Rivista Anarchica Online





L'altra faccia dell'alienazione


1.
Calco di una trasmissione americana, dal 1985 al 1994, andò sulle onde televisive Il gioco delle coppie. Divisi per sesso e divisi da un “muro magico” che di magico, come tutte le cose magiche, aveva ben poco, i partecipanti potevano rivolgere domande alla controparte e, sulla base delle risposte, decidere con chi far coppia. Li aspettava un viaggio insieme, dove, presumibilmente, uno avrebbe potuto o gioire o maledire il giorno in cui aveva optato per la sua partecipazione al programma. Al di là del significato politico e sociale dell'invenzione – far mercimonio e spettacolo della relazione umana ha comunque a che fare con la pornocrazia –, nutro parecchi dubbi sulla legittimità di chiamarlo “gioco”. Anche il Grande Fratello – che dal 2000 continua ad ammorbarci – è stato considerato da qualcuno come “gioco”, ma poi si è ritenuto più opportuno definirlo come “reality show”, ovvero come uno “spettacolo” di qualcosa che – tanto per affidarsi ad un valore “sicuro” e inossidabile dal punto di vista ideologico – viene spacciato per “realtà”.

2.
Ne La mente vista da un cibernetico, Silvio Ceccato invita a stringere fra il pollice e l'indice di una mano un piccolo quadrato di cartone o di plastica in modo che, soffiandoci, possa ruotare sui due vertici opposti. Mentre lo si sta facendo, dice, si provi a pensarlo prima come “lavoro” e poi come “gioco”. Nel primo caso, “ciò che avviene è rotto in due parti: un operare, il soffiare, ed il risultato, cioè il ruotare del quadrato”. Nel secondo caso, invece, “questa separazione non si pone, in quanto soffiare e ruotare danno vita ad unico avvenimento”. Va da sé che il “rompere” o il “mantenere unito” siano operazioni tutte mentali. In pratica, Ceccato ci sta dando una spiegazione del concetto marxiano di “alienazione”: il risultato, nel lavoro, è aggiunto e non ci appartiene – è del padrone –, ci è alienato, ovvero sottratto; mentre, nel gioco, risultato e operare appartengono entrambi al soggetto che opera. È per questa ragione, anche, che del lavoro si percepisce la fatica, mentre del gioco ci si diverte.
A mio avviso, l'analisi di Ceccato è convincente a patto che la si arricchisca ancora un pochino: senza regole che prestabiliscano il risultato da ottenere e la via per ottenerlo, un'attività non è ancora un gioco. Anche quando gioco da solo, mi prefisso un risultato da ottenere – definisco le condizioni in virtù delle quali quanto ottenuto lo posso considerare “risultato” – e, quasi sempre ma non obbligatoriamente, stabilisco i mezzi tramite i quali ottenerlo. Detto altrimenti: al gioco si vince o si perde, ma per saperlo occorre che, prima di iniziare, siano determinati i criteri tramite i quali poter dire che si ha vinto o che si ha perso.

3.
Faccio un esempio. Fra il tanto d'altro, Giuseppe Peano (1858-1932) ci ha lasciato un gradevolissimo libricino dedicato ai Giochi di aritmetica e problemi interessanti fra i quali figura il seguente che, innanzitutto, riferisco nei suoi termini: “Di due persone, una dice un numero da 1 a 10, l'altra aggiunge un numero sempre da 1 a 10, la prima aggiunge un numero fra gli stessi limiti, e così via. Chi arriva prima a dire 100, vince”. Come si fa a vincere? Il ragionamento è questo: chi arriva per primo a dire 89 è sicuro di aver vinto, perché il suo avversario come minimo può arrivare a 90 (e quindi tocca all'altro che dirà 10 e avrà vinto) e come massimo può arrivare a 99 (e quindi tocca all'altro che, aggiungendo 1, potrà dire 100). E a questo punto si tratta di capire come arrivare al fatidico 89, ma la risposta è semplice: si arriva a 89 passando per 1, 12, 23, 34, 45, 56, 67 e 78. Chi lo sa vince sempre, perché qualsiasi numero dica l'avversario è sempre possibile per lui aggiungere la cifra giusta per arrivare alle stazioni intermedie. Provateci, ma assumendovene la responsabilità morale conseguente. Infatti, dico, che gioco è quello in cui chi sa l'algoritmo – le regole – vince sempre e l'altro “matematicamente” perde? Più che di un gioco, direi, si tratta di una truffa.

