Rivista Anarchica Online


contro le guerre

L'autunno dell'umanità

colloquio di Carlotta Pedrazzini con Giorgio Fontana

Germania, 1946: uno scrittore anarchico svedese, Stig Dagerman, fa un'inchiesta tra la popolazione tedesca. I suoi articoli, al centro di accese polemiche, diventano un libro (Autunno tedesco) da poco ripubblicato, con uno saggio di Giorgio Fontana, scrittore e nostro collaboratore. Qui intervistato da una nostra redattrice su guerra, orrori, responsabilità individuale, etica, anarchismo...

Dresda, 1945

Carlotta – Appena abbiamo saputo che nel libro Autunno tedesco di Stig Dagerman c'era un tuo scritto, abbiamo subito pensato di contattarti per fare una chiacchierata. Soprattutto per confrontarci sulle tante questioni importanti che pone l'opera. Parlaci un po' del volume.
Giorgio – Il mio contributo al libro è una post-postfazione, uno scritto in più che è stato inserito dalla casa editrice in questa nuova edizione. Il volume raccoglie i reportage che Dagerman inviò ad un giornale locale svedese, l'Expressen, per raccontare l'autunno tedesco del 1946, subito dopo la fine della guerra.
A mio avviso la cosa veramente interessante del testo, al di là del valore letterario, è la lezione che rimane attualissima, ossia non badare alle verità di comodo.
Per comprendere la situazione, Dagerman esercita quella che definisce “l'arte di scendere in basso”; parla con le persone, va nelle cantine allagate dove abitano migliaia di persone in seguito ai bombardamenti, nei luoghi più pericolosi e moralmente ripugnanti. Critica i suoi colleghi che erano stati in quelle stesse cantine, ma ne erano scappati dopo aver sentito le persone affermare che con Hilter la loro vita era migliore.
Pur essendo un antifascista cristallino, Dagerman non fugge davanti a questo orrore e capisce che, per quanto aberrante, è necessario trovarvi delle ragioni; tra quelle che lui identifica c'è il fatto che “la fame è una cattiva maestra”.
I suoi reportage raccontano dei gerarchi nazisti che trovano comunque il modo di farcela, di perpetrare in qualche modo la loro esistenza borghese, e dei poveri che se la passavano male con Hitler e ancora peggio dopo Hitler. Narra di un paese che in verità non è stato denazificato, in cui i processi di epurazione procedono a fatica.
Nelle sue riflessioni troviamo la critica all'idea di giustizia come vendetta reiterata su un intero popolo, principalmente perché inutile.
Lo sguardo di Dagerman è privo di compromessi. Non giustifica il nazismo, ma al contempo non è assetato di vendetta, nemmeno narrativa. Possiede un'empatia naturale verso le persone che lo porta a vedere quanto la situazione sia complessa. E questo secondo me gli deriva dal suo essere libertario e anarchico. La sua autonomia e indipendenza di visione è un passo avanti enorme nel reportagismo dell'epoca. Autunno tedesco è un libro inestimabile e preziosissimo, a maggior ragione oggi.

Il libro mi ha fatto molto riflettere, soprattutto su una delle questioni che hai citato, della fame come “cattiva maestra”. Nei suoi scritti Dagerman critica i giornalisti che si recano in Germania aspettandosi di trovare cittadini tedeschi alla fame, ma portatori di idealismo, di moralità e di etica. Critica l'indignazione dei suoi colleghi cronisti di fronte a persone che dichiaravano che con Hitler si stava meglio e sostiene che le loro aspettative erano infondate, perché sostanzialmente ciò che il popolo tedesco voleva era il cibo, visto che non l'aveva.
Dagerman ci dice che la fame porta a mettere da parte il pensiero di organizzarsi e di pensare ad una soluzione che sia più generale e che non risolva solamente la propria immediata condizione personale. Però questa giustificazione materiale, se estesa, porta su un sentiero quantomeno scivoloso.
Personalmente mi sono chiesta: questa deroga alle questioni morali ed etiche, che di fatto Dagerman concede, vale solo per il popolo tedesco oppure, più in generale, andrebbe estesa a tutte le persone che soffrono in ogni momento storico? Dico questo avendo presente che il nazismo attecchì e ottenne grandi consensi in un paese colpito da una fortissima crisi economica. Eppure questo non può giustificare l'adesione al nazismo.
Qual è allora il grado di sofferenza e di ingiustizia che ammette una deroga ideologica e morale? Penso alle persone ai margini estremi della società, a chi vive al di sotto della soglia di povertà o a cavallo di essa, ma anche alle persone che non hanno accesso alle stesse opportunità cui abbiamo avuto accesso io e te, ad esempio.
Mi sembra una questione di grande attualità, visto il crescente sostegno dato alle destre anche da quelle persone che sono state sbalzate alle fasce più esterne della società, da chi è vittima dell'ingiustizia sociale. Le loro eventuali scelte politiche slegate da etica e morale (il sostegno a partiti fascisti e xenofobi, ad esempio) non possono, a mio avviso, trovare una giustificazione materiale.

