Rivista Anarchica Online





Zona letteraria/
Poco pane, qualche rosa

È uscito il primo numero di Zona Letteraria – Studi e prove di letteratura sociale, nuova rivista diretta dal nostro collaboratore e caro amico Giuseppe Ciarallo. Gli abbiamo dato tremila battute per presentarla.

Se è vero, come ebbe a dire un grigio ministro dell'economia (capitalistica), che “con la cultura non si mangia”, è altrettanto innegabile che per sua natura l'essere umano necessita, per sopravvivere, delle rose oltre che del pane. Ed è in ossequio a questo incontrovertibile principio che un già rodato collettivo redazionale e una giovane casa editrice battagliera hanno unito le loro forze per creare una rivista come “Zona Letteraria – Studi e prove di letteratura sociale”.
Questo semestrale si è posto l'obiettivo di diventare – nell'ambito di una sinistra sfilacciata – strumento capace di stimolare una riflessione sui grandi temi sociali, culturali e politici, partendo dallo specifico letterario e individuando di volta in volta particolari tematiche da analizzare. Nel numero d'esordio abbiamo deciso di trattare lo spinoso argomento della vergognosa e inumana guerra che i governi dell'opulento occidente, e non solo, hanno dichiarato ai poveri anziché alla povertà. Una guerra all'insegna del “take no prisoners”, nella quale gli ultimi sono le vittime sacrificali predestinate, su cui riversare odio e indifferenza, nonché fastidio. Ma soprattutto ci siamo chiesti quale sia stato il big bang che ha fatto sì che intere società diventassero fredde, insensibili ed egoiste, quale sia stato il percorso che ha portato generazioni di migranti a dimenticare il proprio passato, il dovere dell'accoglienza, la solidarietà verso il debole e il bisognoso, la ricchezza del dono, scivolando rovinosamente nell'abisso dell'aridità relazionale.
In un tentativo di risposta a tali domande, all'interno di questo “numero uno” si parla della grande crisi del '29 in Furore di Steinbeck, delle “villas miserias” argentine, dei messicani poveri e del loro tentativo di varcare il confine con gli Stati Uniti, del cinema di Ken Loach, sempre molto attento alle sorti del proletariato inglese, di criminalizzazione dei Rom, del pauperismo in Valdo e in San Francesco, di Goffredo Parise e di decrescita felice, della tecnologia applicata alla repressione della povertà a Singapore, di Woody Guthrie e di musica popolare e di protesta negli USA, di come la pittura ha nel tempo raffigurato gli ultimi, di Arte e povertà, e poi ancora di Italo Calvino, di Beppe Fenoglio e dei suoi contadini, della Cina dello scrittore Yu Hua, di Valerio Evangelisti, di Anthony Cartwright e del suo romanzo sulla Brexit, di John Berger e del suo Il settimo uomo, e ancora, di Lucio Dalla, di Gianmaria Testa, di Loriano Macchiavelli, di Maurizio Bovarini e persino di Superciuk, l'antieroe dei fumetti, che rubava ai poveri per donare ai ricchi. Senza dimenticare, nella rubrica Riflessioni, il rapporto tra “fame” e “potere” narrato in chiave psicanalitica.
Queste, in sintesi, le nostre rose.

