Rivista Anarchica Online





Graphic novel/
Il '68 secondo Manfredi

C'è un punto in cui si comprende la forza specifica di Cani sciolti (Sergio Bonelli Editore, Milano 2018, pg. 129, € 19,00), la graphic novel di Manfredi e Casalanguida sul '68 milanese. Dagli eventi raccontati nella prima parte sono passati vent'anni; uno dei protagonisti, Paolo, torna nel Piemonte natio e discute con il padre partigiano di una sua battaglia sulle colline. Il racconto è emozionante ma depurato da ogni retorica: nonostante Paolo incalzi il padre, lui si limita a riportare i fatti e aggiungere che l'eroismo non c'entra niente – che la guerra è brutta, una porcheria. La scena si chiude con un abbraccio fra i due.
Qui si coglie la forza di Cani sciolti, dicevo; per due motivi. Il primo è il modo in cui Manfredi scioglie la storia principale – le avventure di sei studenti nel 1968, fra occupazioni, lotte e amori; e il loro ricordo vent'anni dopo – in alcune linee laterali e flashback che fungono da complemento. Il secondo motivo è l'assenza totale di patina celebrativa: qualsiasi fatto raccontato conserva un suo pudore primigenio, una bellezza al riparo dall'ideologia che pure in quegli anni abbondava. Nonostante di Storia ce ne sia, in Cani sciolti, a restare impresse sono le immagini private, spesso cariche di delicata ironia: come scrive Manfredi nella nota a fine volume, “le sfumature intermedie, i momenti di melanconia, quelli di tenerezza, [...] le differenze di carattere, i piccoli litigi, le incomprensioni che segnano le relazioni umane”.
E allora non è un caso che la musica – una presenza molto forte e continua – comprenda canzoni del movimento come brani più leggeri e pop. Non è un caso che i protagonisti siano appunto cani sciolti, fuori da ogni gruppo organizzato, e di estrazione sociale assai diversa. Non è un caso che tanto spazio venga dato a Milano, vera protagonista ulteriore cui sono dedicate alcune bellissime vignette mute: la Milano del centro, di sant'Ambrogio e del Duomo, del bar Magenta e della Statale; e quella dei quartieri popolari, delle case di ringhiera e delle latterie dove si parla in dialetto. E nemmeno è un caso, infine, che le due parti del fumetto siano legate da una figura essenziale quanto sfuggente, quella del fotografo Italo Rossini: un testimone in presa diretta prima e il custode della memoria dopo. Dove siete? è il titolo di uno scatto che ritrae i sei protagonisti da giovani.
Nel 1988 Margherita chiede a Italo se il senso della domanda sia politico – se il fotografo rimpianga la rivoluzione perduta. No, risponde lui: è un semplice appello a quei ragazzi. Ancora una volta le singole esistenze, nella loro complessità irriducibile, prendono il sopravvento sull'ideologia. E questo, per quanto mi riguarda, è il segno di una narrazione autentica, ben riuscita e senza secondi fini.
Ma Cani sciolti è una narrazione a fumetti, ed è bene dire qualcosa anche su questo. Sempre nella nota conclusiva, Manfredi osserva che il format della storia differisce “da quello tradizionale a tre strisce e minutamente sequenziale cui sono abituati i lettori bonelliani”. È vero, la griglia del fumetto conosce maggiori libertà rispetto a un Dylan Dog o a un Tex – ma dopotutto non molte. Il ritmo della narrazione, l'impostazione di massima e soprattutto il tratto (nitido e molto espressivo) di Casalanguida restano interamente bonelliani. E questo è straniante: per il '68 ci si potrebbe aspettare gabbie grafiche esplose, perfino un tocco di psichedelia: Manfredi e Casalanguida invece impostano la storia secondo canoni classici. Il risultato però funziona egregiamente: oserei dire che funziona proprio per il suo realismo sobrio, per la bellezza semplice e diritta delle immagini, dei dettagli, delle espressioni. Tutto è visibile e, ancora una volta, privo di retorica. Non era facile, considerato il tema.
Cani sciolti dà il via a una miniserie che aspettiamo con ansia, dopo questo primo episodio. In attesa del resto, un piccolo suggerimento: leggere il volume di fianco a un altro libro di Manfredi, stavolta interamente scritto e non a fumetti: Ma chi ha detto che non c'è – il più bel saggio uscito l'anno scorso sul '77. Due momenti topici, che per molti versi inaugurano e concludono una grande stagione di rivolta, completandosi quasi a vicenda.

