Rivista Anarchica Online





Euromissili/
Le lotte di ieri sono ancora attuali

La decisione dell'amministrazione Trump, dichiarata l'11 febbraio scorso all'ONU e ripresa simmetricamente da Vladimir Putin, di disdettare il Trattato INF (Trattato sulle forze nucleari a medio raggio installati sul suolo europeo) significa che in Europa stanno per tornare missili analoghi a quelli che vennero installati nei primi anni Ottanta a Comiso (Rg). Sto parlando dei famigerati “euromissili” che hanno occupato, nell'impegno di lotta, i giorni e le notti di molti di noi che oggi hanno i capelli bianchi: i missili nucleari, con gittata compresa tra 500 e 5500 km, che furono schierati dagli Usa in Europa, in presunta risposta agli SS20 sovietici, durante la guerra fredda.

La prima pagina di un numero del mensile “Sicilia Libertaria”
con uno degli slogan più fortunati “Americani andatevene” (in dialetto siculo)

I motivi del trattato
Domandiamocelo: cosa portò i capi di USA e URSS a firmare allora il Trattato INF, che aprì il più grande disarmo “quantitativo” della storia? Io penso a tre ordini di motivi. Per prima cosa, ebbe un ruolo la “strizza” (mi si passi il termine popolaresco) che li attanagliò quando si resero conto che la guerra nucleare avrebbe potuto scoppiare anche per errore dei computer di avvistamento (vedi il caso Petrov del 26 settembre 1983) o di calcolo sulle manovre militari (vedi quando l'esercitazione Able Archer, nel novembre 1983, venne scambiata per la copertura di un attacco NATO effettivo). In secondo luogo, pesò la decisione di Gorbachev, con la sua “Perestroika”, di non inseguire gli USA nella corsa al riarmo, di non rispondere agli USA missile per missile e dollaro su dollaro nella gara alle spese militari che stavano uccidendo l'economia sovietica. Mi sembra illuminante in proposito la seguente battuta definitoria: gli USA hanno un complesso militare-industriale determinante, l'URSS è (era) totalmente un complesso militare-industriale...
In terzo luogo – e questo ci tengo molto a sottolinearlo – ci fu anche la pressione dal basso del grande movimento pacifista e antinucleare, che in Italia si espresse essenzialmente con massicce manifestazioni alla classica maniera del PCI, ma nel resto d'Europa si manifestò anche nell'azione diretta nonviolenta del “Cruisewatching”, cioè la vigilanza anti-Cruise (missili da crociera) esercitata dai pacifisti nei “campi” a ridosso delle basi in Germania, Gran Bretagna, Belgio e Olanda.
Fu la mia rischiosa e costosa partecipazione (8 mesi di carcere preventivo) a questa straordinaria rete internazionale di movimento che mi chiarì alcune dinamiche essenziali della competizione “atomica”, che ora tenterò di trasmettere per sommi capi ai più giovani lettori di questa rivista.

Nel 1983 la lotta contro gli euromissili, cui fa riferimento Alfonso Navarra nel
suo scritto, raggiunse il suo apice. Gli anarchici ne furono tra i protagonisti, a
partire da quelle e quelli di Comiso, Ragusa e siciliani/e in genere. Nell'estate
1983 centinaia di compagne/i andarono lì da tutt'Italia e anche dall'estero.
Nella foto, un comizio dell'anarchico ragusano Pippo Gurrieri,
nella piazza Fonte Diana, a Comiso

Dagli anni ’80 a oggi. Le dinamiche della competizione atomica
Volente o nolente, la realtà del contrasto ai missili Cruise di Comiso, e la collaborazione con gli altri “campi” in lotta in Europa, mi fecero capire che la Mutua Distruzione Assicurata (MAD, ossia la distruzione dell'attaccante e dell'attaccato in caso di utilizzo di ordigni atomici) era ed è solo la preistoria della “deterrenza”; si fondava su una minaccia: “Se provi a colpirmi con un attacco nucleare subirai da me la distruzione nucleare totale”. L'idea alla base della pace era fondata sul cosiddetto “equilibrio del terrore”!
Ad un certo punto però i gestori degli apparati atomici, non avendo, allora come oggi, presente le conseguenze climatiche dell'uso delle armi nucleari (questo è un altro discorso che non abbiamo il tempo di sviluppare), cominciarono a pensare, agendo di conseguenza, che “se sparo per primo e distruggo subito tutte le tue capacità di risposta (i tuoi missili) prima che tu possa accorgertene, io potrei vincere”: la dinamica del “first strike” (primo colpo) vincente!
Ragionarono poi su una escalation dell'impiego delle armi nucleari, creando gli strumenti tattici per il campo di battaglia (da cui derivano le mini-nukes, bombe atomiche miniaturizzate), quelli per i confronti intermedi (ad esempio, i missili Cruise dell'Europa dell'Ovest contro l'Europa dell'Est), e infine gli armamenti strategici per il confronto definitivo e globale.