Secondo me la proposta di Dagerman funziona fin tanto che è concentrata in quel preciso momento storico in cui si aveva un'emergenza totale, morale, politica e anche materiale, di fame. È ovvio che sia rischioso estendere la ricetta dicendo che la condizione materiale implica sempre una forte influenza sulle scelte morali. Ci sono mille contro esempi di persone che fanno la scelta giusta anche in condizioni materiali deplorevoli. E poi applicando quel ragionamento è difficile fermarsi, perché qual è la condizione ottimale per raggiungere una moralità cristallina?
Dall'autunno tedesco del '46 non si può trarre una ricetta utile ad ogni occasione, perché effettivamente è un terreno molto scivoloso. Secondo me, e questa è un'opinione personale, bisognerebbe considerare caso per caso le varie situazioni.

Autunno tedesco (Iperborea,
Milano 2018, pp. 160, € 16,00)

Negli scritti di Dagerman troviamo una denuncia fortissima alla guerra in quanto tale, che produce morte e sofferenza anche quando è giustificata, come nel caso della lotta al nazismo. Il suo antimilitarismo lo porta a sottoporre al lettore le conseguenze dello sterminio e delle atrocità, senza tralasciare quelle commesse dal lato giusto dello schieramento, ossia quello che ha combattuto il nazifascismo. Una scelta che non è in alcun modo dettata dalla volontà di equiparare le azioni commesse dai due schieramenti, ma dalla tragica necessità di denunciare la guerra quale inevitabile portatrice di orrori.
Una cosa che Dagerman fa è proprio quella di non far passare sotto silenzio anche le atrocità del lato giusto, i bombardamenti degli alleati che, come dice bene anche Sebald in Storia naturale della distruzione, erano molto spesso indiscriminati e non servivano a vincere la guerra. Erano la testimonianza della volontà di annichilimento.
Da una parte abbiamo quindi i campi di concentramento, dall'altra abbiamo Dresda, Hiroshima e una quantità di orrori terrificanti. Nessuno ne parlava, neanche i giornalisti più avveduti, e Dagerman fu sostanzialmente solo e anche molto criticato.
La particolarità della seconda guerra mondiale, a differenza di tutte le guerre precedenti, è che ad un certo punto ha assunto anche un valore morale. Non si trattava più di uno scontro fra stati, ma di una lotta fra umanità e disumanità.
Perciò è naturale e ovvio stare dalla parte degli antifascisti: ma al contempo riconoscere che anche in quel campo vi furono eccessi che Dagerman ha saputo raccontare con coraggio e abnegazione.
La seconda guerra mondiale è l'esempio lampante che anche la guerra più giusta è un orrore. Dovremmo farci carico di tutte queste riflessioni, senza infilare la testa nella sabbia, giustificando sempre tutto attraverso l'indispensabilità.