Giorgio Fontana


Strage di Brescia 1974/
Ma gli anni che scorrono non mitigano

Redento Peroni, la voce narrante del bel romanzo di Marco Archetti Una specie di vento (Chiarelettere, Milano 2018, pgg. 192, € 16,00) è un sopravvissuto.
Il caso ha giocato la sua carta 44 anni fa: “Ragazzo vieni sotto il portico chè piove”, una frase, un passo, un gesto che determinano la vita o la morte e che ti tengono inchiodato a quell'attimo da quel 28 maggio del 1974 quando una bomba, nascosta in un cestino dei rifiuti, esplode, durante una manifestazione antifascista, in piazza della Loggia a Brescia, uccidendo 8 persone e ferendone più di cento.
Redento rimane ferito, nel fisico e nell'animo, profondamente. Non potrà mai dimenticare, diventando, suo malgrado ma consapevolmente, una delle voci che permetteranno di portare avanti l'impegno per una verità che sia giustizia, per una memoria che non sia commemorazione, proseguendo in un percorso che dalle ferite ricevute trova ragione nel racconto trasmesso, nella verità non cancellabile o amputabile in sentenze di tribunale che latitano e in omissioni e depistaggi che dilatano e annebbiano come lo scorrere degli anni.
Quando “gli occhi azzurri di figlio” diventano “gli occhi azzurri di nonno”, bisogna trovare la forza di raccontare ai nipoti, a chi ancora vuole sapere, così che la storia trovi posto nella Storia.
Alla sua voce si intercalano quelle di coloro che persero la vita in quell'attentato, non numeri della tragica contabilità delle stragi, ma persone. Allora Vittorio Zambarda, Euplo Natali, Giulietta Banzi, Alberto Tedeschi, Clementina Calzari, Livia Bottardi, Bartolomeo Talenti, Luigi Pinto si raccontano nel loro breve passaggio in vita, non eroi o santi, ma donne e uomini che amavano, studiavano, lavoravano, con aspirazioni e ideali che erano impegno quotidiano e che, come Redento o Manlio che sopravvissero, quel giorno non potevano che essere lì, in quella piazza.
È un bel lavoro questo libro di Marco Archetti, scrittore bresciano nato nel 1976. Con una scrittura fluida e scegliendo la forma del romanzo non solo dà voce ai protagonisti, restituendoli nella loro umanità, ricreando atmosfere e intensità, senza retorica o stucchevole enfasi, ma non tralasciando di raccontare il dipanarsi negli anni della ricostruzione giudiziaria, i colpevoli silenzi, le sentenze, le prime condanne a oltre 40 anni, costruisce un libro che è un racconto lucido e un documento importante. Ci sono eventi che segnano in maniera indelebile persone e luoghi e gli anni che scorrono non mitigano, soprattutto se la storia non insegna a dire mai più.