Un'immagine poco nitida di un momento di confronto tra le forze dell'ordine
e i blocchi pacifisti e antimilitaristi davanti alla base missilistica di Comiso

I missili Cruise di Comiso erano (e sono) appunto “armi di primo colpo” progettati non per una guerra nucleare globale, ma “di teatro”: il “teatro europeo”. Possedevano (e possiedono) un motore che gli permette di volare a bassissima quota e di controllare continuamente la rotta; quindi erano (e sono) di difficile intercettazione da parte dei satelliti o dei sistemi radar basati al suolo. Con questo tipo di armi, colpire per primi senza essere visti dal sistema di allerta avversario diventa tecnicamente possibile!
Per poter sparare senza essere individuati avevano bisogno di “punti di disseminazione” in cui nascondersi: e facevano continue esercitazioni di notte con i loro convogli per raggiungere questi punti. Come quello degli altri punti di resistenza europei, molto più organizzati e numerosi, il minuscolo “Cruisewatching” siciliano, in cui si distinse anche il noto anarchico tolstoiano Turi Vaccaro – in questo momento in carcere a Palermo per avere martellato l'antenna MUOS di Niscemi – fece comunque la sua parte per ostacolare con blocchi nonviolenti queste esercitazioni notturne dei missili trasportati sui camion, scoprendo diversi punti di disseminazione nella Sicilia concepita come “il pagliaio in cui nascondere gli aghi-missili”: ad esempio la già citata Niscemi e Vizzini Scalo.
Ne ho parlato ne La guerra nucleare spiegata a Greta (EMI, 2007): la capacità di individuare le basi-nascondiglio, inseguendo coraggiosamente e artigianalmente (bici e walkie-talkie bastavano per le strette strade di Ragusa e dintorni) i mastodontici convogli nucleari, vanificò la principale caratteristica tecnica del sistema d'arma.
Sono convinto che i Cruise vennero rimossi anche per questa attività antimilitarista e pacifista basata sull'azione diretta.

Alfonso Navarra



Irak/
Alaa Mashzoub, poeta assassinato

È ormai di qualche settimana, eppure ancora nuova, la notizia della morte a Kerbala del poeta iracheno Alaa Mashzoub. È stata una morte innaturale: ucciso in un piccolo vicolo vicino alla sua abitazione, dove stava rientrando con la sua bicicletta dall'assemblea settimanale dell'”Unione degli scrittori di Kerbala”. I sicari non hanno smesso di sparare nemmeno quando è caduto a terra e la bicicletta gli è crollata sul corpo, corpo dove sono stati trovati tredici proiettili. Sono tanti tredici proiettili. Sono tanti se sei un poeta, un contabile o un pugile. Sono tanti anche se sei un cane, un cinghiale o un cervo.
Alaa è nato nel 1968 ed è morto la sera del 2 febbraio 2019: aveva 50 anni. Secondo le aspettative di vita in Iraq, gliene rimanevano 19 da vivere. In Italia l'aspettativa di vita sta arrivando a 84 anni, è cresciuta di cinque anni negli ultimi venti. In Iraq negli ultimi vent'anni è cresciuta di cinque mesi. I motivi sono tanti, per molti di questi e per molti altri ancora si batteva Alaa. Uno ci riguarda: il flaring. In Iraq si pratica fin dall'inizio dello sfruttamento dei giacimenti di petrolio nel secondo dopoguerra. Senza farla troppo lunga diciamo che con l'estrazione del petrolio si estrae anche un gas, in proporzioni di 800m³ di gas per ogni metro cubo di petrolio. Il flaring è la pratica criminale di bruciare questo gas in cielo, producendo un terribile inquinamento dell'aria che ogni giorno Alaa e i suoi concittadini respiravano. Una delle aziende multinazionali che estrae petrolio con questa pratica si chiama Ente Nazionale Idrocarburi, Eni s.p.a.

