Rivista Anarchica Online





Sentirsi a casa, ovunque ci siano radici

intervista a Luisa Cottifogli

“Senza sosta il Rumì cammina da una borgata all'altra, nelle piazze, nelle fiere, nei mercati, sulla soglia della porta di casa biascica la sua orazione mendicando un soldo o un tozzo di pane. Pur tornando sempre le stesse, variano le stagioni e passano come le strade di Rumì sotto le sue scarpe. Un mondo sconfinato di voci che vengono da tempi lontani e che sentiamo così vicine.”
Circa un decennio fa stavo realizzando una raccolta di brani della tradizione popolare italiana per un progetto a sostegno delle lotte degli indigeni del Chiapas. Chiamai quel progetto In Terra Zapatista e feci una cernita di storie e di canti della nostra tradizione che si innestassero nelle vicende del sudest messicano e facessero emergere come, nel giro di pochi decenni, avessimo dilapidato l'eredità delle nostre lotte partigiane-ribelli-resistenti-indigene...
Mi interessava “concettualmente” una voce che, in qualche modo, fosse voz de lo sin voz e, come sempre, nella maniera più naturale la trovai, tra le altre, in Luisa Cottifogli, portatrice sana di “un mondo sconfinato di voci”. Luisa è presente in quella antologia con un brano, La mourro, insieme ai provenzali Marlevar e con Sancta Maria dal suo lavoro Rumì, appunto.

Gerry – Luisa, raccontaci della tua “indigenia”, a dispetto delle tue coordinate anagrafiche “documentate” in diverse terre di provenienza, del tuo pensiero che si fa canto. A quale “voce” hai dovuto dar ascolto per intraprendere il cammino?
Luisa – Mi sento a casa dovunque trovi un po' di radici. Ho sentito forti radici in India, ad esempio, dove sono stata anni fa grazie a una borsa di studio offertami da un giornalista, Niranjan Jhaveri, attivo fra Mumbai e New York. Lui sosteneva che un cantante avrebbe trovato molti stimoli nel modo di improvvisare dei cantanti indiani, e aveva ragione: tornata a casa da quella esperienza ho creato in un mese il mio primo disco tutto di brani original, Aiò Nenè, ispirato alle tante radici che ho. Da allora ho sempre trovato ispirazione nelle tradizioni popolari per scrivere la mia musica.

Quali, invece, i territori (mi verrebbe da definirli altipiani, considerando il tuo passo...) sonori e vocali hai deciso di indagare maggiormente.
Gerardo abbiamo mai fatto un sentiero assieme in montagna io e te? Bisognerà farlo, così giudichi dal vivo il mio passo... scherzi a parte, i territori vocali, timbrici e strumentali che emergono nei miei lavori non sono mai decisi a tavolino. Tutto matura contemporaneamente ai concetti, alle immagini, alle parole. Frequentando l'Accademia d'Arte Drammatica e poi entrando nella compagnia del teatro delle Moline di Bologna ho indagato la voce parlata, per poi scoprire vocalità contemporanee e jazz, sempre con una curiosità verso le culture popolari italiane e di altri paesi. È forse quest'ultimo territorio quello che mi ha dato più spunti, perché la voce umana ha innumerevoli declinazioni a seconda della cultura che la genera e dei suoni delle varie lingue parlate. Ascoltando le vocalità del mondo o solo le diverse tradizioni italiane si ha a disposizione una tavolozza infinita di colori. Da questa tavolozza è bello scegliere ciò che serve per dipingere un concetto musicale, smontandolo, rimontandolo e facendolo proprio. Scoprendo in radici anche lontane le proprie profonde radici.

Luisa Cottifogli

La meravigliosa valle del fiume Santerno

Il canto cosiddetto “sociale” è stato tuo compagno di viaggio, parte fondamentale del cammino e lo hai condiviso con la cantora Giovanna Marini. A proposito di partigianerie e di resistenze di ieri e di oggi, non a caso sei stata protagonista del progetto “Bella Ciao” curato da Riccardo Tesi.
Con Giovanna Marini non ho mai lavorato sul repertorio popolare, ma sono stata chiamata ad interpretare una sua cantata in stile contemporaneo Spesso il male di vivere ho incontrato. Invece Riccardo Tesi mi ha coinvolto in “Bella Ciao” per lavorare accanto a voci popolari bellissime come quelle di Elena Ledda, Lucilla Galeazzi e Ginevra di Marco e accanto a grandi musicisti come Gigi Biolcati, Alessio Lega e Maurizio Geri, anche lui voce che amo molto. È un progetto interessante perché, di grande portata storica, attualizza un messaggio del quale abbiamo molto bisogno anche oggi.