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Giuseppe Ciarallo


Un secolo fa in Argentina/
Storie d'amore e d'anarchia

“Eroe o criminale? Rivoluzionario o assassino? L'uno e l'altro certo. Eppure non riesco davvero ad andare a fondo [...] Le vite delle persone non si costruiscono con i se. I se, piuttosto, servono a noi. Se solo Severino non avesse sostituito le parole col tritolo, l'ansia di giustizia con una rabbia feroce, l'attesa di una nuova alba di umanità con la voglia di far sprofondare tutto nella notte della vendetta... se solo... se solo... Ragionamento che lascia il tempo che trova...”.
Sono stralci significativi delle riflessioni che Tito Barbini, alla fine del libro Severino e América. Storia d'amore e d'anarchia nella Buenos Aires del primo Novecento (Mauro Pagliai Editore, Firenze 2018, pp. 172, € 15,00) dedica al protagonista principale di una storia maledetta e fascinosa.
La bibliografia su Severino Di Giovanni (1901-1931), anarchico e “idealista della violenza”, si è ormai fatta consistente ed ha costruito e alimentato, nel tempo, il mito di un vero personaggio da fiction. L'opera di Osvaldo Bayer, prima di tutte, ha reso viva questa storia d'emigrazione, che è stata insieme saga familiare e paradigma di una lotta politica estrema.
Teatro dei fatti la turbolenta Argentina di un secolo fa, dove erano in atto mobilitazioni popolari di protesta pro Sacco e Vanzetti e dove l'antifascismo in esilio, mordendo il freno, meditava il riscatto per l'Italia. L'impatto sociale dello scontro di massa ingaggiato con la classe dirigente del paese sudamericano fu forte, sorretto da una vivace potente presenza delle organizzazioni libertarie e anarchiche, che all'epoca editavano una gran mole di stampa, insieme ad un importante giornale quotidiano. Il passaggio cruciale da un regime democratico alla dittatura militare, nel 1930, rese, se possibile, ancora più tragici e sanguinosi gli esiti di una guerriglia sociale ormai divenuta aperta e senza quartiere. Tutto questo mentre il “film” calava, con mestizia, il sipario sulla fucilazione del protagonista... Sulla opportunità del ricorso alla violenza politica e alle azioni terroristiche il contrasto nel movimento fu aspro, la discussione molto articolata. Per Errico Malatesta: “Noi dobbiamo ricordarci che la violenza, necessaria purtroppo per resistere alla violenza, non serve per edificare niente di buono: che essa è la nemica naturale della libertà, la genitrice della tirannia e che perciò deve essere contenuta nei limiti della più stretta necessità.” («Umanità Nova», 14 ottobre 1922).
Barbini, prolifico scrittore di viaggi, ha interpretato quel dramma epocale vissuto dal popolo argentino cogliendo il fil rouge di un “romanzo di sentimenti”, guardando cioè “in un'altra direzione”, raccontando la storia travolgente e totale di due amanti – Severino e América –, con un libro che, prima di tutto, si interroga sull'amore e sui suoi misteriosi intrecci con la passione politica. La trama si dipana in momenti intensi, poetici e struggenti: “come un tango”, dice l'autore. Lavori come questo ci ricordano che qualcosa sta davvero cambiando (in meglio) nei modi di raccontare la storia e le storie; e che ciò si deve alla sempre maggiore integrazione dei registri narrativi fra ricercatori e scrittori. Le emozioni, il racconto in soggettiva, l'utilizzo scientifico di fonti di repertorio per la ricostruzione del “verosimile”, il sopralluogo come metodo, ecc. sono solo alcuni degli strumenti possibili atti a rinnovare l'intero impianto metodologico della storiografia, a dare davvero visuali “altre” sul Novecento. Se dovessimo, come si usa fare, rendere riconoscibile alle ricerche bibliografiche questo libro e quindi assegnargli tag o keyword che dir si voglia, a quelle, forse un po' scontate, di Amore e Anarchia se ne potrebbe aggiungere un'altra: Geografia.
“Non fosse per il sorriso di América. Per la sua vita dopo. Mi sono più volte chiesto se questa storia c'entri con il fatto che scrivo di viaggi. Certo che sì. La geografia conta in questa storia. Anche se piuttosto parlerei di geografia della mente. Di geografia della libertà. Come quel geografo anarchico, Eliseo Reclus, per stampare le cui opere Severino svaligiava le banche...” (p. 146).
In un'epoca in cui la dimensione politica sembra ormai sostituita dalla governance e la geografia rimpiazzata dalle connessioni, si potrà ben capire l'importanza di riconoscere i topoi, ossia i “luoghi” dove materialmente si sono svolti i fatti che si vogliono rievocare, alla ricerca delle anime perdute che da lì sono passate, per respirare quella stessa aria e provare a incrociare quegli stessi pensieri.
L'autore, pur non avvezzo a scrivere di cose anarchiche, si è comunque avvicinato all'argomento in punta di piedi, con il dovuto rispetto. Lo stereotipo dell'anarchico tutto bombe e disorganizzazione, storicamente inconsistente, non ha così preso le forme consuete della narrazione mainstream. Il movimento anarchico, sebbene attraversato dalle correnti cosiddette violentiste/illegaliste e perfino dal banditismo sociale, mantiene un posto d'onore nella storia del movimento operaio e, più in generale, in quella nella lotta ad ogni tirannia. Come movimento antitotalitario che ha subito la “doppia” tragica sconfitta nella Spagna del 1936-'37, gli anarchici, passati dal protagonismo alla testimonianza, hanno poi continuato, nonostante tutto, a rappresentare una speranza di riscatto umano e sociale – proprio per le loro “esagerate idee di libertà” – ed un punto di riferimento essenziale nel corpus teorico del pensiero radicale contemporaneo.
Per la curiosità dei lettori: l'autore di Severino e América ha calcato a lungo il proscenio della politica locale e non solo: sindaco di Cortona, presidente della provincia di Arezzo, assessore nella Regione Toscana, membro del Comitato centrale del PCI, è stato amico personale di Mitterrand. Nel 2016 pubblicava un altro bel libro intitolato Quell'idea che ci era sembrata così bella (Aska), “viaggio a ritroso, dietro ai fallimenti e alle delusioni della grande utopia comunista”.