Claudia Pinelli


Pedagogia/
La valutazione come management della vita

Quando una misura diventa un obiettivo, cessa di essere una misura utile.1

Il primo equivoco da dissipare è quello di confondere la pratica della valutazione corrente che è parte integrante della nostra capacità di giudizio razionale, con quella “tirannia della valutazione” che ormai è dominante in ogni ambito, sociale, economico, politico, psicologico. In fondo noi tutti compiamo un'operazione di valutazione quando ci esprimiamo positivamente o negativamente su un film che abbiamo visto o sull'ultimo libro che abbiamo letto. In questo non solo non c'è nulla di male, ma anzi in una certa misura è un esercizio necessario per scegliere cosa ci piace e che cosa no, come vogliamo vivere, cosa vogliamo condividere con gli altri.
Ma lo scopo delle nostre valutazioni non è quello di stabilire una norma a cui tutti debbano adeguarsi, tantomeno di utilizzarle come strumento di dominio per stabilire una gerarchia sociale ed economica e neppure di spacciarle per “valutazioni oggettive”, sottratte quindi a loro volta a ogni valutazione. Come funziona questo trucco che trasforma il conferire valore a qualcosa in uno strumento di controllo sempre più capillare sulle nostre vite?
Lo spiega bene Angélique Del Rey (La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano 2018, pgg. 190, € 15,00): “Quando le nuove forme di valutazione, grazie alla statistica matematica, affermano di avere valore dimostrativo al pari delle scienze della natura, mascherano piuttosto l'esistenza di punti di vista molteplici e tra loro irriducibili, presentandosi come “un punto di vista senza collocazione”, che supera tutti gli altri, “relativi” a questo a quell'individuo, a questa o quella professione a questo o a quel vissuto, a questa o a quella esperienza”2.
Insomma un bel gioco delle tre carte che mira a nascondere le intenzioni, gli scopi, i punti di vista, le scelte, spacciandole per oggettive. È in fondo la versione secolarizzata del punto di vista di dio, il gran valutatore che riesce a guardare le cose da infinite prospettive. Al suo posto gli umani, nella loro limitatezza, costruiscono geometricamente questo “punto vista senza collocazione” scomponendo la realtà in quantità minime misurabili, osservabili, aggregabili in modi diversi ai fini del controllo e del dominio.
È quella che Foucault aveva definito una strategia dell'esame che rende visibili i soggetti, costruisce gli individui attraverso campi documentari (registri, schede, documenti, libretti personali) sempre più accurati, trasforma ogni individuo in un caso3. Lo scopo di questa trasformazione è rendere l'uomo economico e calcolabile.
Oggi più che mai la valutazione è diventata pervasiva con l'utilizzo di dispositivi che raccolgono i nostri dati e li convogliano ad altri per fini che non conosciamo se non in termini generali. L'esempio più ovvio è lo smartphone, ma lasciamo tracce anche usando il computer, andando al bar a prendere il caffè ripresi da telecamere ovunque, usando bancomat: per dirla in modo drastico siamo in una società del controllo così capillare che nessuno stato prima d'ora avrebbe potuto mai neanche sognare di ottenere. Il punto più avanzato è forse il sistema del credito sociale cinese: sulla base dei dati il governo può punire, incentivare i cittadini che si comportano bene o male attribuendo loro un punteggio positivo o negativo a seconda delle azioni che compiono4.
E nell'epoca del neoliberismo la valutazione generalizzata produce una falsa meritocrazia e una retorica secondo cui l'individuo diventa “oggettivamente” responsabile del suo insuccesso. Così si ingenera una nuova forma di “servitù volontaria” a cui ci si sottomette per meglio adeguarsi a parametri sociali ed economici.
Non che si abbia molta scelta perché con le nuove spietate strategie di management ad esempio del lavoro siamo gettati in una competizione la cui posta in gioco è un salario da fame e la disoccupazione. In realtà il management riguarda l'intera vita che attraverso la valutazione si trasforma in un “bilancio di competenze” che noi stessi cerchiamo di valorizzare: “un viaggio, la scoperta di un nuovo continente, di un'altra cultura, la passione per l'astronomia, per le civiltà antiche, per la filosofia, la paura, l'amore, il fatto di aver conosciuto una guerra ecc. sono tutte esperienze riducibili, attraverso la valutazione, a un insieme di competenze acquisite dall'individuo (dove la vita appare un semplice mezzo per ottenere queste acquisizioni) su cui può investire personalmente”5.
Ora se la diagnosi è questa, il paziente è curabile? Intanto il primo passo, come sostiene l'autrice, è smascherare la presunta oggettività di questa valutazione pervasiva e tirannica, mostrare il paradigma epistemologico che la sottende e i giochi di potere di cui è parte integrante, gli effetti di realtà (agghiaccianti) che produce. Il secondo è quello della ricerca di un paradigma differente (il riferimento è alla “complessità”) che “comporta tra l'altro l'accettazione dell'incertezza e della casualità (l'imprevedibile), la rivendicazione del conflitto, della variabilità, della deviazione rispetto alla norma, la ricerca di un'efficacia situazionale più che globale, il rigetto di una “giustizia” che mette le persone e le organizzazioni in concorrenza tra loro, la re-inscrizione dell'uomo (individuo) nel suo ambiente”6.
Un vero e proprio programma di ricerca e lotta che resistendo alla tirannia, rimette in gioco la forza conflittuale degli attori sociali.

Filippo Trasatti

  1. Legge di Goodhart, cit. in Adam Greenfield, Tecnologie radicali, tr. it. M. Nicoli et al., Einaudi, Torino 2017, p.258. https://en.wikipedia.org/wiki/Goodhart%27s_law
  2. Angelique Del Rey, La tirannia della valutazione, tr. it. di A. L. Carbone, elèuthera, Milano 2018, p. 73.
  3. Michel Foucault, Sorvegliare e punire, tr. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, p. 202.
  4. cfr. Greenfield.
  5. Del Rey, p. 117.
  6. Del Rey, p. 189.



