Rivista Anarchica Online


architettura

Autocostruire, autocostruirsi

di Margherita Fiorini e Michele Anelli-Monti

Le architetture sono come abiti che indossiamo.
Si adattano alle nostre forme e sono segno visibile del nostro essere.

“Quando costruiamo non facciamo altro che staccare una quantità conveniente di spazio, isolarla e proteggerla, e tutta l'architettura deriva da questa necessità.”
Geoffrey Scott, 1914

Necessità. Sembra che l'uomo, dopotutto, viva (e sopravviva) grazie al suo innato senso di tutela per se stesso. Costruire è il modo più immediato ed efficace che conosce per farlo: lavorando nelle tre dimensioni recinta spazi generando luoghi. Crea dentro e fuori di sé dei limiti, delle barriere. L'architettura è il frutto di quest'atto primordiale, del tentativo dell'uomo di rapportarsi (e spesso imporsi) a uno spazio naturale privo di segni umani con l'esigenza di trovare riparo, il proprio nido.
Assumendo lo spazio a minimo comune multiplo dell'architettura, e delimitandolo – anche solo simbolicamente – egli crea un dentro e un fuori, un finito e un infinito. La cultura greca è molto chiara in merito: la limitatezza è la chiave della conoscenza e della rappresentazione. L' utilizzabile è necessariamente misurabile, l'esperibile verificabile, il valutabile quantificabile. In questo senso, parafrasando Geoffrey Scott, l'architettura deriva dalla necessità di proteggersi, isolando uno spazio conveniente staccandolo dal resto dello spazio mutevole e pericoloso tramite una costruzione.
Si parla davvero solo di questo? Di una auto-costrizione in una cella che sia il più possibile isolata dal circostante nel continuo tentativo di eliminare le variabili e i cambiamenti che la vita porta di conseguenza?
L'architettura, e tutte le sovrastrutture che porta con sé, non è solo un mezzo per strumentalizzare lo spazio e far fronte alle necessità di riparo. Essa è molto di più, è un di-segno continuo dell'abitare dell'uomo, i cui effetti vengono argomentati, concretizzati, resi esperibili dalla e nella materia.
Andrea Staid nel suo saggio Abitare Illegale (Milieu 2017) spiega questa inevitabile conseguenza dell'Esistere umano: “La casa è anzitutto luogo antropologico, un luogo abitato dall'uomo che non è solo uno stare, ma anzitutto un essere.” Gli spazi che viviamo si modificano e si evolvono con la stessa velocità con cui lo facciamo noi, sono un continuo riflesso della nostra persona. La mutabilità del nostro animo, le nostre aspirazioni e speranze, i nostri valori: tutto questo influisce continuamente sugli spazi con cui co-esistiamo. La forma è significato. La forma è essenza.
“Abitare”, scrive Ivan Illich, “è una delle principali caratteristiche dell'uomo. La casa è il luogo umano per eccellenza. In molte lingue vivere e abitare sono sinonimi. Domandare a qualcuno dove vivi? è in verità chiedere nozione sul luogo dove si svolge la sua attività quotidiana, che dà forma al mondo”.
Per semplificare la comprensione di questo concetto così radicale, ma allo stesso tempo sfuggevole e multiforme, è utile affrontarlo con tre sguardi o strumenti differenti sebbene interdipendenti. L'atto di abitare, in tutta la sua complessità, mostra e definisce la relazione che l'uomo intraprende nei confronti di se stesso, verso una comunità di uomini e un ambiente geo-biologico.
Intervenire e modificare il paesaggio naturale – spesso compromettendolo – è espressione di un'esigenza umana, intrinseca ma non sempre conscia, di attribuire senso e scopo alla materia. Allo stesso tempo però è vero anche il contrario: l'ambiente a sua volta determina fortemente l'agire, gli usi e i costumi umani. Per filosofi come Umberto Galimberti, animale privo di istinti, l'uomo appare dunque prodotto delle sue esperienze soggettive.
“L'abitare forgia le abitudini. Abitare, abiti, abitudini non a caso sono parole legate da una comune radice etimologica”, scrive Adriano Favole (Le case dell'uomo. Abitare il mondo, UTET, Milano 2016). L'uomo per riconoscersi ha bisogno di simboli che lo rappresentino, siano essi oggetti, idee, persone, ma anche spazi e architetture. In questo senso l'architettura influenza carattere e personalità, funge da negativo a cui l'uomo si adatta. È specchio che riflette l'uomo, aiutandolo a leggersi in modo chiaro.
In che spazio siamo disposti a vivere? Siamo consapevoli del nostro legame con esso? Di come ci vincoli, ci arricchisca, ci metta continuamente alla prova? Cosa significa antropologicamente crescere in palazzine come le Vele di Scampia o nella BedZed di Londra, palazzina ecosostenibile e offgrid?
Il nostro modo di costruire manifesta inoltre il nostro modo di con-vivere, la capacità della comunità umana di vivere e creare spazi funzionali e autentici o alienati e tossici. Progettare spazi, a livello urbanistico o a piccole scale, significa influire e intromettersi enormemente nei comportamenti umani. L'influenza psico-fisica esercitata dagli spazi ci può spingere, all'interno di una comunità, ad essere individui diversi – e auspicabilmente migliori: più tolleranti, inclusivi, meno alienati. Esistiamo solo in relazione ad altri individui, ed è in qualche modo il riconoscimento esterno della nostra persona a definire la nostra identità. La necessità di porci e manifestarci come animali sociali si esprime nell'abitare, “un faticoso compromesso fra l'esigenza di intimità e di condivisione e quella di aprirsi al mondo che sta fuori: un punto precario di equilibro tra la chiusura e l'apertura, tra il raccoglimento nell'intimità di un “noi” o di un “io” e l'aprirsi alla relazione sociale” (Francesco Remotti, Le case dell'uomo. Abitare il mondo, UTET, Milano 2016).
Architettura è un continuo dialogo fra gli individui di diverse generazioni, ci giunge attraverso stratificazioni di segni e manufatti dal passato, forgiandoci dal punto di vista personale e collettivo, determina l'identità degli individui a noi prossimi. Essa espone l'ideologia dominante, esplicita le logiche economiche del tempo. Non ci si esime da queste influenze.
Ma l'architettura è, soprattutto, materia. È definita da spazi reali, che si estendono (ma non si esauriscono) nelle tre dimensioni: è fatta di pareti portanti e mattoni a vista, elementi in ferro e altri in calcestruzzo. È un contatto continuo con l'ambiente circostante, in balia com'è del vento e della pioggia e dei raggi luminosi di sole di una mattina primaverile. Ogni spazio che abitiamo, che sia una casa o uno spazio collettivo e comunitario, non è solo caratterizzato da un confronto con l'aspetto storico-culturale caratterizzante il luogo stesso, ma anche (e soprattutto) da un continuo, puntuale adattamento al territorio dal punto di vista geologico e geografico. Le modalità e le tecniche di costruzione sono la principale espressione, nonché la sua più tangibile sfumatura, dell'atto di abitare. Ogni costruzione è manifestazione di un'ideologia, di una volontà, di una adesione più o meno parziale alle politiche socio-economiche del tempo che viviamo. Per questo è così radicalmente differente vivere, e scegliere, una casa autosufficiente in materiali sostenibili rispetto a una palazzina popolare degli anni ’60 in calcestruzzo.
Le architetture sono come abiti che indossiamo. Si adattano alle nostre forme e sono segno visibile del nostro essere. Non possiamo lasciarle in balia delle volontà altrui, in mano a presunti addetti ai lavori. Abbiamo la possibilità di scegliere chi essere e manifestarlo? Che impronta lasciare sul pianeta e su di noi con i nostri edifici? Abbiamo il coraggio di fare nostri degli spazi liberi e accoglienti, di allontanarci “dall'asfalto delle strade e l'elevarsi delle gru e il rumore dei motori e il disordinato intrecciarsi dei veicoli” che, secondo le parole di Adriano Olivetti, tanto ricordano una “vasta, dinamica, assordante, ostile prigione dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere” (Città dell'uomo, Comunità Editrice, Roma/Ivrea 2015).
A quanti compromessi siamo disposti a scendere per comodità, conformità, senso di sicurezza? A chi deleghiamo la nostra libertà e identità?