Giorgio Sacchetti



Sicilia/
Quel carcere a chiocciola ad Alcàra Li Fusi

Roberto Fregna, in un suo recente e prezioso volumetto, ispirato all'opera e al lavoro artistico di Vincenzo Consolo, parla della lingua letteraria dello scrittore siciliano “che rompe il codice linguistico comune per rappresentare la società che include le periferie lontane di emigrazione storica, di emarginazione e di povertà, dove vi sono donne e uomini senza terra, piegati da fatiche immani, zappatori a dissodare campi pietrosi o cavatori in miniere di zolfo o di pomice destinati a morire del morbo di San Biagio”. Poi, con un procedere per immagini divaganti e a spirali, Fregna fa cenno ad un racconto di Consolo sull'incontro tra Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano (uno dei più grandi poeti siciliani del ’600), in un carcere di Algeri, proseguendo con l'annotare informazioni su un altro carcere, quello di Sant'Agata di Militello, il paese natio di Consolo, costruito a mo' di chiocciola nei primi decenni del ’600.
Ragionando sulla chiocciola – e sulla sua forma difficile da rappresentare geometricamente, quindi sulla geometria che è scienza stratta e rimanda a spazi e punti che sono rappresentati in un non luogo, quindi in un'utopica realtà – Fregna richiama la Città del Sole di Tommaso Campanella, che era di Stilo, paese della punta estrema della Calabria, non lontano da Sant'Agata di Militello, cittadina prossima allo stretto di Messina e dove Campanella con i suoi discorsi aveva ispirato la “Rivolta delle Calabrie” del 1599, muovendo i poveri contro i potenti, in un assalto che risultò fallimentare ma che voleva abbattere la loro “tirannide”, i loro “sofismi” e le loro “ipocrisie”.
Lo stesso assalto al potere che animò i contadini siciliani nel 1860, raccontato nel romanzo di Consolo Il sorriso dell'ignoto marinaio, dal quale Fregna riprende il tema della delusione popolare e contadina seguita alla spedizione garibaldina in Sicilia, che tante attese aveva suscitato e tanti fuochi rivoluzionari aveva acceso, tutti spenti dalla repressione delle forze dell'ordine e dell'apparato giudiziario del nuovo Regno dell'Italia unita.
Così, ne L'utopia della rivolta di Alcàra Li Fusi. Raccontata da Michele Fano Sanfratellano che da monaco si fece zappatore (Ogni uomo è tutti gli uomini Edizioni, Bologna 2018, pp. 42, € 9,50), Fregna riporta le scritte sulle mura delle celle degli insorti alcaresi nel carcere della vicina Sant'agata di Militello, e ridà voce alla rabbia e alle ragioni dei contadini siciliani, ben palesate nelle aspre e accese parole di Michele Fano di San Fratello, paese d'antica storia e di millenarie e arcaiche tradizioni, immerso nei boschi e nelle montagne dei Nebrodi, non lontano da Alcàra Li Fusi e da Sant'Agata di Militello. E riporta, Fregna, tra le altre, la scritta ultima e disperata di Fano, questa, nella traduzione dal siciliano di Consolo: “Questa è la storia vera/di Alcàra/maggio e giugno dell'anno sessanta/raccontata dalla gente che la fece/scritta con il carbone sopra la pietra/da Michele Fano Sanfratellano/che da monaco si fece zappatore/se entri dentro questo pozzo torto/sappi come accadde e restatene zitto/dì uscendo che la prossima volta/il popolo incazzato di Alcàra/di Bronte Tusa oppure Caronia/non lascia sopra la faccia di questa terra/neppure la semenza di sorci e notabili/cantò la civetta e il gufo e il corvo/uniti tutti e tre un giorno cantarono/...lupare e coltello/morte a tutti i ricchi/il povero esclama/al fondo di tanto abisso/terra pane/l'origine è là/fame senza fine/di/libertà”.