Sicilia/
Una portaerei in mezzo al mar Mediterraneo

Quello delle basi militari Usa è sempre stato e rimane un argomento enigmaticamente marginale tanto nel dibattito politico quanto nella saggistica e nella documentazione sui fattori condizionanti le dinamiche dei rapporti internazionali. Di fronte a una tradizionale e continua attenzione ai settori produttivi, finanziari ed economici del dominio e relativa ipertrofica produzione giornalistica e saggistica (“se vuoi sapere dove va il mondo devi leggere le pagine economiche dei giornali!” sentenziano vacui gli invasati del capitale), è paradossale come sia, rarefatta se non assente l'informazione sulla massima concentrazione esistente di potere effettivo, di concreta capacità distruttiva.
Il libro di Jacqueline Andres (The hub of the Med – Una lettura della «geografia militare» statunitense in Sicilia Sicilia Punto L, Ragusa 2018, pp. 151, € 10,00) contiene una asciutta descrizione di un pezzo fondamentale dell'intricata rete planetaria con la quale gli Usa e i loro alleati possono mettere in atto quella particolare forma di neocolonialismo che dai primi anni '90, con la scomparsa della minaccia comunista sovietica, si sta adoperando per ottenere un progressivo controllo su Medio Oriente, Africa e in definitiva sul pianeta intero (fatte salve le riluttanti Russia e Cina, che si propongono come imperialismi alternativi, e pochi altri metri quadri).
La Sicilia, piazzata in mezzo al Mediterraneo, è stata prescelta a partire dal dopoguerra come inaffondabile portaerei situata a un passo dalle sterminate riserve di petrolio che hanno contribuito a disegnare la geografia militare del meridione italiano e del pianeta intero, e la storia delle sue popolazioni. Con la perdita del ruolo antisovietico della Nato si ha una ridefinizione della funzione delle basi, visto che non c'è più da fronteggiare un'eventuale invasione o bombardamenti nucleari, ma la diffusione e il mantenimento della pax americana, con la formazione e addestramento delle forze dell'ordine di paesi subordinati, la repressione di disordini civili, lotta contro il traffico di droga e così via.
I “provvidenziali” eventi del settembre del 2001 permettono, dopo gli interventi nell'ex-Jugoslavia e in Iraq, di orientare verso il cosiddetto “terrorismo islamico” la progettazione delle strutture armate del rinnovato impero. Il complesso militare-industriale si radica e si ramifica espandendo le sue attività e la sua presenza a Sigonella, Niscemi, Augusta, Pachino. Questi centri sono stati e saranno essenziali per le missioni aeree in Iraq e Afghanistan, per il controllo del traffico navale del Mediterraneo, per i voli della Cia impegnata in operazioni segrete-illegali e per ogni evento che riguardi il fronte africano.
La creazione nel 2007 dell'Africom (U.S. Africa Command) segna un nuovo passo nella militarizzazione delle relazioni internazionali, centrando sulla gestione dei flussi migratori e sul conflitto economico con la Cina - che si proietta con aggressività sempre più evidente sulle materie prime del Continente nero - le attività che vedono la Sicilia e Sigonella in particolare centri nodali delle azioni di guerra, innanzitutto in Libia e in Somalia, ma non solo. Una lunga serie di nazioni africane è coinvolta nelle operazioni che transitano dalla base aerea, a disegnare un quadro che, pur parziale, chiarisce come ogni idea di sovranità nazionale in Africa o altrove sia del tutto priva di credibilità, per non dire ridicola.
L'installazione del nodo Muos (colossale sistema di connessione satellitare tra unità terrestri, navale e aeree) a Niscemi e la rapidissima conquista della tecnologia dei droni, con Sigonella implicata praticamente in ogni operazione in questa parte di mondo è solo l'espressione più eclatante di una tecnologia militare che sembra al momento inarrestabile.
Di fronte a uno sguardo disincantato fa davvero meraviglia come raffinati intellettuali sprechino il loro tempo a discutere sui cambiamenti della politica italiana (ad esempio sull'Africa, o sui migranti) a seconda se capo del governo sia uomo del PD o della Lega-5S. Molto più realistiche le parole di Rosario Crocetta, il presidente della regione Sicilia che nel 2012 aveva revocato l'autorizzazione per l'installazione del Muos e poi, nonostante il Tar gli avesse dato ragione respingendo il ricorso del Ministero della difesa, appena prima dell'appello aveva “revocato la revoca”. Come ebbe a dire il povero compagno Crocetta: “Sono seduto su una polveriera: se si è mossa persino la Cia per far cadere un governo nazionale, figuriamoci cosa può succedere a un semplice presidente della regione”.
È stupefacente come - con oltre cento basi americane sull'intera penisola - ci siano ancora persone convinte che si possa cambiare le cose andando a votare. Per loro e per chiunque sia interessato all'essenza del dominio e non alle sue manifestazioni spettacolari, una lettura indispensabile.