Un abisso tra teoria e pratica

Notiamo che sovente il paradigma forma nelle facoltà addetti ai lavori sempre più teorici e astratti, per cui “vernacolare” è solo una bella parola da citare tra una lezione e l'altra, distante e incompresa. Questo disconoscimento del carattere vernacolare che pervade la storia della costruzione forma architetti barricati dietro le loro ottime capacità di progettisti dietro uno schermo, ma che non sono mai stati in un cantiere, e che certo non sanno utilizzare nessuno degli strumenti necessari a costruire. Il sistema universitario risulta caricatura della sua stessa autorità, assuefatto com'è da fiumi di parole poco concrete, anche in un ambito – quello architettonico – così fortemente legato a uno dei mestieri più pratici e materici del mondo.
Abbiamo l'impressione che, (anche) in ambito accademico, prevalga l'assimilazione sulla rielaborazione, la ripetizione alla creazione, lo storicismo sull'innovazione. Il disinteresse della docenza nei confronti degli studenti è evidente: anche nel momento in cui la nostra opinione viene richiesta – evento più unico che raro già di per sé – la risposta cade nel dimenticatoio dei dialoghi omessi.
Si è perduta la capacità di essere homo faber a favore della condizione più rassicurante e accomodante di homo comfort, di costruire con le proprie mani spazi e oggetti.
Se – come per noi – auto-costruire è innanzitutto auto-costruirsi, chi vogliamo essere?

Margherita Fiorini e Michele Anelli-Monti