Rivista Anarchica Online





Un'ora di libertà
un itinerario anarchico intorno a Fabrizio De André

Sono nato nel settembre del 1972 e ho cominciato ad ascoltare canzone d'autore quando avevo 15 anni, dunque nella seconda metà degli anni ottanta. Benché di una generazione decisamente successiva a Fabrizio De André e ai suoi primi ascoltatori, sono stato per lungo tratto fra chi si era appassionato alla sua opera essendo lui vivente: accolsi come un regalo quasi personale Le nuvole che venne pubblicato (a quanto mi ricordo) esattamente il giorno del mio diciottesimo compleanno e fu il disco che ebbe più influenza sulla mia formazione di giovane, confuso e volenteroso, anarchico.
Quando uscì Anime salve ero ancora nell'età in cui ci si può considerare senza troppa vergogna “fan” di qualcuno, dunque andai ad attendere il disco il giorno stesso dell'uscita davanti a un grosso negozio di Via Magenta a Milano. Ho avuto la ventura di vederlo in concerto non meno di cinque volte, è una delle poche persone cui abbia mai chiesto un autografo, nel corso della sua ultima tournée, come capita di fare ai giovani speranzosi autori, gli consegnai in camerino una mia cassettina con qualche canzone registrata voce e chitarra, e lui molto gentilmente la prese ma mi avvertì “ho una valigia intera di cassette da ascoltare” onesto, cordiale, senza fronzoli. Posso senz'altro dire che è il primo cantautore che abbia amato, e benché poi un pugno di suoi colleghi (Guccini, Jannacci, ecc.) li consideri altrettanto eccelsi, e che in fin dei conti oggi io riconosca il mio percorso più vicino a quei cantori che si formarono nel solco della tradizione orale, come Ivan Della Mea e Giovanna Marini (per restare solo in Italia), i dischi di De André sono a mio avviso quanto di più bello e stimolante sia mai stato registrato.
Se dai miei ormai considerevoli 46 anni (e 25 di attività concertistica, prima sporadica e poi professionale) mi chiedessero dei punti di riferimento per chi vuole avvicinarsi alla migliore canzone d'autore, quei dischi non potrebbero mai mancare in nessun bagaglio per quanto essenziale.
Quando morì De André ero solidamente avviato su una strada che pur senza velleità di massa (il mondo dello spettacolo stava molto cambiando) si rivolgeva a un pubblico ben definito, empatico, una solida nicchia potremmo dire. Nei miei recital sovente inserivo delle sue canzoni, quindi senza troppi rimorsi o crisi di coscienza continuai a farlo, e qualche volta - quando veniva richiesto - mi producevo in spettacoli tutti incentrati sul suo repertorio. Lavorando parecchio sugli autori francofoni Ferré, Brel e soprattutto Brassens - suoi primi mentori - ritenevo di poter creare attorno alle canzoni di De André un discorso musicale non del tutto scontato, di riportarlo in qualche modo in una famiglia d'origine, approfondirne così poesia e pensiero. All'epoca non eravamo molti a farlo.

Un De André super partes?

