Rivista Anarchica Online


carcere

Il significato della detenzione

di Elisa Mauri

Dinamiche di potere, negazione dell'autonomia, assenza di spazio.
Vivere all'interno di un'istituzione totale lascia segni indelebili sulla psicologia delle persone. Il racconto di un'operatrice.


Vorrei riuscire ad andare oltre la definizione del dizionario, mi piacerebbe riuscire ad entrare nel quotidiano e nell'intima trasformazione del sé che ha luogo nel carcere. Nello specifico, vorrei parlare del potere che questa istituzione totale esercita sul singolo.
Ma che cos'è un'istituzione totale e come impatta questo tipo di organizzazione sociale sul sé dell'individuo?
Il sociologo Erving Goffman la definisce come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato.
Goffman trascorse un anno di lavoro, condividendo la quotidianità con gli internati, nell'ospedale di St. Elizabeths a Washington D.C. con l'obiettivo di conoscere il mondo sociale dell'internato e il vissuto personale relativo alla propria condizione. In Asylums egli descrive il funzionamento dell'istituzione totale e le diverse ripercussioni che questo ha sulla psicologia dell'internato.
Utilizzo questo testo come guida per riconoscere gli stessi meccanismi all'interno dell'istituzione totale carcere.

Mortificazioni, regole e privilegi

Ogni persona che entra all'interno di un'istituzione totale segue un processo di spoliazione che ha come obiettivo quello di indebolire la relazione che il soggetto ha con il proprio sé, ossia con la parte più autentica e rappresentativa di se stesso. Questo processo si esplica attraverso una serie di mortificazioni a cui l'individuo viene continuamente esposto all'interno del contesto detentivo. Le prime, inevitabilmente, sono: la cosiddetta esposizione contaminante, ossia il dover condividere i propri spazi con persone sconosciute e con cui è necessario impostare una convivenza; il ritiro dal proprio contesto relazionale e di vita; il sistema di regole e privilegi che amministrano la vita interna dell'istituzione.
Una delle umiliazioni più forti che descrive Goffman è la violazione dell'autonomia dell'azione dell'internato, che lo pone in una condizione passiva e regressiva – profondamente inusuale per un individuo adulto: in una sezione chiusa, un detenuto per poter uscire dalla sua cella deve chiedere il permesso, deve aspettare che qualcuno gli apra e che lo scorti fuori nel lungo corridoio della sezione. Chiedere in carcere non è semplice e ci sono, sostanzialmente, due modi per farlo: scritto o a voce; il primo è un metodo vecchio come l'Istituzione carceraria e consiste nel compilare una domandina – un foglio di carta intestata in cui il detenuto esprime la sua richiesta; il secondo è più immediato: il detenuto comincia a urlare da dietro le sbarre della sua cella quello di cui ha bisogno – una visita medica, l'ora d'aria, l'intervento di un agente per gestire qualche situazione con i concellini.
Un'ulteriore umiliazione può essere perpetrata nel momento in cui queste richieste restino inascoltate: i fogli delle domandine si perdono, non arrivano o arrivano dopo mesi, e le voci si perdono nei lunghi corridoi delle sezioni tra rumori di blindi e carrelli.
Le istituzioni totali – scrive Goffman – spezzano o violentano proprio quei fatti che, nella società civile, hanno il compito di testimoniare, a colui che agisce e a coloro di fronte ai quali si svolge l'azione, che egli ha un potere sul suo mondo – che si tratta cioè di una persona che gode di autodeterminazione, autonomia e libertà d'azione adulte.
Entrare in carcere e diventare parte del sistema formalmente amministrato dell'istituzione totale costituisce un'esperienza identitaria molto forte: “io non sono cattivo, ho sbagliato ma non sono una persona cattiva, io non sono spazzatura”. Le persone ti guardano sconvolte e ti chiedono di restituirgli uno sguardo buono che riesca a vedere anche altro oltre al reato commesso: una sfida quotidiana questa che non tutti gli operatori sono in grado di sostenere.