Silvestro Livolsi



I GAAP, 2° volume/
Storia di un'eresia anarchica

Introducendo i lavori della VII Conferenza nazionale, convocata a Genova per il 28 aprile 1956, della Federazione Comunista Libertaria, nuova denominazione assunta dai Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP), il relatore, consapevole che quella sarebbe stata l'ultima assise del gruppo che aveva deciso di sciogliersi e confluire nel nascente Movimento della Sinistra Comunista, riassunse succintamente le tappe del loro percorso politico e organizzativo. L'organizzazione era sorta con l'intenzione di rinnovare il movimento anarchico in Italia, di portare un contributo alla rinascita di un movimento operaio rivoluzionario.
Inizialmente questo nucleo di compagni aveva lavorato all'interno dell'organizzazione anarchica esistente, la Federazione Anarchica Italiana, ricostituitasi nell'immediato dopoguerra. Ben presto però, resisi conto della confusione politica e ideologica esistente nella Federazione anarchica, s'indirizzarono verso la definizione e l'organizzazione un gruppo autonomo, con una propria fisionomia, in polemica ma sempre all'interno della Federazione; iniziarono a pubblicare il giornale L'Impulso, per poi procedere alla costituzione dei Gruppi Anarchici d'Azione Proletaria nel 1951. Ancora era presente il tentativo di rinnovare e potenziare il movimento anarchico italiano, di cui si sentivano parte. Fallito questo proposito, negli anni seguenti aprirono il confronto con altri gruppi politici minoritari di osservanza bordighista e trotskista, forti del fatto che alcuni obiettivi erano stati conseguiti: nel lavoro di critica, connesso alla polemica con gli anarchici, si era rafforzata l'analisi teorica e storica; nel lavoro politico e organizzativo si era formato un nucleo di militanti qualificati; avevano impiantato un'organizzazione con un suo giornale, con rapporti all'esterno e una vita democratica all'interno.
Era, secondo loro, il coronamento positivo della riscoperta dell'organizzazione libertaria in polemica col “vecchio” individualismo anarchico, fatta attraverso una rilettura di Malatesta, Fabbri, Berneri e poi Gramsci e, sul piano internazionale, della CNT, della FAI della guerra civile spagnola e Rosa Luxemburg. Tutto sembrava conciliarsi: l'orientamento rivoluzionario, l'antifascismo e la lotta partigiana, la battaglia antistalinista, la rifondazione di un comunismo libertario e consiliarista, a partire dal riconoscimento del fallimento delle esperienze socialdemocratiche, bolsceviche e anarchiche passate, per formare un movimento di classe nuovo e un'organizzazione che non fosse la riproposizione del partito tradizionale della classe operaia, ma qualcosa di superiore, di “inedito”.
Una parte di questo “pezzo” di storia dei GAAP è stato oggetto di estrema attenzione e narrazione nel primo volume uscito l'anno scorso a cura di Franco Bertolucci (Gruppi anarchici d'azione proletaria. Le idee, i militanti, vol. 1, Dal Fronte popolare alla «legge truffa»: la crisi politica e organizzativa dell'anarchismo, Bfs-Pantarei, 2017). Lavoro che è proseguito con questo secondo volume, sempre curato da Franco Bertolucci (Gruppi anarchici d'azione proletaria. Le idee, i militanti, l'organizzazione. Vol. 2 Dalla rivolta di Berlino all'insurrezione di Budapest: dall'organizzazione libertaria al partito di classe, a cura di Franco Bertolucci, Bfs-Pantarei, Pisa-Milano 2018, pp. 784. € 40,00). Entrambi i volumi, e il terzo promesso che seguirà, sono il frutto di un impegno preso dal curatore nel 1998 con uno dei principali protagonisti di quest'esperienza, Pier Carlo Masini (1923 -1998), quando donò alla Biblioteca Serantini l'archivio politico dei GAAP e le sue carte personali. Pier Carlo Masini espresse l'intenzione che dieci anni dopo la sua scomparsa quei materiali fossero riordinati e resi disponibili per le attività di studio e di ricostruzione storica.
Impegno ampiamente rispettato, grazie a quasi vent'anni di lavoro. Difatti i due volumi contengono in appendice una voluminosa documentazione di materiali di vario genere oggi facilmente consultabili. In questo secondo volume la documentazione spazia dalle conferenze nazionali dei GAAP e dell'Internazionale comunista libertaria, alle circolari di orientamento politico e organizzative stilate dal comitato nazionale, a saggi storici e teorici e articoli tratti dal giornale L'Impulso.
Staccatisi dall'area anarchica tradizionale, i GAAP si diedero per scopo politico quello di inserirsi nel perimetro del dissenso a sinistra dei partiti parlamentari, ritenevano di poter incidere nello scontro politico e ideologico al fine di costruire qualcosa di nuovo che non fosse l'ennesimo piccolo gruppo settario tutto proiettato su se stesso. Prioritario diventava lavorare per una nuova organizzazione politica in grado di sconfiggere l'egemonia del partito comunista, spezzare la sua alleanza col partito socialista al quale riconoscevano l'originalità di un percorso indipendente, diverso da quello delle socialdemocrazie europee. In questo senso, seppure in una dimensione forse più piccola di quella prevista e/o voluta, qualcosa si mosse a partire dal 1955, quando una forma di dissenso si palesò dentro il partito di Togliatti con la corrente che si denominò Azione comunista. Nella lunga introduzione alle carte, il curatore ricostruisce con dovizia e pazienza il contesto storico e sociale di quel periodo, all'interno del quale inserisce le analisi e le scelte operate dai comunisti libertari. Restituisce così al lettore il clima di quegli anni, la vivacità del dibattito politico alla sinistra dei partiti istituzionali del movimento operaio, portando alla luce esperienze di lotta e correnti politiche trascurate o cancellate da certa storiografia, tutta tesa a fare la storia dei partiti maggiori, in particolare di quello comunista.
Quando gli esponenti di Azione comunista decisero di uscire allo scoperto pubblicando il periodico omonimo, furono espulsi dal partito. Questo accadeva nel giugno 1956, in concomitanza con la diffusione del rapporto segreto di Krusciov nel mondo occidentale. Pochi mesi dopo vennero i fatti di Polonia e la rivoluzione ungherese, duramente repressa dall'intervento delle truppe sovietiche. Fu in quel contesto che, - anche per impulso dei dirigenti della Federazione Comunista Libertaria, nuovo nome assunto dai GAAP - si presero o ripresero contatti con forze politiche del dissenso a sinistra, come dimostra nel libro il continuo riferimento allo scambio di lettere tra esponenti di Azione comunista, dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari, la sezione italiana della Quarta Internazionale e il Partito Comunista Internazionalista (Battaglia comunista).
Sull'onda della crisi di una parte della sinistra tradizionale, indotta dagli eventi, queste quattro organizzazioni decisero di costituire un organismo di confronto: il Movimento della Sinistra Comunista. Si trattò di un accordo abbastanza generico, né poteva essere diversamente data la persistenza di analisi e impostazioni di lavoro politico e sindacale non omogenee, che si sperava però di superare attraverso un confronto prolungato nel tempo. Non fu così semplice. Quelli della Quarta Internazionale sollevarono la questione della natura sociale dell'Urss, stato operaio degenerato, mentre per gli altri era un paese capitalista e imperialista quanto gli Stati Uniti; poi del sindacato: aderire alla Cgil? Votare nelle elezioni per le Commissioni Interne per i loro esponenti di categoria? Partecipare o meno alle elezioni politiche e amministrative? E che indicazione di voto dare? Su quest'ultimo punto, già per le elezioni del marzo 1956, i comunisti libertari avevano per così dire rotto un tabù.
La parola d'ordine “non votate”, scrissero in un documento, salvo il caso di un boicottaggio generale delle elezioni, è “settaria ed utopistica: settaria perché estrania l'organizzazione rivoluzionaria dalla vita politica delle masse in una fase in cui queste entrano in movimento; utopistica perché non realizza il benché minimo risultato positivo, confonde le poche astensioni coscienti nella massa delle astensioni incoscienti, preclude ogni possibilità di lavoro ulteriore di persuasione e di penetrazione”. La conclusione era che l'organizzazione si proponeva di dare “una caratterizzazione rivoluzionaria” al voto dei lavoratori, il quale esprimeva il loro malcontento, la loro opposizione radicale alla presente società, “sia pure espresso con una scheda”. Insomma, era ora di uscire dallo “sterile” astensionismo anarchico e, alla fine, l'indicazione tattica data ai propri militanti era di votare i “candidati operai”.
Nel 1957, a fronte del persistere di evidenti divergenze non appianate, tra “trotskisti” e “bordighisti”, i comunisti libertari proposero una fusione in breve tempo che voleva dire sciogliere tutte e quattro le organizzazioni e promuoverne una nuova. La proposta trovò il consenso della sola Azione comunista, mentre “bordighisti” e “trotskisti” uscirono dal movimento. Con la nascita dell'organizzazione della Sinistra Comunista, si concludeva la storia dei GAAP-FCL. Ma la stessa nascita del nuovo e “inedito partito” portava in sé i nodi di contraddizioni che esplosero l'anno seguente dividendo i percorsi tra una parte degli ex militanti comunisti libertari e gli altri che rimarranno all'interno della neonata organizzazione.