Inutile che vi dica che negli anni duemila ho visto crescere esponenzialmente il culto di De André, massificarsi la sua diffusione, rompere quella sorta di rigore col quale lui stesso - uomo schivo e attento - dava le sue canzoni col contagocce, sottraendosi quasi completamente a ogni altra forma di apparenza. De André da celebre era diventato popolarissimo e una schiera di interpreti lo avevano trasformato in un vero e proprio standard della musica italiana, le sue canzoni si sentivano sovente anche in televisione, mezzo dal quale non dico che prima fosse bandito, ma senz'altro piuttosto assente.
C'erano cantori che proponevano - ora con naturalezza ora con vistose forzature - il suo timbro basso la sua dizione compassata, gruppi che studiavano come fossero partiture classiche i suoi arrangiamenti (celeberrimi quelli della PFM) e li riproponevano con attenzione filologica ai suoni d'epoca. Non me ne sono mai indispettito: io stesso avevo potuto frequentare alcuni dei miei primi palchi più prestigiosi grazie a quel repertorio, era giusto che lo facessero altri più giovani, semmai devo dire che ho sempre trovato un po' triste che gli storici collaboratori che avevano avuto modo e sorte di lavorare direttamente con lui non prendessero, dopo tanti anni, le distanze da quella fase della loro vita, più che altro per ragioni esistenziali... ma contenti loro! In ogni caso a me è capitato sempre meno di cantare De André, semmai mi sono dedicato a ragionare e scrivere - da storico della canzone - sulla molteplicità delle sue fonti, certo di rendere omaggio a una figura totale, che come un Dante (scusate il paragone che può ovviamente suonare fuori luogo) convogliava tutta la cultura delle sua epoca nell'impasto magmatico della sua Commedia.
Ciò che invece a un certo punto mi ha proprio sconvolto è stato sentir provenire professioni di ammirazione per l'opera di De André da dove mai me lo sarei aspettato. Ci aveva messo in guardia già nei primi tempi il sociologo Alessandro Dal Lago, che udii con le mie orecchie tuonare già nel 2002 “perché ora De André piace anche ai fascisti”, ma all'epoca la presi per una boutade paradossale. Invece la vulgata di un De André super partes, buono per tutte le stagioni, pacificato, innocuamente identificato con una formula sempre uguale “poeta degli ultimi” mi indignava. Non dico che non sia giusto che ognuno di noi si faccia il “suo” De André: ogni grande artista è sufficientemente sfaccettato da poter ospitare molteplici interpretazione, e in una carriera molto variegata con un pensiero in dialettica evoluzione è naturale che vi siano letture che portano alla luce aspetti diversi.
Quello che proprio mi risulta intollerabile è che oggi in un contesto politico-istituzionale nettamente marcato da posizioni di governo razziste, xenofobe, nazionaliste, populiste proprio nel senso della dittatura della maggioranza e nella acritica accettazione dei borborigmi di massa, De André possa risultare assunto come “padre” nobile di questa patria così antitetica al suo non univoco ma chiaro pensiero libertario.

Le matrici anarchiche della sua poesia

Ho sempre detestato l'idea di interrogare i morti, di parlare in vece loro, di sentirsene interpreti autorizzati... non mi azzarderò dunque a trarre vaticini su “cosa avrebbe pensato De André della situazione attuale”. Penso però che le suo opere ci parlino e che l'assunzione di De André ad artista buono per tutte le opinioni passi attraverso l'omissione, l'oscuramento di parte della sua opera, ai limite della distorsione e della falsificazione. Nominare De André porta consenso indipendentemente da come poi lo si usa - siamo a questo paradosso - mi pare giunto il momento di provare a fare luce su l'incompatibilità di certune opinioni con alcuni suoi punti fermi.
M'è venuto dunque in mente di tornare organicamente alle canzoni di De André per costruire un percorso ideale fra quelle meno “potabili”, constatare come nei tre grandi momenti in cui si può ripartire la sua carriera, e che grosso modo assommano tre fasi di evoluzione musicale, poetica e ideologica assieme, siano chiare le matrici anarchiche della sua poesia.
Le tre fasi sono grosso modo quella pre-sessantotto dell'individualismo primigenio brassensiano (possiamo chiamarlo così dal nome del suo massimo ispiratore, nel quale lui stesso vedeva un maestro di vita e di pensiero prima che di canzoni): le storie singolari del sottoproletariato ribelle.
Poi con l'epoca della contestazione e della grande partecipazione giovanile De André ingaggia con se stesso una sorta di revisione e di confronto con le possibilità collettive; la cogliamo nei “romanzi musicali” de La buona novella, Non al denaro non all'amore né al cielo e soprattutto Storia di un impiegato (il più esplicitamente politico dei suoi dischi, assieme a Le Nuvole).
Forse più ancora, anche se in modo meno diretto, con l'assunzione di un nuovo stile poetico-immaginifico, nel confronto con la sottile relazione fra salvaguardia e proposta trovata nella metafora degli indiani d'America, che lo condurrà dritto alla terza fase, quella della riscoperta delle culture orali del mondo popolare, della libertà linguistica che si sbriglia nei tre capolavori della maturità, quanto di più originale e stratificato assieme De André abbia mai inciso: Creuza de ma, Le nuvole, Anime salve. Quest'ultima fase matura dopo la delusione di un grande cambiamento abortito, attraverso la morta gora degli anni ottanta, e solo apparentemente potrebbe apparire come un ripiegamento sulla prima ispirazione, in realtà il coro di cicale che punteggia Le nuvole è metafora di una sintesi possibile solo attraverso discorsi che colgano tutti i punti di vista e le differenti proteste, senza avere l'ambizione di omologarle a una sola macchina statale: collettivismo forse, massificazione mai. Appunto, ci verrebbe da dire, il nocciolo stesso del pensiero anarchico.