Giuseppe Aiello



“Critica radicale”/
L'esperienza di Ludd alla fine degli anni '60

“... Le donne e gli uomini che si unirono in quei gruppi sono stati i primi e gli unici a porre come criterio, per cogliere il senso di un vissuto rivoluzionario, diversi concetti che oggi sembrano evidenti: l'ideologia interpretata come merce e la merce come ideologia, l'analisi e la critica delle relazioni sociali basate sullo scambio di apparenze fantasmatiche, la critica dei ruoli e dello spettacolo sociale... ” (Progetto Critica Radicale).
Abbiamo tra le mani un grosso tomo (Leonardo Lippolis, Claudio Ranieri, La critica radicale in Italia. Ludd 1967-1970, Nautilus, Torino 2018, pp. 570.+ ill., € 25,00) senz'altro di indiscutibile valore documentario, che – come in genere si dice in questi casi – non può mancare nelle biblioteche di studiosi e specialisti. E si fa soprattutto apprezzare quale ricca rassegna di fonti soggettive (tale di fatto è, almeno per una buona metà delle 570 pagine), peraltro di difficile reperimento. Esso si presenta quindi, in netta prevalenza, come strumento euristico utile ad imbastire altre eventuali narrazioni, ad avanzare magari nuove ipotesi interpretative su quell'intenso, creativo, incredibile e anche per certi versi angosciante quadriennio italiano (1967-1970), qui ricompreso sotto la denominazione di lungo termine e onnicomprensiva di “Critica radicale”. Bene poi precisare, sia sul piano generale del metodo e anche come nostro particolare punto di vista, che comunque le fonti si prendono come sono e non ci interessa certo in questa sede ingaggiare, a distanza di mezzo secolo, una qualsiasi confutazione ex-post di quei contenuti, che risulterebbe insomma fatta con gli occhi di oggi e il senno di poi.
La riproduzione, anche anastatica, di una miriade di documenti è preceduta da saggi di Leonardo Lippolis e di Paolo Ranieri. Il primo autore (L'occupazione definitiva del nostro tempo) ci fornisce, in una sorta di sintesi storica, una mappa che si può rivelare di aiuto alla successiva lettura dei testi prodotti da gruppi, persone, situazioni e sigle varie. Il secondo (Vecchie favole intorno a un giovane fuoco. Ricordi del mio tragitto attraverso Ludd-Consigli Proletari, insieme con alcune riflessioni che ne ho ricavato) ci offre invece un'interessante riflessione autobiografica in chiave attuale su quei movimenti, che sono ritenuti a tutti gli effetti “precursori” dell'antipolitica e dell'approccio antiideologico contemporaneo, assunto su cui non tutti potranno essere d'accordo.
Questo lavoro fa parte di un ampio progetto editoriale di Nautilus che comprende ben tre volumi. Ludd è il primo e annovera la copiosa documentazione relativa al Circolo Rosa Luxemburg, alla Lega Operai Studenti, al Comitato d'azione di Lettere e, appunto, a Ludd con i vari bollettini. Il secondo sarà interamente dedicato al Comontismo coprendo il successivo quadriennio. Il terzo, infine, raccoglierà i documenti relativi a Puzz, Insurrezione, Azione Rivoluzionaria e altri sul periodo che va dal 1975 fino ai primi anni Ottanta.
Mettendosi nei panni dell'editore, sappiamo che la riproduzione integrale di fonti in cartaceo e in quantità così industriale comporta soddisfazioni ma anche enormi sacrifici. Poi c'è sempre il fisiologico rischio dell'incompletezza e della dimenticanza. Per questo, “per chi non si accontenta”, c'è la possibilità di usufruire del sito www.criticaradicale.nautilus-autoproduzioni.org dove verranno digitalizzati i documenti non pubblicati nei volumi. Ed è anche un modo per sopperire alla mancanza di indici di nomi, luoghi e soggetti notevoli che purtroppo non sono stati approntati.
Un libro non è mai un prodotto asettico, neutrale e a sé stante, esso è piuttosto la risultante di idee e miti che hanno circolato insieme a donne e uomini, di progetti individuali e collettivi a lungo accarezzati, di situazioni ambientali e antropologico culturali favorevoli o particolari, di reti sociali di conoscenza che spesso hanno avuto una vastità concentrica inimmaginabile, che vanno ben oltre i rapporti interpersonali sedimentati nel tempo. Per avere – nel nostro caso – almeno un'idea di tutto questo e per capire l'esprit, oltre a leggere e soprattutto “compulsare” il volume di cui stiamo ora scrivendo, oltre ad acquisire / aggiornare tramite web le normali info sull'editore e sulla produzione pregressa degli autori (tutti ineccepibili peraltro), suggeriamo ai lettori un inusuale “gioco” d'indagine conoscitiva.
Prendete i due elenchi che si trovano nelle prime pagine e studiateli, uno è relativo ai ringraziamenti (con una lista di una quindicina di nominativi, si va dai Clash a Joe Fallisi), l'altro riguarda la memoria di personaggi che ormai hanno concluso il loro viaggio e che hanno attraversato – certo con soggettiva determinazione – quegli anni così turbolenti, “tessere del dominio lasciate capovolte, quasi aspettassero ancora d'essere giocate”: Giorgio Cesarano, Eddie Ginosa, Mario Moro, Mario Perniola, Americo Sbardella, Carlo Ventura, Riccardo d'Este, Amerigo Ghigo Alberani, Gianfranco Faina, Giovanni Calamari. Tutti con una biografia militante parecchio originale e, in qualche caso, quasi da fiction.

