Rivista Anarchica Online


società

Ma quale 99%

di Francesco Codello

La realtà sociale è molto più complessa di quanto sostenuto nello slogan nato ai tempi di Occupy Wall Street. E la trasformazione sociale richiede anche un grande lavoro su noi stessi.


«Siamo il 99 per cento!». Il felice slogan coniato durante le proteste statunitensi, che si autodefinirono Occupy Wall Street, iniziate nel settembre del 2011, con l'occupazione pacifica dello Zuccotti Park a New York da parte di numerosi attivisti, contro il dilagante potere della finanza e del capitalismo globale, è diventato un manifesto politico dell'antagonismo internazionale. Ciò che si afferma, assumendo questo slogan, è che la ricchezza del mondo è nelle mani ben salde di un'estrema minoranza, che la stragrande maggioranza delle persone è esclusa da questa agiatezza e che, pertanto, tutto ciò rappresenta un'evidente enorme ingiustizia sociale che deve essere combattuta. Tutto questo è palese e incontrovertibile, nessuno può negarlo. Ma questo slogan, come abbiamo visto efficacemente documentabile, può ingenerare alcune false illusioni e, soprattutto, può condizionare il nostro approccio ai processi di trasformazione sociale.
Avere la consapevolezza che ci sono delle élite molto ristrette che governano il mondo, a scapito della stragrande maggioranza di uomini e donne che subiscono tutto questo, è certamente utile e rappresenta un primo passo in un percorso di consapevolezza sociale e può sicuramente costituire un punto di partenza per quel necessario strappo e quella inevitabile rottura con l'immaginario sociale dominante.
Ma, dietro questo slogan, si possono celare dei pericolosi inganni e da esso possono ingenerarsi delle convinzioni pericolosamente autogiustificatorie. In altre parole, vorrei mettere in guardia tutti quelli che (come me del resto) aspirano coscientemente a trasformare questo mondo di ingiustizie e di violenze e invitarli a verificare, sempre e continuamente, la validità del proprio progetto di cambiamento sociale e culturale. Infatti, segnalo ovviamente un pericolo, si può talvolta correre il rischio di interpretare la realtà secondo i propri desideri o, peggio, sovrapponendo degli schemi mentali (caratterizzati da consolidate abitudini e da convinzioni che si autogiustificano in modo perlopiù autoconsolatorio) a ciò che ci appare.
Tornando allo specifico dello slogan «siamo il 99 per cento!» si potrebbe autoconvincersi che il gioco sia fatto: è sufficiente che questo novantanove per cento prenda coscienza e «oplà!», il gioco è fatto.
Già, ma perché non succede questo, perché la stragrande maggioranza delle persone non prende coscienza di questa vergognosa ingiustizia e non mette in moto un cambiamento finalmente storico che ristabilisca una equità sociale a fondamento di una società che sappia veramente essere degna dei valori di uguaglianza e di solidarietà? Ovviamente le spiegazioni possono essere tante, articolate, complesse, sicuramente anche prese in toto ancora non riuscirebbero a spiegarci questa situazione, ma possiamo almeno cominciare a verificarne qualcuna.

Ma ci sono posizioni intermedie

La mia sensazione è innanzitutto che questo slogan non dica esattamente la verità. Certo, statisticamente, esso rappresenta la realtà della distribuzione della ricchezza globale e fotografa questa mostruosa disparità che governa le nostre società globali. Ci dice anche che i rapporti di forza sono inversamente proporzionali alla consistenza delle due parti in campo. Ma non ci spiega la paralisi diffusa, non svela le più complesse componenti in campo che determinano questa assurda situazione.
Non è mia intenzione fare dello psicologismo sociale a buon mercato, neppure presumere di avere capito fino in fondo le verità che si nascondono all'interno di questa situazione. Però mi pare doveroso denunciare il pericolo che l'assunzione di uno slogan come questo può produrre. Innanzitutto mi preme evidenziare allora che questo slogan, che contiene forti elementi di attendibilità da un certo punto di vista, da un altro non racconta la verità piena. Non solo dal punto di vista statistico: dividendo il mondo in due parti così nette semplifica anche statisticamente la complessità della dinamica tra le varie classi sociali dal punto di vista della distribuzione del reddito stesso.
Nonostante la devastante crisi degli ultimi trent'anni esistono ancora molte differenze di benessere intermedie tra due polarità (estrema povertà e ricchezza sfrontata). Ma, soprattutto, e questo mi pare l'elemento più difficile da capire e soprattutto da scardinare, questa semplificazione non tiene conto di una serie di elementi culturali e psicologici che sono in gioco all'interno di queste dinamiche. La colonizzazione estrema dell'immaginario sociale, da parte dell'ideologia del dominio, ha raggiunto livelli così ampi e profondi di penetrazione nella cultura popolare che è molto difficile, quantomeno nei desideri e nelle aspirazioni, tracciare, come un tempo appariva più semplice e vero, un netto e deciso confine tra chi detiene il dominio (ai vari livelli e nelle varie forme) e chi lo subisce. L'aspirazione forse più diffusa tra i ceti sociali e le classi più povere (sia a livello economico che geografico) è spesso quella di raggiungere, quando non addirittura di sostituire, i livelli di ricchezza, di successo, di benessere, di esclusività, propri delle attuali élite dominanti. Ovviamente chi aspira a sostituirsi ad altri nella piramide sociale, chi investe la propria esistenza o ipoteca quella dei propri figli, in una direzione come questa, chi si impegna e si prodiga con ogni mezzo a scalare le gerarchie economiche e politiche che in questo momento non gli sono concesse, non è per nulla disposto al cambiamento, perlomeno non lo è nella direzione da noi auspicata.

Cambiamento sociale e personale

Questo significa, se è condiviso, che la stragrande maggioranza dei cambiamenti che avvengono dentro questa situazione, seguendo questa logica purtroppo dominante, non sono per nulla forieri di alcuna possibilità di avviare la trasformazione sociale in senso libertario. In altre parole sto dicendo che una reale mutazione non può avvenire che invertendo la direzione di marcia, assumendo altri comportamenti sociali, vivendo relazioni interpersonali più coerenti ed egualitarie, rivoltandosi contro questo immaginario sociale così terribile e discriminante. Ma senza una continua tensione verso una “visione“ di un altro modo di vivere, senza il rifiuto deciso e netto di valori così meschini e violenti, senza una continua e diffusa sperimentazione in tutti gli ambiti della vita di ogni giorno di nuove modalità di rapportarci agli altri, di nuove esperienze di produzione, consumo, distribuzione, educazione, gestione, ecc. che vadano in direzione antiautoritaria, non potremo che illuderci che il cambiamento un giorno arriverà ineluttabilmente. Il pericolo è quello di risvegliarsi in una società di nuove macerie e di scoprire che la realtà è ancora un incubo. Tutto questo presuppone di avere la consapevolezza che ogni cambiamento sociale è anche un cambiamento personale (e viceversa), che la trasformazione profonda e autentica è un processo complesso e articolato, fatto di tanti passi, intriso di inevitabili contraddizioni, che alterna lentezza e improvvise spinte propulsive, ma che deve rifuggire da ogni illusionistica scorciatoia. Come ben ricordava Colin Ward «l'anarchismo, in tutte le sue forme, è un'affermazione della dignità e della responsabilità degli esseri umani. Non è un programma di mutamenti politici, ma un atto di autodeterminazione sociale».
Ecco perché non basta essere convinti che «siamo il novantanove per cento».

Francesco Codello