Rivista Anarchica Online





A cavallo delle Alpi:
storie di canzoni migranti

Recentemente un'istituzione piemontese che si occupa della permanenza, del censimento e della diffusione delle lingue minoritarie - dunque anche del francese che, con i vari dialetti piemontesi e i “patois” occitani, in quella regione è appunto una lingua minoritaria - mi ha commissionato uno spettacolo sulle canzoni “migranti”: dunque non solo le canzoni di chi emigrava, ma anche le canzoni che esse stesse si muovevano a cavallo delle Alpi.
La chiave di volta da cui son partito è stata quella di raccontare, attraverso talune ballate popolari, storia e mito del confine.
Il canto da cui son voluto partire è uno delle matrici più nobili delle cosiddette “ballate epico-liriche”, un capolavoro riconosciuto della nostra letteratura di tradizione anonima, presente nella storica raccolta dei Canti Piemontesi di Costantino Nigra (1888) e restituitoci dall'incredibile memoria dell'“informatrice” astigiana Teresa Viarengo, innumerevoli le successive versioni nell'ambito del Folk Revival. Si tratta di una ballata di passione e gelosia, vendetta e morte, dai toni estremamente foschi, a dispetto del linguaggio sognante e dell'incedere quasi onirico. È nota come “Prinsi Raimund” oppure “Gli anelli”.
Il Principe Raimondo sposa la bella Mariunsin, la ingravida e in capo a un anno riparte alla guerra, lasciando a vegliare sposa ed erede il fratello fellone Principe di Lione, che dapprima fa proposte indecenti alla cognata, poi davanti al netto rifiuto ordisce la vendetta. Si fa confezionare da un orafo fidato due anelli uguali a quelli lasciati in pegno di fedeltà da Raimondo e parte a dare notizie (“buone per me cattive per te”) al fratello.

Prinsi Raimund, a s'völ maridé
Dama gentila, se chièl völ spusé
L'é pa 'ncur 'n an, ca l'é maridé
O che la guèra, ai tuca già 'ndé.

Fait a sté cà, so fratelin
Perché i guernèisa, 'l so bel fìulin (...)
O se vi dico, dama gentil
Vurèisi fémi, l'amur a mi
O no no no, o prinsi 'd Liùn
Mi i fas pa's tort, a mio marì.

Prinsi 'd Liùn, va da l'anduradur
Per fesi fé, dui anelun
Dui anelun, due anelin
Cumpagn ad cui, 'd la Mariunsin. (...)

Prinsi Raimund, l'à vist a venir
O che nuveli, 'm purtevi a mi
Bunhi per mi, e grami per vui
La vostra dama, l'à fami l'amur.

Raimondo non vuol credere, ma davanti alla prova (i due anelli, identici a quelli nuziali) cede alla furia e parte così a spron battuto che i bastioni della città tremano al suo arrivo. Controcampo: la di lui madre scorge Raimondo che si avvicina e avvisa la Mariunsin, consigliandole di salutare il marito porgendogli il neonato. Raimondo, come una furia, afferra il figlio e lo schianta giù per le scale, poi lega la moglie alla coda del cavallo e la strascina, tanto che i già provati bastioni della città continuano a tremare. L'agonizzante Mariunsin dice a Raimondo di controllare il cofanetto degli anelli, e questi non ha bisogno nemmeno di aprirlo, basta il “din-din” dei monili a farlo rinsavire e convincerlo a un suicidio riparatore.

A l'à piàlu, per man e per pé
Giú dai scalé, a l'à falu vulé
O pian pian pian, o sur cavaier
Perché'm masévi, 'l me fiulin bél. (...)

A l'à grupà, la dama gentil
Tacà la cùa, del caval grisùn
E tantu fort, cum lu fasìa 'ndé
Le pere 'd la vila, i fasìa tremé.