Un mondo sconfinato di voci che vengono da tempi lontani e che sentiamo così vicine.” Per te che arrivi dal “dogmatico” mondo classico al quale solitamente si associa il canto (lirico nel caso specifico) che effetto ha avuto l'utilizzo del tanto “decodificato”, quanto discusso, canto spontaneo? Il canto ancestrale che, in qualche misura, meglio esprime la naturale condizione dell'essere e del proprio stato d'animo?
Non ho mai vissuto in modo dicotomico il rapporto fra voce “colta” e voce naturale. Fin da bambina ho giocato imitando le voci della natura, le voci dei vari cantanti e poi a scuola imitando gli insegnanti. Devo dire che nel periodo dello studio in Conservatorio la sensazione era di claustrofobia, non potendo uscire dall'ambito della vocalità settecento-ottocentesca. Ho sempre però coltivato in contemporanea la passione per il canto polifonico rinascimentale e barocco nel quale si utilizza una vocalità un po' più naturale.

Viviamo in un'era nella quale il canto è una sorta di didascalia al dramma collettivo al quale assistiamo curiosi e inermi. Cosa rappresenta per te il canto, soprattutto quando dà forma ed espressione al tuo pensiero? Perché si sa, “il pensiero dà fastidio”. Che rapporto hai con la tua voce, come vivi il rischio o, chissà, la possibilità di diventare “muta come un pesce”?
Questa domanda cade a fagiolo in un momento nel quale sto lottando per salvare la mia valle – nella zona montana fra le più intatte, la meravigliosa valle del fiume Santerno – da un taglio sconsiderato di alberi per farne cippato e legna da ardere, da un attacco alla biodiversità e agli equilibri naturali in nome del denaro. Concessioni da parte delle regioni a ditte che commerciano legname in cambio della pulizia “gratuita” dell'alveo dei fiumi: pare sia un'usanza ormai diffusa dovunque in Italia. Questa lotta mi ha tolto energie e anche materialmente la voce, come se avessi urlato troppo forte, come se avessero tolto voce a tutto ciò che non può difendersi e che invece dovrebbe essere fortemente tutelato dall'essere umano come il patrimonio più importante: la terra sulla quale camminiamo come ospiti e non come padroni.

L'inverno, stagione della meditazione

Per parlare del tuo ultimo lavoro, Come un albero d'inverno ho estrapolato e decontestualizzato da La solitudine di Pier Paolo Pasolini alcuni passaggi: “Bisogna essere molto forti per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare raffreddore, influenza e mal di gola (...) se tocca camminare per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c'è; specie d'inverno; col vento che tira sull'erba bagnata, e coi pietroni tra l'immondizia umidi e fangosi.” Mi ha impressionato il tuo agire nomade e stanziale in questo lavoro, con il quale lasci profonde impronte sull'eterna e inguaribile dualità e sull'incapacità di viversi il circostante. Come nasce questo progetto?
Mi sono addentrata nel freddo, nei ghiacci, salendo in montagna e verso nord. Le voci che sono andata a cercare sono quelle alpine degli Armonici Cantori Solandri (Val di Sole) e del coro alpino della CeT di Milano. Quelle femminili dell'ensemble gregoriano “Mediae Aetatis Sodalicium”. Il vocalist Oskar Boldre ha reso con la voce le percussioni, utilizzando poi anche tecniche difoniche per aumentare la suggestione timbrica del tutto. Quindi mi sono ispirata al ghiaccio del permafrost per far “scricchiolare” la voce fino a viaggiare idealmente fra i suoni gutturali degli Inuit o le timbriche strumentali da “Tetto del Mondo”. Nei brani più tradizionalmente in forma canzone ho invece fatto aderire la voce alle parole, in modo che fosse il testo a cantare.