Ma Salvini che ci azzecca?

Io nel percorso che ho costruito per raccontare il mio De André ho mischiato queste tre fasi, ho privilegiato la dimensione dialettica a quella cronologica: mi risulta chiaro che certe canzoni venute dopo sono il superamento di altre posizioni precedenti, ma tale forzatura (se così si può considerare) non intacca mai i principi che restano saldi dall'inizio alla fine, ovvero l'equilibrio fra collettività e individuo, fra organizzazione e libertà, fra Storia e storie. Ovviamente a patto che questo percorso proposto non venga preso per una storia dell'evoluzione del pensiero di De André, ma per un affresco multiforme dei suoi interessi, d'altronde il concerto - in generale, come forma di spettacolo - accostando brani vecchi e nuovi è per definizione un continuo confronto fra le varie fasi di un pensiero, dove solo chi conosce i diversi periodi di composizione dei brani può dipanarne gli avvicendamenti.
La battuta che faccio quando presento l'insieme di queste canzoni è “questi sono i brani di De André che Matteo Salvini non ha mai ascoltato, o se li ha ascoltati non li ha capiti”. Credo che a molti non sia sfuggito il ricorso abbastanza costante che il leader del partito politico noto come “Lega”, attualmente ministro dell'interno, fa a quello che lui considera il massimo cantautore italiano (“per me la musica italiana inizia e finisce con De André”) arrivando al punto di citare espressamente i versi del Pescatore, con tutta evidenza un inno alla solidarietà umana e alla non-collaborazione con le forze dell'ordine, che stonerebbe in bocca a qualsiasi vigile urbano, figuriamoci alla massima espressione del ministero stesso della polizia. Peraltro personalmente dedito alla criminalizzazione e alla disgregazione della solidarietà organizzata dalle ONG, a una campagna di odio e di repressione nei confronti delle marginalità sociali... non voglio certo personalizzare un discorso ben più ampio, culturalmente e politicamente, ma senza erigersi a guardiani del tempio, De André in bocca a Salvini mi pare proprio qualcosa di paragonabile a una bestemmia.
Per questo provo a sciogliere i diversi nodi che legano Il bombarolo a Coda di lupo affrontando serenamente il tema del terrorismo in modo tutt'altro che consolatorio (“colpisco un po' a casaccio perché non ho più memoria”), la sempre commovente Guerra di Piero che nel colore della divisa stigmatizza l'assurdità del concetto di frontiera, Un matto, Princesa, Khorakhané... apologhi della diversità imposta per decreto, all'interno dei quali si può comunque cercare una strada del riscatto. Poi ancora la dimensione umanistico-politica cui viene ricondotta la parabola trascendentale di Cristo (che non prende mai la parola di persona, ed è sempre visto dai comprimari della sua vicenda, a significare l'inattingibilità del mistero dell'uomo-dio).
Dall'altra parte ci sono i rosari esibiti in campagna elettorale (tristi rimembranze da Gott mit uns), la chiusura dei porti alle navi cariche di migranti, le ruspe (metafora terribile, irridente, oscena degli sgomberi dei campi Rom), il latitante della stagione degli anni settanta esibito come un trofeo da caccia...
A tutto questo le canzoni di De André paiono altrettante risposte, poetiche ma non indefinite, puntuali appunti lasciati da un poeta che sapeva di andare al nocciolo di questioni rimaste in sospeso. Anche nella dimensione tutta personale di una delicatissima canzone d'amore quale Giugno ’73, inquieta ma non disperata analisi di un fallimento di coppia, si contraddice il mondo e il modo banalizzante di una serenità fatta di camicie stirate e di una tempesta di furori da operetta con la resa a una differenza insostenibile, al fatto che la solitudine non può essere curata ma solo esplorata in due.
Ecco, più il ventesimo anniversario della scomparsa di Fabrizio De André vuole promuoverlo a “poeta laureato di una nazione” più i semi d'anarchia che ha gettato mi sembrano fiorire e rampicare sulle nostre inquietudini. Infine permettettemi una provocazione da (ormai) vecchio sentimentale: precisiamo pure ma non strappiamo De André dai suoi peggiori ascoltatori, non si sa mai che in una tale cattedrale di odio, di sopraffazione, di rancore eletto a sistema di persuasione, non si insinui la poesia ribelle di un principe libero, e come il tradimento in una fortezza, non la devasti.

Alessio Lega