Giorgio Sacchetti



Messina/
Se centro e periferia non si incontrano mai

Crescere nell'assurdo. Uno sguardo dallo Stretto (a cura di Lorenzo Donati e Rossella Mazzaglia, Accademia university press, Torino 2018, pp. 150, € 17,00) contiene resoconti di autori diversi su Messina, “passeggiata” dal centro alle periferie e indagata da artisti, studiosi e studenti, alla ricerca della città perduta.
Perché si legge in diversi saggi del volume, Messina, la sua identità (in primis urbanistica, ma anche sociale e culturale) sembra averla persa da oltre un secolo, dal terremoto del 1909 che rase al suolo la città, imponendo una ricostruzione post-terremoto, che le élite cittadine (sul modello delle grandi città europee) pensarono dovesse privilegiare il centro, dotandolo di ampi viali e spazi commerciali, di uffici e residenze “borghesi”, trascurando la sua vocazione marittima e lasciando nell'abbandono le periferie.
Lo squilibrio tra centro e periferia, ha prodotto ovviamente disparità sociali e umane, conflittualità e disagio, modelli di vita e culture diverse: rintracciare forme e contenuti delle diverse vicende e delle contraddizioni che hanno segnato la storia di Messina e che caratterizzano il suo presente, facendone prendere consapevolezza soprattutto agli studenti, è stato il fine e il senso del progetto “Crescere nell'assurdo” che nel corso del 2016 ha attivato una nutrita schiera di docenti universitari, scrittori e creativi, ispirati dall'attualità delle analisi di Paul Goldamm che vedeva la gioventù degli anni '60 “crescere” appunto “nell'assurdo”, in un mondo conformista e consumista che tendeva ad ingabbiare la loro vita “preparandoli” ad un futuro di perenni e acritici produttori-consumatori.
Il volume è quindi la trascrizione degli esiti, delle risultanze analitiche e soprattutto delle esperienze di un progetto-azione laboratoriale di rivisitazione della città, che ha coinvolto istituzioni pubbliche (dipartimenti universitari, scuole superiori della città, etc.), sociologi e circoli cittadini, quindi “specialisti” e studenti, proposto e animato da diverse realtà teatrali messinesi (il Teatro dei Naviganti, il regista Pippo Venuti, etc.), che hanno raccontato/interpretato con coinvolgenti e partecipate performance narrative luoghi, segni, storie, mostrando – tra l'altro – le visibili fratture tra le attrattive del centro, moderno non-luogo del consumo, e i disservizi e le precarietà della periferia, dove la rivolta per la riqualificazione – ancorché politica – è da tempo culturale ed estetica e la si scorge, per esempio, in quel che resta dell'opera di un singolare e irregolare ex-emigrante, il cavaliere Cammarata (che a partire dalla sua umilissima abitazione diede vita ad un ampio museo di statue e disegni ispirati ai personaggi di fiabe e cartoon e frutto del suo autodidattico genio creativo) e nei colorati segni e nei temi sociali, nelle istanze utopiche dei murales della street-art che dalle baracche (ancora esistenti) e dall'estremo degrado periferico giungono, dissonanti e provocatori, sino ai quartieri eleganti di un centro-città commerciale e perbenista, indifferente e muto sulla città estrema ed emarginata.