4.
Doubles vies – Doppie vite –, un film di Olivier Assayas del 2018 è una finta commedia o – volendo –, può esser visto come una commedia, oppure – scalfendone la superficie – può esser visto come un drammatico resoconto dello stato delle relazioni umane in una certa parte del mondo ed in una certa sfera sociale di questo mondo. Illumina puntualmente sulle modalità con cui sono cambiate le circostanze della convivialità – tra borghesi di rango, intellettuali, milieu dell'editoria e degli scrittori, investitori più e meno titubanti nella tecnologia dell'informazione, coppie disinvolte e apparentemente “aperte”, corna ben portate ma ugualmente dolorose, come in apparenza ben metabolizzati sono i torti subiti nel contraddittorio: le cene non sono più canonizzate nella distribuzione dei posti a tavola, ma sono ormai allestite all'insegna dell'informalità. Non ci si siede attorno ad un tavolo, ognuno si gestisce un suo piatto dove gli pare nella sala grande o sul terrazzo; la padrona di casa fa trovare poche cose varie (al massimo, prepara uno sfornato caldo), nessuno è obbligato ad esaurire il menu, a nessuno viene imposto un ordine degli alimenti o delle bevande. Il cibo è complemento del bere e non viceversa. L'alcool ha preso il sopravvento sul fumo – che resiste, come abitudine, ma in forma molto ridotta – fin un tiro o due e la sigaretta è bella che schiacciata nel portacenere. I protagonisti e le loro stesse vicende, insomma, vivono in un'informalità dove viene a mancare tutto l'apparato retorico dei vari vincoli: assaggia questo, ancora un po' di questo, dobbiamo finirlo, non vorrai mica lasciarlo nel piatto. E questa informalità destituisce gli obblighi. Nessuno può più essere accusato di “fare i complimenti” – a tavola come in camera da letto.
Bene o, meglio, male, perché un buon film come questo viene offerto al pubblico italiano come Il gioco delle coppie, un titolo ben diverso dall'originale che, nel cercare di alleviare la sostanza drammatica della narrazione esaltandone la dimensione tutta superficiale di commediola – trasmutazione che risponde all'esigenza di rivolgersi ad un pubblico ritenuto meno colto di quello francese – ha il merito di evidenziare tutta la metaforizzabilità del termine “gioco”.

5.
L'inflazione di giochi non-giochi – ovvero di marchingegni vari categorizzati impropriamente come “gioco”, marchingegni dove i partecipanti non condividono regole e dove i criteri per stabilire se il risultato è stato raggiunto o meno non sono anticipatamente dichiarati – non testimonia a favore della tipologia delle relazioni umane sempre più in atto. Non vorrei che bastasse un'intenzione di inganno perché si possa parlare di gioco – un'attività che ci riempie la vita fin da quando siamo bambini svanirebbe tra le nebbie dell'ambiguità. Come nei personaggi di Assayas si coglie una forma di resa – e la quantità di alcolici che scorre, allora, serve a mascherarla – e come nei partecipanti al Gioco delle coppie di televisiva memoria non si può fare a meno di individuarne la pressapochezza umiliante, la categorizzazione impropria, l'etichettare l'evoluzione dell'insieme di certi rapporti umani come “gioco”, da un lato, funziona da analgesico sociale – riduce il dolore di vivere e, nei limiti del possibile, ne ottunde la consapevolezza – e, dall'altro, costituisce un'altra forma di alienazione.

Felice Accame

Nota
La mente vista da un cibernetico di Silvio Ceccato è stato pubblicato da Eri, a Torino nel 1972, e ripubblicato con una prefazione di Francesco Ranci da Mimesis, a Sesto San Giovanni nel 2017. L'analisi del “lavoro” e del “gioco” è a pag. 121. Il libro di Peano è stato pubblicato da Paravia, a Torino, nel 1925 e, come Problemi matematici antichissimi, è stato ripubblicato dalle Edizioni Clichy, a Firenze nel 2017.