Prima hai citato i processi di denazificazione. Nel libro c'è una parte molto bella in cui vengono descritti i tribunali del 1946, come si comportavano i giudici, chi erano, come funzionavano i processi.
Dagerman fa una considerazione che ora, dopo più di settant'anni, sembra quasi banale, cioè che nessun nazista importante finì mai davanti a quei giudici. Già nel '46 erano tutti spariti. Dai tribunali passavano personaggi assolutamente minori o cittadini comuni, mentre alcuni si trovavano a dover pagare senza aver di fatto commesso alcun crimine.
Attraverso questi racconti, Dagerman pone la questione, aperta ancora oggi, di come bandire il nazismo inteso come idea che gli individui hanno nelle loro teste prima ancora che come organizzazione. Ma, da un punto di vista anarchico e libertario, il problema che il racconto di quegli episodi pone è più generale e riguarda la giustizia. Ossia cosa fare coi nazisti. I tribunali – ci racconta Dagerman – erano ingiusti, mal funzionanti, guastati da vizi di forma e da malafede. Ma qual era l'alternativa? Affidare i criminali alla giustizia popolare? Non fare niente?
A mio avviso Dagerman ci fa riflettere sui potenziali, ma anche effettivi, problemi di queste tre possibilità. Il tribunale ha delle evidenti e gravissime storture, le aveva nel '46 e le ha ancora oggi; ma anche la giustizia popolare le ha. Perché non prevede una difesa, non prevede il diritto dell'imputato, non presume l'innocenza, e magari finisce con il linciaggio o l'impiccagione. L'inazione, invece, non si discosta dalla pacificazione e dalla parificazione tra fascisti e antifascisti proposta da alcuni. Quindi resta sospesa la domanda: cosa fare?

Poniamo di ritrovarci in una condizione di dover scegliere tra il tribunale, la cosiddetta giustizia popolare o il quietismo. La giustizia popolare tendenzialmente produce forche e, come diceva Malatesta, gli anarchici dovrebbero starne lontani. Perché spesso sono aizzate dalla volontà di trovare capri espiatori, non guardano alla differenza tra presunto colpevole e colpevole, eccetera. Per contro il quietismo rischia di confondersi con l'indifferenza o l'oblio.
Quindi, cercando di rispondere a entrambi i corni della tua domanda: bisognerebbe far convivere memoria storica e giustizia.
Pensando alle tragedie del nazifascismo, dobbiamo innanzitutto difenderci dai revisionisti e dall'annacquamento delle differenze che tanto va di moda oggi. Questo è il primo punto, di natura pedagogica: l'antifascismo è militanza, ma anche una questione culturale.
Il secondo punto, e qui mi rifaccio un po' anche a Berneri, è che il movimento libertario ad un certo punto dovrà porsi la questione di come si esercita la giustizia, così come di un codice penale. Conosciamo le storture dei tribunali liberali, ma cosa faranno in futuro gli anarchici? Ne faranno completamente a meno e lasceranno che le cose si risolvano da sé oppure con la giustizia delle masse?
Secondo me bisognerebbe con molta umiltà e sincerità porsi il problema di una giustizia anarchica. Cioè una giustizia che potrebbe trarre spunto dalle parte migliore della giustizia liberale degli ultimi secoli, espungendone tutte le caratteristiche peggiori, come l'estrema complessità della legge, la confusione tra giustizia e vendetta, il fatto che la punizione consista nel prendere della gente e schiaffarla in luoghi orrendi.
È un problema che va posto, urgentemente, altrimenti può sembrare che gli anarchici girino la testa dall'altra parte. Parliamo concretamente, prendiamo ad esempio un uomo che abbia violentato dei bambini, cosa ne facciamo? Crediamo che un domani in un'ipotetica società anarchica non si porrà questa eventualità? Possiamo cercare di prevenire in ogni modo la devianza; ma anche in una società anarchica esisterà il male, a meno di non credere a favolette ireniche. E allora cosa faremo di questo pedofilo? Lo daremo in mano ai genitori perché lo uccidano? Lo lasceremo agire indisturbato nella società oppure stabiliremo una forma di giustizia libertaria?
Secondo me tutto questo va posto urgentemente. La questione del diritto è cruciale, ma viene buttata sempre sotto al tappeto perché scotta, è complessa.

Stig Dagerman (1923-1954) giornalista e scrittore
anarchico, è stato redattore della rivista “Arbetaren”,
periodico della SAC, sindacato libertario svedese

Tra le questioni che Dagerman affronta nei suoi scritti sull'autunno tedesco del 1946 c'è anche quella del libero arbitrio che torna in più punti, ma a mio avviso esce maggiormente nella descrizione di un incontro tra alcuni giovani tedeschi e un giurista implicato nella denazificazione.
In quell'occasione i giovani dichiarano di essere entrati nel partito, di aver preso la tessera, perché gli adulti non li avrebbero tutelati se non l'avessero fatto. Quindi, dicono, la loro è stata una scelta obbligata e non è giusto che paghino per averla intrapresa.
Si pone allora il problema delle scelte individuali, ossia capire quanto siano una somma di influenze esterne e a che punto invece subentri la libertà individuale. Perché se decidiamo di interpretare le scelte dei singoli come interamente determinate, e quindi giustificate, dalle influenze esterne (come quei giovani descritti da Dagerman), allora annulliamo qualsiasi spazio di libertà e, conseguentemente, di responsabilità. Significherebbe certificare che gli individui sono solo degli automi in balia del mondo che li circonda.
Al contempo però non si può negare l'influenza dell'ambiente circostante sulle scelte individuali.