Silvestro Livolsi



Psichiatria/
I demoni del Mezzogiorno

“Vincenzo V., un anziano di 77 anni, che non ebbe istruzione alcuna, è fatto internare dal sindaco di Zambrone solo perché probabilmente affetto da demenza senile e da alcuni mesi vaga di paese in paese. È descritto come un buon uomo sempre di buon umore, ha premura per gli altri infermi che chiama figli o fratelli e si interessa della loro salute. A volte sragiona e crede di essere un generale della marina militare, ma ha buone maniere e di tanto in tanto si lamenta di essere internato in manicomio e si sente abbandonato da tutti.
Per questo povero vecchio, innocuo e non più lucido, non è prevista alcuna cura e al suo caso non è adibito alcun medico; mestamente si attende la sua ora che, inesorabile, giunge l'anno seguente.”
Oscar Greco, nel suo I demoni del mezzogiorno. Follia, pregiudizio e marginalità nel manicomio di Girifalco (Rubbettino, Soveria Mannelli - Cz, 2018, pp. 256, € 18,00) ripercorre la storia della psichiatria italiana ante-Basaglia, descrive ciò che è stato prima della messa fuori legge dei manicomi con la legge 180. In questo senso rappresenta un'occasione di riflessione, di ripensamento, ma soprattutto un monito che ci ricorda, ancora oggi, a quarant'anni dalla cosiddetta legge Basaglia, che dobbiamo sempre aver cura di guardarci dal “fascino discreto del manicomio”, perché è un fascino perverso, ancora oggi capace, come ieri, di cancellare l'umano.
Perché nasce il manicomio di Girifalco? E quando?
Inizialmente progettato come manicomio rurale, l'istituto manicomiale di Girifalco, tra i pochi manicomi meridionali, nacque nel 1881 e “rappresentò una delle tante nuove istituzioni pubbliche per fare gli Italiani, ovvero per creare un modello di cittadinanza fondato sui valori borghesi del XIX secolo: istruzione, occupazione, moderazione sessuale e buona salute.”
Nell'introduzione, l'autore rende noto che l'espansione manicomiale in Italia comincia dopo l'Unità e trova il suo apice con la formazione della Nazione: l'Italia costituisce la sua identità nazionale e contestualmente elimina le contraddizioni, rinchiudendole nei manicomi. Secondo il principio d'identità, ogni cosa è uguale a se stessa: se gli Italiani dovevano essere in buona salute non potevano certo essere anche malati di mente.
Come si viveva in manicomio? Perché si veniva condannati all'internamento?
Greco dà una risposta molto precisa. Il suo libro è una fotografia dell'istituzione totale manicomiale, tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, nel sud dell'Italia.
Tuttavia compie uno sforzo ulteriore: l'isolamento manicomiale – ricordiamo che è questo il paradigma fondante del manicomio: il manicomio è terapeutico, stabilisce il filantropo e rivoluzionario francese Pinel che del manicomio è l'inventore, per la sua triplice valenza di reclusione, isolamento e dominio – lo inserisce all'interno del più ampio contesto socio-culturale dell'epoca.
Cosa si intendeva per malattia mentale? Come era pensata la cura? Cosa significava “mettere in sicurezza” il malato e la comunità?
La malattia mentale era vista come una degenerazione, come il tramandarsi di “tare ereditarie” che lasciavano il loro segno nel corpo del malato, e a cui era associata la pericolosità sociale e la devianza criminale – qui c'è la mai abbastanza rinnegata perniciosa lezione di quel bizzarro eppure clamorosamente famoso neuropsichiatra fine ottocentesco Cesare Lombroso, il cui pensiero ciclicamente ritorna, ancora adesso il ministro degli interni Salvini (forse senza neppure conoscerlo) lo evoca, per “mettere in sicurezza” matti, rom, migranti e altri devianti - la malattia mentale era un morbo insidioso che andava debellato principalmente attraverso l'internamento, la segregazione, la deportazione, la messa a parte, l'esclusione dal consesso sociale di coloro che ne erano affetti.
L'origine della malattia era considerata ereditaria, intrinseca all'individuo e alla sua storia famigliare. Non vi era alcuna attenzione per le condizioni di vita o per gli eventi traumatici. Perfino dinnanzi a orde di soldati traumatizzati dagli orrori della guerra, la psichiatria italiana del tempo si ostina a ricercare segni corporei e tracce ereditarie per spiegare l'esordio della malattia: “Le eredità lombrosiane e le tradizionali pratiche della psichiatria organicista non erano artefatti da poter essere repentinamente posti in discussione.”
Emerge l'immagine di una psichiatria cieca, arroccata rigidamente sulle sue categorie nosografiche e fortemente impegnata ad aderire al mandato sociale che gli veniva affidato: contenere coloro che destavano pubblico scandalo, smascherare i simulatori – quei soldati che “facevano i matti” per non tornare al fronte – e rimandare il prima possibile i combattenti in guerra.
Interessante, da questo punto di vista, la stretta collaborazione dei medici del manicomio di Girifalco con le forze dell'ordine locali: “Le notizie richieste ai carabinieri del comune di origine del militare diventano decisive per la formulazione della diagnosi e per lo smascheramento della simulazione.”
Un esercito di tecnici che non si interrogavano né sugli strumenti né sulle modalità di cura.
Una scienza reazionaria al servizio dell'ordine sociale.
Risulta allora paradossale il caso di un giovane soldato di ventidue anni che, nonostante fosse affetto da un “trauma da guerra”, desiderava “rientrare al più presto al corpo d'armata” perché non poteva sopportare “l'onta e la vergogna di essere un malato di mente agli occhi dei parenti e della comunità di appartenenza.”
Il giovane Nicola viene dimesso dal manicomio di Girifalco nell'agosto del 1917. Nella sua cartella clinica viene ritrovata una lettera del direttore Bernardo Frisco, dove spiccano i seguenti consigli terapeutici: “È opportuno non contrarre matrimonio, perché in questo momento vi potrebbe nuocere in modo sicuro.”
I tarati, i mentecatti, per il bene della società, era meglio non si riproducessero. Anche a questo serviva l'internamento, a favorire la “rigenerazione della società.”
Se pensiamo all'ideologia eugenetica nazista, alla deportazione e all'estinzione dei matti insieme ad altri inadatti, l'ideologia manicomiale italiana e dell'intero pianeta nel corso di due secoli, con la deportazione che determina nient'altro che una eutanasia sociale, non è molto diversa.
Greco ricostruisce e ripercorre, attraverso le cartelle cliniche, le storie di vita dei “detriti umani” internati a Girifalco. Emerge un tratto comune: la miseria.
D'altra parte, Basaglia questo constatò nel suo ingresso nel manicomio goriziano: chi non ha non è. In manicomio trovano internamento e trova la sua sparizione la miseria, i miserabili, i dannati della terra, i vomitati dalla società. Oltre a citare sovente il motto chi non ha non è, Basaglia era solito citare quest'altro motto: nel sud Italia, quando moriva un povero, alla domanda Cu muriu? (Chi è morto?) si rispondeva: nisciunu (nessuno). Un povero non è. Numerose, in questo libro, le storie di démoni, istituzionalizzati perché senza risorse, economiche o relazionali – come se l'essere poveri fosse una colpa da espiare: “Dalla storia di questi internati emerge con chiarezza che l'internamento nei confronti della follia povera non era finalizzato alla cura e alla riabilitazione, quanto piuttosto alla reclusione.”
Altro esempio è la storia di Vito, uomo di mezza età, internato con diagnosi di “demenza profonda”. Vito era un uomo tranquillo, innocuo, che però aveva l'abitudine di leccare le pareti, i pavimenti e di ricoprirsi di sporcizia. Nella sua cartella clinica non si fa alcun riferimento alla cura: “È pensabile che, quando il malato non presentava atteggiamenti violenti o clamorosi (tali da richiedere l'uso del chinino, del bromuro o della morfina) non gli si prestava alcuna terapia, anche perché lo staff medico non conosceva rimedi diversi dai sedativi.” Vito passerà circa vent'anni della sua vita recluso in manicomio, dove morirà nel 1907.
Dovremo aspettare il 1979 per avere un'immagine diversa della miseria, del malato, della cura ed è quella che Franco Basaglia ci regala nelle Conferenze brasiliane:
“Vedemmo che, dal momento in cui davamo risposte alla povertà dell'internato, questi cambiava posizione totalmente, diventava non più un folle ma un uomo con il quale potevamo entrare in relazione. Avevamo già capito che un malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno.”
Allora, se giustificare è impossibile, Greco riesce a farci comprendere quale fosse l'idea di cura della malattia mentale prima di Basaglia.