Diego Giachetti



Donne in carcere/
Un mondo sospeso

Chi evita l'errore elude la vita.
C.G. Jung

Un paio di mesi fa è uscito, per quelli dell'editrice Ortica, un piccolo libro che raccoglie storie di donne, il cui titolo allude alla proibizione di introdurre agrumi all'interno del carcere femminile di Rebibbia dove sono recluse: I limoni non possono entrare. Storie di donne dal carcere (Alessandra Caciolo, Stefania Zanda, Aprilia – Lt 2018, pp. 216, € 12,00).
Tra il 2017 e il 2018, all'interno di un progetto che prevedeva incontri settimanali di gruppo per tutte quelle detenute che sentivano la necessità di raccontare e condividere la loro storia, è stato raccolto il materiale che in seguito ha preso la forma di libro. Grazie alla disponibilità di sei o sette di loro è stato possibile raccontare il carcere, con tutte le sue contraddizioni e i pregiudizi, e aprire lo sguardo su una realtà che chiamare “luogo dell'oblio” calza a pennello, un posto dove le vite rimangono sospese e dove regna l'attesa. Un luogo molto spesso dimenticato.
Quello di cui si parla non è genericamente il carcere, ma il carcere femminile e quello di Rebibbia è uno dei pochi ad averne uno destinato solo alle donne. Infatti la realtà carceraria italiana è composta quasi esclusivamente da istituti maschili con sezioni femminili all'interno – spesso molto piccole – dove le donne sono lasciate lì, abbandonate a se stesse; quindi “far ascoltare” il carcere femminile significa cercare di alzare il volume mentre si parla di una differenza di genere sostanziale. Significa domandarsi cosa vorrebbe dire spostare l'attenzione sulle donne per fare della detenzione femminile il parametro dell'uguaglianza.
Nel nostro paese, ma anche nel resto d'Europa la situazione pare non essere molto diversa, le donne sono poco più del 4% della popolazione detenuta, delinquono quantitativamente meno e anche “qualitativamente” sono, per così dire, inferiori ai maschi; significa che, in buona parte, si tratta di piccola criminalità proveniente da percorsi di esclusione sociale dove è frequente la recidività. Per questo le autrici del libro sottolineano come adottare un'ottica di genere, sia per leggere il reato sia per determinare la pena e la sua esecuzione, sarebbe un guadagno per tutte e per tutti.
Il fatto sostanziale del libro sta proprio in questa proposta sottesa, una proposta che rivoluzionerebbe il modello di pena tuttora in uso e che potrebbe far pensare ad un carcere diverso, un carcere – si sottolinea – probabilmente pensato per la prima volta. L'autenticità delle narrazioni raccolte, con la loro capacità di coinvolgimento emotivo, non fa altro che mostrare quanto il bisogno sia impellente, come sia indispensabile guardare alle storie, e non ai numeri, se si vuole avere un'autentica comprensione della situazione carceraria.
Di fatto io credo che il carcere mostri macroscopicamente ciò che accade in tutti gli altri ambiti del nostro vivere sociale, soprattutto laddove si raggruppano grossi numeri di persone in condizione di fragilità – vuoi perché troppo giovani, troppo vecchie o malate – dove la tendenza all'omologazione, al protocollo, all'appiattimento standardizzato, è la scelta forte e più facile. Poter rivolgere attenzione ad ogni individuo per la particolarità che lo contraddistingue nel genere e nell'esperienza di vita (che l'ha condotto a delinquere, ad esempio, nel caso specifico di cui stiamo parlando), presuppone lo sradicamento dell'abitudine all'indifferenza, all'individualismo esasperato, presuppone ripensare alla base tutto il nostro vivere relazionale, dalla coppia alla famiglia fino alla comunità sociale. Lavoro immenso da cui non possiamo prescindere se scegliamo di percorrere strade utili a risolvere problemi, a creare salute, benessere e magari, perché no, anche felicità.
Allora questo libretto diventa un piccolo/grande spunto di riflessione. Si parte dall'ascolto, dall'empatia, dal provare a mettersi nei panni dell'altro. Si tratta di vedere umanità in chi ha sbagliato e di cercare soluzioni alternative che creino occasioni di vita. Si tratta di uscire dalla logica della violenza punitiva e dell'abuso di potere.
Si legge così nelle ultime pagine: “la consapevolezza che, anche se abbiamo commesso degli errori non siamo diverse dagli altri, anzi abbiamo qualcosa che ci contraddistingue: la lotta, la sofferenza e la determinazione di andare avanti.
Non si può ridurre l'esistenza di una persona alla somma degli errori commessi. Gli sbagli avvenuti per motivi diversi sono degli ostacoli sul cammino, comprenderli può permetterci di non ripetere gli stessi errori.”
Penso sia un pensiero importante per tutte e tutti, dentro e fuori dai carceri.

