Rivista Anarchica Online





Pesare le parole

Conosco una quantità di intellettuali. Chissà perché, specie ora, sembra che gli intellettuali in Italia debbano qualificarsi necessariamente come “di sinistra”, e al momento questa espressione attributiva ha il sapore di una commemorazione. Il fatto è, però, che nell'evoluzione della lingua, nulla muore davvero. Tutto, filosoficamente, si trasforma, soprattutto le aree semantiche coperte da certi termini.
Stuart Hall diceva che i linguaggi sono pratiche di significazione, e in quanto tali – aggiungo io – atti politici. Quindi dobbiamo accettare il fatto che essere etichettati come “intellettuali di sinistra” oggi non qualifica una gramsciana attitudine a difendere una equa distribuzione delle ricchezze, la definitiva sconfitta dello sfruttamento e, a latere ma in modo centralissimo, anche una evoluzione della dimensione culturale della comunità. Nel tempo, e attraverso metamorfosi delle quali non credo che tutti si siano resi consapevoli, oggi in Italia l'intellettuale di sinistra viene interpretato come uno snob animato da buoni sentimenti teorici ma avvezzo a una vita comoda, spesso molto comoda, che in conseguenza di questa abitudine si rivela singolarmente incapace di comprendere i veri problemi della vita.
Su questo terreno si sono evidentemente edificate le ideologie di maggiore successo oggi. Probabilmente chiamarle “ideologie” è una sopravvalutazione. L'ideologia, l'ho scritto molte volte, è la giustificazione teorica del potere. Nel tempo, tutti i poteri – specie quelli autoritari, ma non solo – hanno cercato di dotarsi, con l'ausilio di validi pensatori (per quanto distorta potesse essere la loro etica), di un pensiero astratto dalla pratica quotidiana, ma capace di giustificarla. Il pensiero – l'ideologia – supponeva di dover convincere elettori anch'essi dotati di animo semplice ma di comuni strumenti di comprensione e di valutazione del messaggio.
Da questo punto di vista, l'ideologia di oggi non è un'ideologia e non ha nulla a che fare né con la teoria né con la pratica: solo con quella che mia nonna chiamava, dispregiativamente e in modo sano, “caciara”. Essa si sviluppa in modo orizzontale, non contempla la benché minima profondità o articolazione, ed è a tutti gli effetti un insulto alla capacità di pensiero. In altri termini, proponendoci una serie di equazioni elementari tra alterità e criminalità, tra differenza di genere e gerarchia economica, tra militarizzazione dei mari ed esibizione delle abitudini alimentari dei potenti, questa “ideologia” tratta il suo pubblico – e il corpo elettorale in particolare – come fosse irreparabilmente stupido. E il pubblico risponde adeguandosi a questa sollecitazione e, nella maggior parte dei casi, dimostrando insipienza ringhiante.
Ora, siccome le parole hanno un senso, la cultura ne esce riconfigurata. Essa diventa non una flessione del verbo “colere” (coltivare, in pratica e in teoria), ma una esibizione di stupidaggini snob e infondate, che se coltivano qualcosa, lo fanno con strumenti atti a produrre solo il deserto dove prima c'era una florida foresta pluviale. La foresta pluviale è pericolosa perché non ha regole. Si dipana in una ostinata fedeltà alla vita, che come tale è imprevedibile e cangiante. L'imprevedibilità si manifesta solo dove c'è libertà, ed è sana solo dove c'è pensiero.
Se il pensiero non c'è, la vitalità è rissa pericolosa, e morte della consapevolezza, che per definizione è libertaria, individuale e responsabile. Se cerchi la capacità di pensiero nell'atto di addentare un arancino di riso, beh, ogni speranza è perduta.
E noi siamo creature pensanti. Non vogliamo perdere la speranza.
Forse.

Nicoletta Vallorani