O ma da già, ca i ö da murì
Piévi la ciav, del vost cufanin.
A l'é 'ndürbìnd, cul bel cufanin
Finha le gioie, i fasìu din din.

Il mai abbastanza compianto maestro e amico Bruno Pianta faceva discendere da questa ballata che adorava tutta una serie di considerazioni accessorie sull'origine dei racconti medievali, sui loro percorsi per l'Europa e financo sul loro arrivo in America, dove, a suo avviso, non erano state portate da contadini emigranti, ma da cantastorie professionisti girovaghi, forse anche ciechi (la sua intuizione era che il continuo uso di un espediente cinematografico ante litteram quale il campo-controcampo, è tipico dei narratori non-vedenti). Giunto all'apice drammatico del racconto - l'orrenda uccisione del neonato e della Mariunsin - Bruno si alzava in piedi e tuonava “È un Hammer-Movie!” (si riferiva ai film dell'orrore di serie B degli anni Cinquanta), alludendo al fatto che il pubblico popolare ha sempre amato i particolari truculenti, e che i Cantastorie, assetati di mance, erano ben disposti a dargliene.
Io però per rasserenare il mio di pubblico - visto che il mio cachet è già pattuito - propongo, dopo questa, un'altra delicata ballata d'amor bucolico, che già canto nello spettacolo “Bella Ciao”, di origine probabilmente colta, ma passata nel repertorio popolare, che si chiama “Jolicoeur”.

(...)
Bel galant a l'è sta in tan Franza
là va 'n piaza a spasighè
a si scuntra 'na franzeisa
ca parlava la piemonteisa:
Oh mossiè basè mua bien !
oh mossiè basè mua bien !”

(...)
E ades che l'avei basà me,
bel galant mi spuserai !
Sa l'è l'omm che mi pensava,
sa l'è l'omm desiderava
di spusè me jolicoeur,
di spusè me jolicoeur!”


”Mannaggia a li francesi e a chi je crede”: giacobini
e sanfedisti nel Settecento, patrioti nel Risorgimento

Se i canti che ci vengono dalla notte dei tempi hanno ambientazione francese, forse per imitazione e discendenza dalla grande tradizione dei trovieri, delle saghe arturiane, delle storie dei Paladini, quelli che con più precisione possiamo far risalire alla fine del Settecento invece si legano all'ambiente e ai rivolgimenti della Rivoluzione Francese e degli sfortunatissimi tentativi di imitazione italiani. Sebbene però la nostra sensibilità moderna ci faccia simpatizzare con i rivoluzionari, che quasi sempre pagarono carissime le loro idee, il più noto canto della Rivoluzione Partenopea del 1799 è decisamente sanfedista e violentemente anti-giacobino “Sona sona/sona Carmagnola/sona li cunsiglie/viva 'o Rre cu la famiglia”.
Io ho però scelto di cantare non questo “Canto dei Sanfedisti” napoletano, reso celeberrimo dalla Nuova Compagnia di De Simone, ma uno straordinario doppio canto romano, che ho appreso dal gruppo milanese Voci di Mezzo e dal loro indimenticabile maestro Angelo Pugolotti (quanti morti, mannaggia!): nella prima parte ci sono delle strofette sanfediste che richiamano i canti di malavita (a sancirne con certezza l'origine popolare), dall'altra un proclama idealista sulla fratellanza universale di origine certamente più colta.

Mannaggia li francesi e chi je crede!
vonno venì qua Roma pe' le strade
a facce rinunzià la Santa fede.
Io vojo stà a vedé chi sarà er primo
de casa nun me parto e nun me movo
'na botta de fuso e la fenimo.
E doppo er primo ce vienghi er seconno
e durino a venì pe' tutto un anno
qua nun se trema si viè tutto er monno.

Me so fatto un cortello genovese
che ce sbuccio le porte de' le case
figurete la panza d'un francese.
Su romani tutti quanti
co' li soni e co' li canti
su gridiamo allegramente
viva Francia e la sua gente.