Elisa Mauri
Piero Cipriano



Ricordando Antonio Infantino/
Un uomo di cultura e il film a lui dedicato

Per Vinicio Capossela, Antonio Infantino è stato un artista dalle mille anime, “un convertitore di energie che trasformava i suoi concerti in rituali collettivi”. Fernanda Pivano lo considerava uno dei nostri migliori rappresentanti della cultura e dello spettacolo negli ultimi cinquant'anni. Dario Fo e Franca Rame, con cui aveva lavorato nel 1969 per la curatela delle musiche dello spettacolo “Ci ragiono e canto”, gli portavano una stima sconfinata. Invece a Fabrizio De Andrè piaceva ricordare di quando negli anni sessanta nelle case discografiche milanesi metteva piede l'artista lucano e tutti gli riconoscevano, nonostante la giovane età, un talento fuori dal normale.

Antonio Infantino
(Di Antonio Infantino - Opera propria, CC BY-SA 3.0,
https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22276495)

Difficile trovare un aggettivo per tutti ed incollarlo su Infantino che può passare di certo per un irregolare, una figura sciamanica, un beat, un genio, un pitagorico di Tricarico (la città del poeta Rocco Scotellaro) che “ha saputo mettere in ritmo e parole un'idea forte di liberazione, tribalizzazione”. Fondatore dello storico gruppo dei “Tarantolati di Tricarico” con una sola nota, battuta insistentemente sulle corde della chitarra ed accompagnata dalle percussioni dei cuppa-cuppa, poteva far scoppiare la tempesta, anzi l'energia della tarantola come diceva lui stesso. Si incupiva quando lo accostavano ad un musicista delle tradizioni popolari del Sud, anche se poi è vero che della tradizione ha studiato gli aspetti sociali, ne ha assunto i moduli sonori per trasformarli in dettami avanguardistici.
Antonio Infantino è scomparso lo scorso gennaio a Firenze, aveva 74 anni e solo alcuni mesi prima era riuscito a portare a termine le riprese di “The Fabulous Trickster”. Docu-film diretto dal compositore jazz Luigi Cinquere su un viaggio che inizia da quello scrigno di memoria che era per Infantino la sua abitazione nel capoluogo toscano in via Santa Reparata, prosegue per Roma dove si aggrega una giovane giornalista (e un corvo parlante che fa ricordare quello nel film “Uccellacci e uccellini” di Pasolini), quindi approdo in Lucania, a Tricarico dove l'artista, pedinato strettamente dalla videocamera di Cinquere, evoca la sua infanzia, gli studi in architettura, il lavoro in Brasile, la nascita dei Tarantolati agli inizi degli anni settanta, la sua musica antica e modernissima (che quando andava bollendo di sonorità sembrava che dalla terra si svegliassero delle forze magiche e misteriose, per non dire poi dell'effetto euforico ed adrenalinico che riusciva ad espandere nel pubblico il quale prendeva a ballare in un movimento di libertà estrema.)
Come la “Tarantola” che è una movenza circolare che torna ad un punto di partenza, così anche il viaggio di Cinquere si chiude pressappoco laddove era iniziato: in Toscana. Siamo per l'esattezza alle pendici dell'Amiata, nelle acque del fiume Albegna, qui il regista, Infantino e la giovane cronista (Monica Berardinelli) si immergono per un bagno di purificazione, quasi a voler scacciare via dai loro corpi le forze negative. Un rito dal forte effetto filmico, catartico, liberatorio come è stata tutta l'arte del guru Infantino che, accendendo il caos delle sue sferraglianti chitarrate su una sola nota, ha saputo far ballare, scatenare emozioni, rievocare lontani rituali e liturgie pagane.
“The Fabulous Trickster” non è solo un bel film su un artista rivoluzionario, ma il miglior ritratto che si potesse realizzare su Antonio Infantino.

Mimmo Mastrangelo