Silvia Papi



Futuri possibili/
Cercare l'utopia (per continuare a camminare)

Se pure l'utopia è irraggiungibile, secondo Eduardo Galeano è per lei che ci si mette in viaggio: “Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare.”
Il contrario di utopia è distopia, ovvero il luogo “cattivo” che (ancora) non c'è ma è possibile, forse vicinissimo. Elisabetta Di Minico ha scritto con Il futuro in bilico. Il mondo contemporaneo tra controllo, utopia e distopia (Meltemi, Sesto San Giovanni 2018, pp. 422, € 28,00) un libro importante, usando la fantascienza come grimaldello per scardinare il presente e i futuri (ravvicinati) possibili.
Il primo capitolo ci introduce ai temi saltellando fra i secoli per mostrarci come la coppia utopia/distopia abbia genitori illustri.
Utopici? I primi nomi che vengono in mente sono Bacone e Voltaire. Passando per i seguaci di Charles Fourier e per Edward Bellamy arriviamo all'immeritatamente dimenticato L'anno 2440 scritto (nel 1771) dall'illuminista Louis Sébastien Mercier.
Variamente distopici Erewhon di Samuel Butler, molti passaggi de I viaggi di Gulliver, alcune opere di Verne, La macchina si ferma, Rur di Karel Capek e Metropolis (l'autrice cita solo il film dimenticando il romanzo del 1925 di Thea Von Harbou da cui fu tratto) per arrivare alla fantascienza propriamente detta letteraria, cinematografica e fumettara. Chiariamo subito che quasi solo in Italia, per un antico pregiudizio, romanzi come 1984 o Il mondo nuovo non sono considerati fantascienza.
Il secondo capitolo – «Distopia e controllo» – esamina in dettaglio 20 opere. E ci sono recuperi assai interessanti. Per esempio, il romanzo La notte della svastica (del 1937) scritto dall'inglese Katharine Burdekin. O Antifona (1938) della scrittrice e filosofa Ayn Rand. Oppure Kallocaina (1940) della svedese Karin Boye. Tre donne “rimosse” dunque: sarà un caso?
Fra i libri citati di sfuggita – sarebbe stato impossibile analizzarli tutti – anche Qui non è possibile (1935) di Sinclair Lewis che immagina gli Usa sotto dittatura: quel titolo a me ricorda i tanti che recentemente di fronte ai primi segni di ri-fascistizzazione di Polonia, Ungheria o Turchia avevano sentenziato “indietro non si torna”... E infatti.
Siamo così arrivati a metà libro. E adesso Elisabetta Di Minico ci propone i due capitoli finali (risultano più intrecciati che paralleli) ovvero «Distopia e poteri dominanti» – cioè le dittature, più o meno mascherate – e «Distopia e poteri suadenti» insomma i governi che vengono definiti democratici. Politicamente sono i due capitoli più interessanti, è ovvio. Il reale e l'immaginazione a confronto: e il risultato può spaventare anche le persone più coraggiose. Pur con tutti i distinguo storici, teorici e pratici, l'autrice giustamente annota: “la “cancrena” che divora i poteri suadenti è poco differente da quella delle peggiori dittature”. È un'osservazione che si può estendere dal caso particolare al generale. Verso la fine, Elisabetta Di Minico chiarisce: “il presente studio non vuole screditare i sistemi democratici [...] almeno non del tutto”. Ma citando Herbert Marcuse ricorda che comunque “questa società cambia tutto ciò che tocca in una fonte potenziale di progresso e di sfruttamento, di fatica memorabile e di soddisfazione, di libertà e di oppressione”. E più avanti aveva riportato una delle frasi più famose (e difficilmente contestabili) di Marcuse: “una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico”. Beninteso è «levigata» in questa parte del mondo perché altrove (nelle vecchie/nuove colonie) il capitalismo può togliersi la maschera e mostrarsi – perfino vantarsi – capace di ogni infamia. Qui è un Occidente che si finge tollerante, lì cambia una sola vocale e diventa Uccidente.
Un libro che merita, dunque. Difetti? Non potendo dire tutto in 400 pagine, alcune sezioni storico-politiche sono tagliate con l'accetta e frettolose; questo forse spiega anche perché tra le fonti si citano opere più propagandistiche (Il libro nero del comunismo o Lo scontro delle civiltà di Samuel Huntingron) che ricche di documentazione.
Auspicabile che, in prossimi lavori, il gruppo di ricerca HISTOPIA (bellissimo nome) del quale l'autrice fa parte recuperi anche testi utopici/distopici di area anarchica, qui un po' trascurati. Si potrebbe partire dall'antologia (del 1948 ma ripubblicata nel 1981) Viaggio attraverso l'utopia di Maria Luisa Berneri.
Intanto i più ottimisti fra noi continuano a camminare verso le utopie e a pensare che le rivoluzioni possano sovvertire in meglio lo stato presente. Ognuna/o interpretando a suo modo la frase del bolscevico (poi dissidente) e romanziere Evgenij Zamjatini: “l'ultima rivoluzione è come l'ultimo numero: non esiste.”