Su questo Dagerman tiene un po' i piedi in due scarpe. Da un lato dice che è sbagliato trattare quei giovani da criminali, perché significherebbe rimuovere le cause materiali che hanno portato a quella situazione. Però poi ci fa capire che le cause materiali hanno un peso innegabile, ma fino a un certo punto. Altrimenti vivremmo in un mondo totalmente deresponsabilizzato.
Queste riflessioni sono valide anche per l'oggi. Ciò che mi colpisce tristemente dei tempi che stiamo vivendo è che da un lato si dà troppo poco peso a certe cause sociali; come se tutto dipendesse dall'iniziativa del singolo e non ci fossero invece enormi diseguaglianze di partenza, di cui l'intera comunità è colpevole. Ma allo stesso tempo mi sembra che ci sia una continua volontà di deresponsabilizzazione e che tutto si riduca nella frase “le condizioni esterne mi hanno costretto a farlo”.
Secondo me chiunque abbia a cuore la libertà dovrebbe respingere entrambe queste due tendenze, riconoscendo ampiamente il concetto di attenuante per condizioni materiali o psicologiche, ma avendo ben chiaro che ci sono persone che pur vivendo in situazioni di privazione, hanno saputo fare le scelte giuste. Altrimenti, come dici tu, saremmo automi sottomessi al determinismo. Insomma, torniamo sempre lì: il solo progresso possibile deve combinare eguaglianza e libertà; educazione alla eguaglianza ed educazione a libertà e responsabilità. Un socialismo libertario, appunto.

Secondo te quanto c'è di anarchico nel pensiero critico di Dagerman?
Per rispondere a questa domanda si deve prendere in mano il suo libro La politica dell'impossibile. Dagerman è stato immerso in un alveo di pensiero libertario e anarco-sindacalista fin da quando aveva sedici anni. Era un militante, ma anche un artista, uno scrittore che ad un certo punto ebbe successo e il mondo borghese tentò di portarlo verso di sé. La sua vita letteralmente si spezzò tra la militanza e questo mondo di borghesi intellettuali, tanto che andò in cortocircuito e si suicidò giovanissimo, a trentun'anni.
Negli scritti raccolti in quel volume traspare la sua idea di utilizzare la cultura come mezzo di emancipazione personale e sociale, la sua equidistanza dai due blocchi, quello delle democrazie liberali e quello sovietico. Aveva ben presente quello che era successo in Spagna con i comunisti.
Anche nel suo testo Perché i bambini devono ubbidire? esce questa sua costante ricerca della concretezza. Dal punto di vista pedagogico, non fermarsi a parlare di educazione libertaria ma porsi il problema di come metterla in pratica.