Il poeta iracheno Alaa Mashzoub

Era poeta, scrittore e giornalista, con venti libri all'attivo e vari premi e riconoscimenti ottenuti. Si era schierato apertamente contro la corruzione negli organi istituzionali del paese, il controllo militare statunitense e le milizie filo-iraniane. Vittima delle sue più recenti critiche era stato l'ayatollah Ruhollah Khomeini, leader della rivoluzione iraniana. Questo il suo ultimo post su Facebook in riferimento proprio a Khomeini: “Ha passato 13 anni in Iraq e poi ha fatto la guerra al paese del suo esilio”, dove riecheggia lo stesso numero dei proiettili sparati su Alaa. Questa è una delle molte teorie che continuano a susseguirsi sulle ragioni e i mandanti del suo omicidio.
Di certo c'è solo che, secondo un rapporto di Al Jazeera, dal 2003 ad oggi sono più di 500 gli scrittori e intellettuali uccisi in Iraq. Alaa è solo un numero, probabilmente non fa nemmeno cifra tonda. Un numero qualsiasi come i 13 proiettili di piombo, i 69 anni di vita che spera di raggiungere un iracheno, i 50 anni spesi a scrivere 20 libri d'amore di morte e di disobbedienza per poi morire di apatia, gli 800m³ di gas che bruciano nei cieli di Kerbala.
Il numero smisurato di pagine che servirebbero a scrivere tutti i nomi degli intellettuali ammazzati come lui, prima di lui: Ken Saro-wiwa, Osip Mandelstam, Nahed Hatta, Leone Ginzburg; solo per citarne alcuni sparpagliati per spazio e per tempo. Fino ad arrivare al numero più inquietante di tutti, l'unico numero reale né positivo né negativo, finché si resta nella matematica: zero, come il numero di articoli che sono stati scritti nei quotidiani e nelle riviste italiane per Alaa Mashzoub.
Nessun media ha ritenuto necessario darne notizia. Nessuno, ma proprio nessuno, si è preoccupato di lamentare la situazione dei diritti umani laggiù, dove “laggiù” non indica l'Iraq, ma è metonimia di ogni distanza.

Fabrizio Sani



Francia/
I gilet gialli: illusione o disillusione?

Il movimento dei gilet gialli in Francia è apparso, quasi all'improvviso, nel novembre dell'anno scorso. Fin dall'inizio sembrava non avere direttrici politiche chiare. Tre mesi dopo, a prescindere dall'azione dei media, che mirano tutti a screditarlo con ogni mezzo, rimane una sola linea davvero comune, che a prima vista sembra essere contraddittoria: la diminuzione delle tasse e il ripristino dei servizi amministrativi e sociali di prossimità.
Eppure il movimento va avanti, nonostante i sindacati non lo seguano, i partiti politici si inalberino, nonostante un vortice di rivendicazioni eterogenee, scaturite dal cuore stesso del movimento. I media dicono che sia composto da monarchici, fascisti, anarchici e estremisti di sinistra... Forse dimenticano che in realtà, per la maggior parte, i suoi membri sono persone che non avevano mai fatto politica prima. Una parte notevole di queste persone sta piano piano perdendo gli strumenti economici, culturali, educativi e tecnologici per poter decidere della propria vita.