Daniele Barbieri



Russia 1917/
Da bolscevica a anarchica. Storia di una ribelle

Poche opere letterarie e politiche, prodotte nella Russia degli anni ’20 e ’30, danno l'idea di quanto la rivoluzione sia stata spontanea e partecipata dai lavoratori di città e campagne come l'autobiografia di Evgenija Jaroslavskaja-Markon, La ribelle (Ugo Guanda Editore, Milano 2018, pp. 180, € 16,50), pubblicata recentemente.
Conosciamo la storia degli anarchici russi e del movimento anarchico russo, attraverso le biografie di coloro che, nell'800, hanno formulato il pensiero etico, sociale e politico dell'anarchismo e/o che, durante gli anni della rivoluzione, hanno militato in Russia e negli altri Paesi del mondo. Conosciamo di meno o non conosciamo affatto le figure di coloro che, travolti dal bolscevismo nella sua versione leninista e stalinista, sono stati cancellati dalla memoria del movimento. Figure che, pur facendo parte della sua storia, non hanno mai potuto accedere ad un riconoscimento storiografico. Il libro apre una pagina nuova relativa agli anarchici vittime dimenticate della repressione spietata dell'anarchismo in Russia, durante la progressiva conquista del potere e all'indomani della definitiva presa del potere bolscevica. Il libro contiene oltre alla autobiografia di un'anarchica morta a 29 anni nel Gulag delle isole Solovki, dove era stata imprigionata, fucilata per le sue idee e per la sua ribellione alla oppressione stalinista, anche parte della documentazione penale che la riguardò, la prefazione dello scrittore Olivier Rolin e la postfazione di Irina Flige. La storia della breve vita di Evgenija Jaroslavskaja-Markon, vissuta come una meteora fiammeggiante nel cielo nero del comunismo leninista, è emersa casualmente dal ritrovamento negli Archivi russi sul Gulag della sua autobiografia, insieme ad una fotografia, che per la sua espressività difficilmente si dimentica e che è stata riprodotta sulla copertina del libro. Il ritrovamento è avvenuto grazie al precitato scrittore che lavorava negli Archivi in vista della preparazione di un suo romanzo. Nel quadro costituito dalla spaventosa tragedia del popolo russo, che ha iniziato la rivoluzione, ma che ben presto viene piagato e piegato dalla burocratica piramide sociale che si sta organizzando e costruendo sulle ultime ceneri della rivoluzione, si leva la voce ribelle di Evgenija Jaroslavskaja-Markon. Giovanissima entra a far parte integrante di quel grande sogno di emancipazione universale e dopo un'iniziale adesione al bolscevismo, la futura autrice dell'autobiografia, delusa, abbraccia le idee anarchiche. A queste resterà fedele fino alla fine. Tra la prima dichiarazione di fede e l'imprigionamento nel Gulag, si snoda una vita affettiva, sociale e militante intensa, ricca di relazioni sociali e politiche con gli ambienti anarchici e menscevici dell'emigrazione a Parigi, raccontata nel suo scritto con accenti vividi e toccanti. Evgenija Jaroslavskaja-Markon esiliandosi a Parigi potrebbe salvarsi con il suo compagno, ma condividendo di fatto la sua nostalgia della Russia, vi rientra. Finiti nel Gulag, entrambi vengono fucilati; per primo il suo compagno, per aver tentato di fuggire, e successivamente lei, per averlo aiutato in tale tentativo. Fra l'uno e l'altro evento, Evgenija Jaroslavskaja-Markon, laureata in filosofia e proveniente da una famiglia ebrea di studiosi, diventa una ladra, non si riesce a capire per quale motivo: se per necessità, scelta ideologica oppure per disperazione.
A pochi passi dalla fucilazione spiega agli inquirenti, che stanno istruendo il processo contro di lei, che: “Scrivo questa autobiografia non per voi, organi inquirenti (se fosse servita solo a voi, non mi sarei nemmeno sognata di scriverla!). Semplicemente, ho voglia di “ imprimere” la mia vita sulla carta, ma di carta non riesco a trovarne, tranne che nell'Ufficio informazioni e indagini”.
Durante la lettura di questo libro, immaginiamola nella sua cella, sola, prossima alla condanna capitale che si aspetta, ma salda, mentre traccia sulla carta e tramanda la passione, la sensibilità, il coraggio, la curiosità intellettuale e la ribellione all'ingiustizia, che sono state le caratteristiche principali della sua straordinaria personalità.