Quali sono le storie e le voci che hai raccolto e cantato per raffigurare meglio il tempo sospeso dell'inverno nel quale, da una sorta di immutabile sterilità, emerge un tempo gravido di vita? Di quali paesaggi sonori ti sei servita e quali i compagni di viaggio scelti per rimpiangere le foglie perdute e per non farti ghiacciare il cuore?
La montagna che descrivo in Come un albero d'inverno è reale e metaforica allo stesso tempo. E l'inverno in cui viene vista è la stagione della meditazione, del ritiro, del silenzio, della pausa nel cammino, del depositarsi dei pensieri che si ricompongono in poesia, è la stagione della morte apparente di piante e animali che vanno in letargo, per poi rinascere a primavera. La stagione nella quale il terreno sembra dimenticarsi di tutte le erbe che a primavera spuntano d'improvviso, esibendosi in fiorite diverse ogni settimana, cambiando continuamente il colore del mio orto, un orto anarchico dove ospito tutte le erbe selvatiche e officinali che scelgono di accasarsi spontaneamente. Proprio i medicamenti di cui ho bisogno.
D'inverno tutto si ritira, il ghiaccio immobilizza, irrigidisce il movimento, come nella morte. Sia nel mio lavoro dedicato al Rumì, viandante della bassa romagnola, sia in Come un albero d'inverno, vi sono paesaggi addormentati sotto la neve.
Le musiche di questo lavoro sono nate principalmente nella stagione invernale, ascoltando il disco di Sting If on a winter's night, i canti alpini della SAT e del coro CeT e leggendo le storie di padre Enzo Bianchi (Ogni cosa alla sua stagione), Mario Rigoni Stern, Mauro Corona, Walter Bonatti, le leggende dei Monti Pallidi, la commovente testimonianza dei diari di Pedrotti sulla deportazione in Austria degli abitanti di Trento nel 1915. Le storie scritte e quelle ascoltate dal vivo si sono fuse a quelle sentite sugli Appennini dove abito, nelle narrazioni e nei pensieri dei miei amici ottanta-novantenni. E durante le lunghe camminate attorno a casa ho scattato, negli anni delle grandi nevicate, le foto che appaiono all'interno del disco.
L'immagine di copertina del disco Come un albero d'inverno ritrae una magnifica grande quercia secolare sopravvissuta alle guerre e specialmente all'ultima mondiale che dalle nostre parti, sulla linea gotica, ha distrutto uomini e paesi. In quella foto io sono un puntino azzurro nella neve, perché è così che mi sento quando sono nella natura: in un perfetto equilibrio dove il mio essere ha la stessa importanza di un filo d'erba. Così come dovrebbe sentirsi ogni essere umano verso la terra che lo ospita.
L'albero ha profonde radici nella terra e fronde verso il cielo, per questo in maniera ancestrale è da sempre simbolo dell'uomo, la vita del quale è eterno dialogo fra inferno e paradiso: nel caso della montagna fra l'inferno delle miniere e della guerra e il paradiso delle vette. Dalle cime è possibile scorgere il mondo secondo un'altra prospettiva, e da qui nasce la filosofia di chi arrampica e fa dell'alpinismo il proprio scopo di vita. Questo lavoro è dedicato a mio padre, piccolo grande uomo che mi ha iniziato alla montagna e anche al canto Â’armonizzato' attraverso i brani alpini, e al grande piccolo alpinista Cesarino Fava, che ho conosciuto in un mio periodo di crisi, durante un ultimo dell'anno a Malè. Lui allora mi confidò: “Guarda, ho provato anche io i dolori d'amore, ma ti posso assicurare che la cosa peggiore nella mia vita è stata perdere le falangi dei piedi!” E in effetti questo allora mi risvegliò dal torpore: io potevo ancora camminare, ero libera di salire qualsiasi cima grazie ai miei piedi, ma anche grazie alla mia voce e alla mia musica.

Il verso di una cincia

Rumì che vive randagio e ramingo e che biascica un'orazione per un tozzo di pane” è una nitida metafora della tua viandanza sui sentieri della ricerca e della espressività, in continuo movimento tra progetti che si riversano nel teatro, nelle sperimentazioni sonore, nel tuo personale rapporto con la natura. Tra l'altro citi in qualche occasione il tuo orto-giardino anarchico.
Sempre lassù in montagna ho incontrato Eulalia Panizza, guaritrice depositaria di antichi metodi di cura popolari e profonda conoscitrice delle erbe curative, studiosa appassionata ispirata dal lavoro del Mattioli, medico fitoterapeuta che nel XVI secolo stilò un trattato che influenzò tutta la fitoterapia popolare trentina. Grazie a lei ho iniziato l'appassionante percorso di conoscenza delle erbe officinali, fra usanze popolari e studio dei principi attivi, oggi conosciuti scientificamente e anticamente intuiti dai guaritori.

Riprendo Pasolini: “Non c'è proprio nessun conforto, su ciò non c'è dubbio, oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte senza doveri o limiti di qualsiasi genere (...) non c'è cena o pranzo o soddisfazione del mondo, che valga una camminata senza fine per le strade povere dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.” Luisa, Rumì, Cottifogli per le sue camminate senza fine usa scarpe la cui suola è deforme da passo anarchico. E “l'albero d'inverno che non vive ma non muore” è radicalmente anarchico. Con quale verso aspetteresti la primavera dopo questa chiacchiera.
Il verso di una cincia che si ripara fra i rami e vi trova appesi gli ultimi frutti invernali.

Grazie Luisa, per essere silenzio ai rumori di fondo che ci avvelenano, antidoto al grande freddo sociale e umano che stiamo vivendo. E che la coltre bianca e soffice tenga vivo il seme della bellezza.

Contatti
https://www.luisacottifogli.com/
https://www.facebook.com/LuisaCottifoglimusic/

Gerry Ferrara