Cantiam tutti con ardire
viver liberi o morire
vogliam sempre far la guerra
ai tiranni della terra.

Siamo tutti una famiglia
è l'amor che ce consiglia
nei contenti e nelli mali
noi saremo tutti uguali.

Francia e Roma han stretto il nodo
d'amicizia e io ne godo
sappia l'uno e l'altro polo
Roma e Francia è un nome solo.

Se poi un paio di strofe di celebri canti di guerra ci riportano al periodo napoleonico e all'istituzione della leva obbligatoria...

Partire partirò, partir bisogna
dove comanderà nostro sovrano;
chi prenderà la strada di Bologna
e chi andrà a Parigi e chi a Milano

Se tal partenza, o cara,
ti sembra amara, non lacrimare;
vado alla guerra e spero di tornare

Viva la Russia viva la Prussia
viva la Spagna e l'Inghilterra
che n'à 'ntimato d'una gran guerra
a questo povero Napoleon..

Napoleone comincia a dire
povero me cos'ò mai fatto
sol per venire a entrare in Russia
'ncontrai 'na truppa mi hanno fermà.

...passano cinquant'anni e ritroviamo la Francia di un altro Napoleone, ovvero Napoleone III, che è ora alleata (nella seconda guerra d'indipendenza) ora avversaria (nella terza). La cosa certa è che il “Pover Luisin” di questa canzone, mandato a morire in guerra, non doveva poi cogliere molto la differenza. Significativo notare che se in questo brano lombardo si parla senz'altro della seconda guerra di indipendenza (la battaglia del Castelin), la melodia è decisamente austro-ungarica e ricorda il tema che Smetana usò per la sua celeberrima “Moldava”.

Un dì per sta cuntrada
pasava un bel fiö
e un masulin del ros
la trà in sul mè pugiö.
(...)
Vegnü el cinquantanöv,
che guera desperada!
E mi per sta cuntrada
Lu pü vedü a pasà.

Un dì piuveva, ver sira
S'ciupavi del magun,
quand m'è rivà 'na letera
cul bord de cundiziun.

Scriveva la surela
Del pover Luisin
Che l'era mort in guera
De fianc al Castelin.


”Caserio passeggiava per la Francia”:
canzoni per un attentatore anarchico

Addio mia bella
casetta addio
madre amatissima
e genitor.
Io pugno intrepido
per la Comune
come Leonida
saprò morir.

La casa è di chi l'abita
è un vile chi lo ignora
il tempo è dei filosofi
la terra è di chi la lavora.

Questo canto - notissimo ancor oggi fra gli appassionati col titolo “Dimmi bel giovane” - in realtà s'intitolava “Esame di ammissione del volontario alla Comune di Parigi”.
La Francia, al tramonto dell'Ottocento, appare quindi come la nazione degli esperimenti di rivoluzione sociale più avanzati.
La vicenda di emigrazione e politica assieme che resterà più impressa nella memoria cantata sarà quella del giovane fornaio milanese (di Motta Visconti, per la precisione) Sante Caserio. Sottoproletario, militante anarchico sin dall'adolescenza, amico dell'avvocato-poeta Pietro Gori, ma conosciuto e stimato anche dal socialista Turati, Caserio fuggendo la repressione della polizia italiana, arriva in Francia diciottenne e si stabilisce a Séte (la futura città natale di Georges Brassens), dove trova una nutrita comunità italiana e continua a frequentare l'ambiente anarchico.

