria dell'anarchico Franco Serantini.

Franco Bertolucci

Voglio aggiungere il mio personale (e redazionale) ringraziamento a Corrado Stajano, l'unica persona cui ho scritto in questi anni, privatamente, chiamandolo “Maestro”. Nessuna piaggeria, solo l'intima convinzione che anche prendendo in considerazione solo questo suo libro, il suo ruolo nella vicenda Serantini sia stato fondamentale. E Maestro, a mio avviso inarrivabile, nello stile di scrittura, nella scorrevolezza del racconto, nell'uso di quei termini in quel punto preciso. Una scrittura godibile e rispettosa. Rara.
Quel ragazzo dagli occhiali spessi, spessissimi, che Aurora e io conoscemmo a varie riunioni degli anarchici toscani all'inizio degli anni '70, nella vecchia sede degli anarchici pisani, sopra la Pubblica Assistenza in via San Martino, sarebbe rimasto uno dei tanti, nella lunga lista delle vittime della violenza poliziesca. È stato quel libro, è stata la profonda, appassionata e rigorosa ricerca di Stajano a strapparlo dall'anonimato e renderlo pubblico, conosciuto, rispettato.
Stajano ha ora i suoi 89 anni, 21 più di me. Ero ancora un ragazzo quando intorno al 1973 lo accompagnai a Carrara, sulla sua auto, in compagnia di sua moglie, per metterlo in contatto con alcuni compagni carraresi.
Lo conoscevo già come un giornalista democratico, impegnato, con uno stile sempre rigoroso, mai urlato, determinato e sereno. Era al nostro fianco nella mobilitazione per Pinelli, Valpreda, la strage di stato. Ci è stato al fianco in questi decenni, con simpatia e rispetto: con la sua attività i suoi numerosi libri, gli innumerevoli articoli, sempre ispirati alla sua concezione di un vivere democratico, caratterizzato da un rigore morale che non è mai stato bigottismo.
Con Stajano feci anche un paio di interventi pubblici a Pisa e a Livorno sulla vicenda Serantini. Un onore per me. E ricordo bene che durante una cena, presente Franco Bertolucci, Corrado ebbe modo di criticare con fermezza certe posizioni assunte da “A” in relazione ad alcuni episodi di violenza politica. Mi mise in crisi subito, mi fece riflettere e a distanza di anni riconosco che aveva ragione lui. La sua riflessione, il suo equilibrio, la sua onestà sapevano cogliere ben oltre le apparenze. È persona gentile, ma non meno determinata e ragionante (“Ma Paolo, come potete...?”): lo ricordo bene e con gratitudine.
Gli auguriamo buona salute, che possa continuare a scrivere – lui democratico e antifascista – cose che hanno fatto e fanno pensare milioni di persone.
Da queste colonne gli mandiamo un caro saluto, ben sapendo che nella differenza di opinioni su tante cose, sempre lo ritroveremo tra le persone che rispettano il nostro pensiero e il nostro movimento. La cui storia, in alcune sue pagine significative (non solo la vicenda di Serantini), lui ha contribuito a indagare, ricostruire, far conoscere meglio di quanto noi avremmo e abbiamo saputo fare. Non è poca cosa.
Grazie Corrado.

Paolo Finzi



Beppe Chierici/
Viaggio nell'arte e nell'umanità

Se Fabrizio De André e Nanni Svampa sono i nomi più illustri che hanno cantato e ci hanno fatto conoscere “il francese di Marsico Nuovo”, Georges Brassens, a Beppe Chierici si deve attestare un immane e meticoloso lavoro di traduzione e incisione dei non sempre facili testi dell'imperatore degli chansonnier. E, in una lettera inviata nel novembre del 1976, fu lo stesso Brassens a riconoscerlo: “Mio caro Beppe, sono stato molto felice delle tue traduzioni che sono a parer mio le migliori e le più fedeli che mi siano state fatte in questa bella lingua italiana”.
Fino ad oggi il cantastorie e attore cuneese, sempre cercando di muoversi lungo una traiettoria di fedelissima aderenza linguistica, ha tradotto e registrato esattamente cento testi del cantautore francese dalle origini lucane, gli ultimi tredici (tra cui gli incantevoli “La route aux quatre chansons”, “Le bistrol” e “Les philistins”) fanno parte di “Cento volte W Brassens”. L'album è allegato a Un Ulisse da taschino (edizioni Cenacolo di Ares, 2017, pp. 282, € 18,00), un libro-intervista realizzato con il fumettista romano Dario Faggella, il quale aveva già illustrato con un incedere naif il precedente libro-cd di Chierici La cattiva erba.
Sottoposto a un fuoco di fila di domande da Faggella, Chierici ricorda gli indimenticabili incontri parigini con Brassens, il cui verbo e canto poetico sono riusciti a dare alla sua esistenza un senso straordinario. “Cantare Brassens è stato per me un inno alla vita, un'ode al rispetto degli altri, un sentirmi vicino alle cattive erbe, ai gatti randagi, agli emarginati, ai diseredati”.
L'intervista-conversazione con Faggetta, naturalmente, è anche una veloce traversata nella vita ribelle e scanzonata di Chierici che, per dar sfogo ai demoni interni dell'artista e dell'impenitente avventuriero, dalla povera e piccola provincia piemontese è andato per il mondo, passando per la Svizzera, Roma, l'Africa, la Francia fino ad approdare al suo attuale “buen retiro” umbro a Pesciano di Todi. Nel libro, Chierici - irrequieto e libertario qual é - rievoca le prime esperienze con la scuola teatrale Dimitri in Svizzera e il teatro di strada di Gian Maria Volontè, il sodalizio con la prima compagna e cantastorie Daisy Lumini, quindi la collaborazione a Parigi con il regista teatrale Jean Louis Martinelli, le partecipazioni alle fiction televisive e nel cinema (nel riuscito, ma sfortunato film “Le sabbie mobili” girato nel 1996 da Paul Carpita fu anche tra i protagonisti). Quello di Chierici è stato un lungo e affascinante viaggio nell'arte e tra l'umanità; oggi, nonostante l'età (ottantuno anni), continua instancabilmente a far splendere il canto umanista e generoso di Brassens, nonché a incidere mirabili canzoni per bambini con la compagna Mireille Safa.

Mimmo Mastrangelo

Beppe Chierici e Georges Brassens