Carlotta Pedrazzini



Guida minima alla lettura di Stig Dagerman

di Giorgio Fontana

Stig Dagerman (1923-1954) è stato uno dei maggiori scrittori svedesi del Novecento – e, per quanto poco noto al pubblico di massa, uno dei maggiori scrittori del Novecento in generale. In vita ebbe immediato successo, e fu probabilmente questo successo ad aggravare la depressione latente che lo tormentò fin da giovane. Intellettuale e militante formatosi nell'ambiente anarcosindacalista – fu per diverso tempo redattore del settimanale libertario Arbetaren – Dagerman non scese mai a patti con le tentazioni della cultura borghese: la sua altissima considerazione della parola libera lo rendeva ben poco addomesticabile.
E tuttavia, il nodo delle contraddizioni che lo attraversavano non venne mai sciolto: politicamente soffriva l'isolamento che hanno spesso patito gli anarchici; privatamente, dovette far fronte a una grossa crisi creativa e a diversi problemi familiari e sentimentali. Tutto questo lo portò a suicidarsi a soli trentun anni: la sua fine l'ha reso una figura mitica per la letteratura esistenzialista e per diverse generazioni di scrittori alla ricerca di un ideale di purezza e intransigenza; ma è anche un monito ad affrontare i suoi scritti con cautela, con ulteriore rispetto.
Oltre allo straordinario reportage Autunno tedesco, sono disponibili in italiano diverse opere di narrativa e saggistica, per la maggior parte pubblicate da Iperborea: purtroppo restano ancora non tradotti i primi due romanzi, il teatro e gran parte degli interventi politici.
Un buon modo di avvicinarsi a Dagerman è leggere il suo capolavoro, Bambino bruciato (Iperborea). È la storia di un ventenne, Bengt, sospeso tra l'odio verso il padre, il sentimento puro ma esile verso la coetanea Berit, e l'inatteso amore fisico che germina nei confronti della matrigna Gun. In Bengt si riflette il prototipo dell'eroe dagermaniano: l'adolescente deluso dalle convenzioni del mondo adulto, altero e a volte intriso di senso di superiorità, ma assolutamente incapace di cinismo.
Questo si riflette anche nello stile: limpido e trasparente, ma non per questo affetto da aridità, freddezze o eccessi minimalistici. Anche sfogliando i racconti contenuti ne Il viaggiatore e ne I giochi della notte (in libreria sempre per Iperborea), si ha subito la misura della lingua esatta e vertiginosa di Dagerman; si può percepire direttamente la sua luminosità. Nemico com'era dei fronzoli e della retorica, lo svedese obbedì per tutta la vita a un'intuizione fondamentale, frutto del suo immenso talento: ciò che Graham Greene chiamò “meravigliosa oggettività” e che richiama l'approccio visivo di molto cinema nordico – penso naturalmente al primo Bergman. Nelle due raccolte sopra citate troviamo capolavori del genere come Ho remato per un lord e il terribile Uccidere un bambino: ma gli affezionati di Stig non dovrebbero lasciarsi sfuggire anche i tre racconti brevi L'uomo che non voleva piangere, I vagono rossi e L'uomo di Milesia, pubblicati dall'editore Via del Vento.
Il recente La politica dell'impossibile e Perché i bambini devono ubbidire? (di nuovo entrambi editi da Iperborea) raccolgono alcuni interessantissimi interventi di carattere libertario. Il primo volume è una scelta di articoli pubblicati su Arbetaren e altri periodici, in cui Dagerman illustra il suo rigoroso anarchismo come terza via rispetto alle democrazie liberali dell'Occidente e al totalitarismo sovietico: e legando a questo bisogno di libertà anche la sua attività artistica. “In che cosa spero?”, scrive. “In una letteratura che, senza alcun riguardo, combatta per i tre diritti inalienabili dell'essere umano imprigionato nelle organizzazioni politiche e di massa: la libertà, la fuga e il tradimento. E intendo la libertà di non scegliere tra annientamento e sterminio, la fuga dal futuro campo di battaglia in cui si sta preparando il disastro, il tradimento di ogni sistema che criminalizzi la coscienza, la paura e l'amore per il prossimo.” Perché i bambini devono obbedire? si concentra invece su argomenti pedagogici: per preservare la meraviglia e il carattere ludico dell'infanzia – un leitmotiv dagermaniano – egli propugna un'educazione che sappia valorizzare la responsabilità individuale, invece di stimolare il triste automatismo alla sottomissione.
Ho lasciato per ultimo il testamento letterario e spirituale di Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione (Iperborea); uno dei testi che non dovrebbero mancare in qualsiasi biblioteca. È una riflessione toccante sui suoi tormenti principali: il costante bisogno di autenticità e integrità morale, il rifiuto delle compromissioni, la fatica di trovare ogni volta una parola ricolma di verità e realmente degna di non soccombere al silenzio.
Concludo dunque citandolo: “Siccome desidero assicurarmi che la mia vita non sia priva di senso e che io non sia solo sulla terra, raccolgo le parole in un libro e ne faccio dono al mondo. Il mondo mi dà in cambio dei soldi, la fama e il silenzio. Ma che m'importa dei soldi, che m'importa di contribuire a rendere più grande e perfetta la letteratura? L'unica cosa che mi importa è quella che non ottengo mai: l'assicurazione che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo.”

Giorgio Fontana