Quadritos dedicato a Sante Caserio
dall'artista Brunella Tegas

La descrizione del giovane ribelle che fa persino il Prefetto dell'Hérault in una nota riservata è di un ragazzo dolce, laborioso e “probabilmente non pericoloso” (immagino che dopo il “fattaccio” tale prefetto abbia avuto dei grattacapi per quest'incauta descrizione). Qualcosa di definitivo dev'essere però scattato nella testa di Caserio al momento in cui venne a sapere che il Presidente della Repubblica Sadi Carnot avrebbe rifiutato la Grazia all'attentatore anarchico Auguste Vaillant, benché questi non avesse fatto vittime.
È così che Caserio lascia il lavoro, si mette in viaggio a piedi per Lione - dov'era prevista una visita ufficiale del Presidente - e alle nove di sera del 23 di giugno 1894 intercetta la sua carrozza e riesce a sferrargli col pugnale un colpo mortale. La giovine età dell'attentatore - nemmeno ventunenne e quindi per l'epoca ancora minorenne - e la vergognosa foga anti-italiana, che nei giorni dopo l'attentato sfiorò il pogrom, contribuirono a fare di Caserio una sorta di eroe popolare, più di qualsiasi altro attentatore anarchico.
Il suo amico e maestro Pietro Gori - probabilmente sentendosi in colpa per aver introdotto Sante nell'ambiente politicizzato, e forse intrigato anche dall'avvenenza del ragazzo - gli dedicò alcuni dei suoi più bei versi:

(...) A te Caserio ardea nella pupilla
delle vendette umane la scintilla
ed alla plebe che lavora e geme
donasti ogni tuo affetto ogni tua speme.

Eri nello splendore della vita
e non vedesti che notte infinita
la notte dei dolori e della fame
che incombe sull'immenso uman carname.

(...) Ma il dì s'appressa o bel ghigliottinato
che il tuo nome verrà purificato
quando sacre saran le vite umane
e diritto d'ognun la scienza e il pane.

Dormi, Caserio, entro la fredda terra
donde ruggire udrai la final guerra
la gran battaglia contro gli oppressori
la pugna tra sfruttati e sfruttatori.

Sebben i versi di Gori siano rimasti celebri e cantati anche in ambiente socialista, ancora più significativi sono quelli di matrice popolare che si diffusero fra gli anonimi militanti, e fra i semplici cantastorie: un'incredibile testimonianza della loro diffusione sta addirittura in un'incisione degli anni trenta (dunque già in piano fascismo) di Ettore Petrolini, che nella scenetta “Cantante di strada” ha il coraggio di citarne un passaggio. Altri versi ancora (“lo conoscete voi questo pugnale?”) hanno dato origine a una canzone della resistenza (“E quei briganti neri m'hanno arrestato”) il ché prova che nell'ambiente antifascista erano ancora amate.

Così disse al prefetto: allor ch'io morto sia,
Prego, questo biglietto date alla madre mia;
Posso fidarmi che lei lo avrà ?
Mi raccomando per carità .

Poi con precauzione dal boia fu legato
E in piazza di Lione fu quindi trasportato
E spinto a forza il capo entrò
Nella mannaia che lo troncò.

Spettacolo di gioia la Francia manifesta,
Gridando viva il boia che gli tagliò la testa!
Gente tiranna e senza cuor
Che sprezza e ride l'altrui dolor.

***
Caserio passeggiava per la Francia
incontrò la carrozza del Presidente
monta sulla carrozza col mazzolino rosso
È questo il pugnale che ti darà la morte.

***
La mia testa schiacciatela pure
disse Caserio agli inquisisi suoi
ma l'anarchia è più forte de' tuoi
presto presto schiacciarvi dovrà.

***
Entra la corte
esamina il Caserio
e gli domanda
se si era pentito.
«Cinque minuti
m'avessero dato
un altro presidente
avrei ammazzato».

«Lo conoscete voi
questo pugnale?»
«Sì, lo conosco,
ci ha il manico arrotondo
nel cuore di Carnot
l'ho penetrato a fondo».

«Li conoscete voi
i vostri compagni?»
«Sì, li conosco,
io son dell'anarchia:
Caserio fa i' fornaio
e non la spia».

Alessio Lega