Enrico Calandri



Malattie psichiatriche in aumento/
Fermare l'epidemia è possibile?

“Se disponiamo di trattamenti davvero efficaci per i disturbi psichiatrici, perché la malattia mentale è diventata un problema di salute sempre più rilevante? Se quello che ci è stato raccontato finora è vero, cioè che la psichiatria ha effettivamente fatto grandi progressi nell'identificare le cause biologiche dei disturbi mentali e nello sviluppare trattamenti efficaci per queste patologie, allora possiamo concludere che il rimodellamento delle nostre convinzioni sociali promosso dalla psichiatria è stato positivo. (...) Ma se scopriremo che la storia è diversa - che le cause biologiche dei disturbi mentali sono ancora lontane dall'essere scoperte e che gli psicofarmaci stanno, di fatto, alimentando questa epidemia di gravi disabilità psichiatriche - cosa potremo dire di aver fatto? Avremo documentato una storia che dimostra quanto la nostra società sia stata ingannata e, forse, tradita.”
Il libro di Robert Whitaker Indagine su un'epidemia. Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell'epoca del boom degli psicofarmaci (edizioni Giovanni Fioriti, Roma 2013, pp. 392, € 26,00) è un percorso, uno studio storico e scientifico dalla nascita degli psicofarmaci fino a oggi. La domanda di partenza è come mai, nell'era del boom degli psicofarmaci, c'è un aumento delle disabilità psichiatriche?
Se davvero sono avvenuti questi progressi ci dovremmo aspettare una riduzione dei pazienti in psichiatria, che dovrebbe essere ancor più evidente con l'avvento degli psicofarmaci di seconda generazione, dal 1988 in poi. Invece il numero dei casi di persone che hanno una disabilità cronica dopo l'uso degli psicofarmaci è in aumento. Gli psicofarmaci, oltre ad agire solo sui sintomi e non sulle cause della sofferenza della persona, alterano il metabolismo e le percezioni, rallentano i percorsi cognitivi e ideativi, contrastando la possibilità di fare scelte autonome, generano fenomeni di dipendenza e assuefazione del tutto pari, se non superiori, a quelli delle sostanze illegali classificate come droghe pesanti, dalle quali si distinguono non per le loro proprietà chimiche o effetti, ma per il fatto di essere prescritti da un medico e commercializzate in farmacia.
Le cause biologiche dei “disturbi mentali” sono ancora lontane dell'essere scoperte; invece sono gli psicofarmaci, dagli studi scientifici che Whitaker ci mostra, che presi a lungo andare, portano a gravi squilibri chimici nel nostro cervello. Nella nostra società è dato per scontato dalla maggioranza della popolazione che la depressione è associata ad una mancanza di serotonina, ma come ci spiega bene il libro “indagine su un'epidemia” non c'è nessuno studio scientifico che lo dimostra.
Negli ultimi 40 anni, la psichiatria ha rimodellato, in profondità, la nostra società. Attraverso il suo Manuale Diagnostico e Statistico (DSM), la psichiatria traccia la linea di confine tra ciò che è normale e ciò che non lo è. La nostra comprensione sociale della mente umana, che in passato nasceva da fonti di vario genere, ora è filtrata attraverso il DSM. Quello che finora ci ha proposto la psichiatria è la centralità degli “squilibri chimici” nel funzionamento del cervello, ha cambiato il nostro schema di comprensione della mente e messo in discussione il concetto di libero arbitrio. Ma noi siamo davvero i nostri neurotrasmettitori?
L'allargamento dei confini diagnostici favorisce il reclutamento, in psichiatria, di un numero sempre più alto di bambini e adulti. Oggi a scuola sono sempre di più i bambini che hanno una diagnosi psichiatrica e ci è stato detto che hanno qualcosa che non va nel loro cervello e che è probabile che debbano continuare a prendere psicofarmaci per il resto della loro vita, proprio come un “diabetico che prende l'insulina”.
Fermare l'epidemia è possibile? Forse rompendo il legame fra psichiatria e multinazionali produttori dei farmaci, e se gli psichiatri ascoltassero i loro pazienti su quello che hanno da dire sui gravi effetti collaterali, sarebbero in pochi a proseguire un trattamento psicofarmacologico a lungo termine.

Collettivo Antipsichiatrico  Antonin Artaud-Pisa
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