Il referendum di iniziativa popolare contro il Grande Dibattito
Il movimento dei gilet gialli ha fatto sorgere l'idea del referendum d'iniziativa popolare (in francese RIC). Secondo i suoi sostenitori si tratta di una rivendicazione molto simile alle «votazioni popolari» organizzate in Svizzera. Il governo ha subito contrattaccato, proponendo quello che definisce il Grande Dibattito e che, da metà gennaio 2019, occupa ormai uno spazio notevole nei media e nelle discussioni politiche. Ebbene, il referendum e il Grande Dibattito hanno almeno un punto in comune: non si interrogano su cos'è la democrazia.
Prima di tutto, il Grande Dibattito vuole permettere «a tutte e a tutti di discutere le questioni essenziali per i francesi» e, per cominciare, sono state nominate cinque personalità, in qualità di «garanti»; la fine del dibattito è stata fissata al 15 marzo e i risultati saranno resi noti ad aprile; infine, sono state annunciate delle garanzie: trasparenza, pluralismo, inclusione, uguaglianza, rispetto della parola, e la più strana di tutte, neutralità. Il dibattito in questione, e per il quale il presidente ha molto maldestramente fissato quattro punti fondamentali (ecologia, fiscalità, democrazia e organizzazione dello Stato), restringendo così il campo delle discussioni possibili, si presenta fin da subito come un semplice esercizio di stile, che deve quindi rimanere «neutro». Forse bisogna dedurre che sono bandite le opinioni estreme. Quindi, lo Stato «dà» la parola perché sa già che non sarà per niente sovversiva. Tra l'altro, i cinque garanti devono controllare che i dibattiti si inscrivano effettivamente in un quadro che va restringendosi ogni giorno un po' di più, sotto l'effetto della copertura mediatica delle violenze durante le manifestazioni settimanali. Lo Stato dà la parola e fa di tutto per limitarla drasticamente – in Francia questo movimento non è nuovo, risale almeno al quinquennio presidenziale 2007-2012.
Il Grande Dibattito non è l'occasione per discutere della legittimità o meno della violenza delle forze dell'ordine e, ancor meno, del rapporto tra legalità e legittimità, che pure è fondamentale per ogni Stato. Anzi, proprio perché è un fondamento dello Stato, non è il caso di rimetterlo in discussione.
Per contrastare il Grande (falso) Dibattito, i gilet gialli nutrono la speranza di poter far cambiare le cose grazie a un referendum che darebbe finalmente la possibilità al popolo di esprimersi. Non parliamo del senso in cui le cose cambierebbero, perché potrebbero andare verso un ordine piuttosto autoritario, ma soffermiamoci piuttosto sul fatto stesso di potersi esprimere.
Esprimersi in politica presuppone avere elementi di base, in modo che la discussione abbia un senso per coloro che vi partecipano. Ebbene, chi parla del ruolo dei tecnocrati, del profitto, del valore etico e culturale degli oggetti che ci vengono dati da consumare, della scelta dello stile di vita che ci viene imposto? Tanto per dare un esempio, in Francia diventa sempre più difficile vivere in campagna, e i gilet gialli criticano, a ragione, la «desertificazione» degli entroterra, la mancanza di trasporti pubblici, di medici, di scuole, e via dicendo. Una discussione sulla vita in ambiente rurale o semi-rurale costringerebbe, però, a prendere in conto, tra l'altro, il capitalismo di mercato, il ruolo dell'urbanizzazione nel sistema capitalista, la capacità di rinunciare ai vantaggi offerti dalle grandi città, e quindi a criticare tutta l'architettura politica, sociale e culturale di questo paese.
Il referendum, insomma, propone di esprimersi su temi superficiali, mentre in questo paese non riflettiamo più, ormai da decenni, ai problemi fondamentali della libertà, dell'autonomia degli individui e delle collettività, ecc. A che cosa serve parlare di superficie, quando la società si sta incancrenendo in profondità?

Malfunzionamento uguale longevità
Sia il referendum sia il Grande Dibattito mettono in luce i malfunzionamenti della Francia, che sono nel mirino anche dei gilet gialli. Ebbene, quei malfunzionamenti sono la miglior strategia del Potere per mantenere il controllo. Potrebbe sembrare una strategia disperata, ma non è così, perché stiamo parlando di uno Stato che abbandona molte delle sue prerogative, cedendole, in particolare, alle Banche e alle Grandi Aziende. Lo Stato, quindi, nella sua continuità, non è mai stato meglio: è sempre meno sociale e sempre più repressivo.
I malfunzionamenti generano la paura di perdere il lavoro, e altre paure più astratte, come la paura dell'altro, per esempio dello «straniero».
I malfunzionamenti sono politici, dipendono dalle istituzioni, dalle aziende, dalle organizzazioni che ci opprimono, ma la generalizzazione all'insieme della società permette al Potere di spostare la lotta su un altro terreno, questa volta apolitico, quello della paura, della psicologia individuale e collettiva. Tutto avviene a livello delle folle dominate dalle informazioni allarmiste fornite dai media... e ritrasmesse dai gilet gialli; le basi del Potere, che è all'origine di quei malfunzionamenti, non sono contestate. Avanziamo verso una lotta per la semplice sopravvivenza, per un lavoro a ogni costo, per uno «status sociale», contro l'altro che «minaccia» il nostro «tenore di vita», ecc.
Quando i malfunzionamenti si allargano a tutto il corpo sociale e nessuno li analizza per quello che sono, ossia una strategia del Potere, allora, vuol dire che i malfunzionamenti... funzionano perfettamente! I Francesi hanno paura del futuro e non sviluppano un'analisi radicale del presente; il Potere può allora dormire sonni tranquilli.
Referendum o Grande Dibattito sono le due facce della stessa bugia liberale e democratica. Questo non significa certo che i gilet gialli siano un movimento senza importanza, ma se vogliamo trasformarlo in autentica contestazione politica, allora la strada è ancora lunga.

Philippe Godard
traduzione di Gaia Cangioli