La detenzione costruisce una definizione identitaria che chiude e riduce l'individuo al suo gesto deviante: il detenuto è il suo reato e il crimine rappresenta la motivazione formale che giustifica sia la sua presenza in carcere sia la perdita di alcuni suoi diritti e privilegi, primo tra tutti quello di fare parte della società libera.
L'isolamento e la scarsità di strumenti a cui i detenuti sono condannati determinano la loro condizione di impotenza personale nelle istituzioni totali, gli impediscono cioè la possibilità di autodeterminarsi e quindi di ricostruirsi un Sé. Penso ai detenuti condannati all'ergastolo ostativo, al cosiddetto carcere duro perché preclude loro l'accesso a una serie di benefici che sono invece garantiti ai “detenuti comuni”. Ricordo il volto di un signore piuttosto anziano, che avrà avuto all'incirca una settantina d'anni, detenuto ininterrottamente per quasi metà della sua esistenza che si domandava quale senso potesse ancora dare alla sua storia, quale nuova prospettiva gli era ancora concesso costruire con un'aspettativa di vita di circa una decina d'anni e un fine pena fissato per il 31/12/9999. Avevo incontrato quest'uomo, nel carcere di Opera, alla presentazione del libro Fine pena ora, scritto dal Giudice Elvio Fassone, che narra della corrispondenza epistolare tra l'autore e Salvatore, detenuto condannato all'ergastolo ostativo proprio da Fassone stesso.
In quell'occasione, il Giudice sentenziò che l'ergastolo è l'uccisione della speranza che è poco meno dell'uccisione materiale di un individuo: il suo libro prende l'avvio da una lettera scritta da Salvatore in cui lo informa di aver tentato il suicidio: non c'era più niente da sperare, si era appeso una corda al collo, voleva farla finita.
In Italia, i suicidi nelle carceri sono venti volte superiori rispetto a quelli registrati nell'intera popolazione: una persona detenuta su 1.000 si toglie la vita a fronte di una persona libera su 20.000. Questo dato deve dirci che le condizioni materiali di vita di una persona influiscono sulla sua salute mentale e persino sul suo desiderio di continuare a vivere.
“Quali risorse potrebbero darci le istituzioni per mettere il nostro potere al servizio della comunità?” chiede Mario, anche lui detenuto lungo-espiante nel carcere di Opera, rivolgendosi al Comandante degli agenti di Polizia Penitenziaria durante la presentazione del libro “che non ci sono poteri buoni”, dedicato al pensiero di Fabrizio De André.
Ecco questo interrogativo contiene il germe della rivoluzione del sistema giuridico e penitenziario, quella rivoluzione copernicana che tanti, operatori e detenuti, contribuiscono a strutturare nel quotidiano attraverso il loro specifico: il passaggio da una pena retributiva, che restituisce al male altro male, a una concezione riparativa nella quale il reo è uno dei soggettivi attivi e promotori del cambiamento – insieme alla vittima e alla società civile.
L'articolo 27 della Costituzione recita: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Innanzitutto, dovremmo chiederci se il processo di deindividuazione messo in atto dall'istituzione totale sia un trattamento contrario al senso di umanità. Inoltre, bisognerebbe risottolineare quel dovere costituzionale della pena di tendere alla rieducazione del condannato: come è possibile costruire una nuova immagine di sé all'interno di un contesto deprivato relazionalmente, che ti rimanda quotidianamente che sei evidentemente inabile – visto che hai commesso reato – alla vita di comunità e alla gestione della tua libertà? Come è possibile provare ad essere una persona diversa senza avere gli strumenti per poterlo fare, per potersi sperimentare in contesti differenti? È necessario restituire la soggettività ai detenuti, il che significa restituire loro la possibilità – e quindi il potere – di costruire il loro cambiamento e di chiedere le risorse adeguate per poterlo fare: è necessario fornire strumenti e concrete opportunità di vita.
Ma prima di fare tutto questo dovremmo essere convinti che un uomo non è mai tutto in un gesto: il reo non è solo il suo reato, ma un individuo – responsabile dell'errore commesso – con delle risorse che possono essere messe al servizio del bene comune.

Elisa Mauri