Rivista Anarchica Online





In memoria di Saheed Vassell

A Brooklyn la polizia ammazza un nero, uno dei tanti. Soffriva del disturbo bipolare. Matto e nero. Nessun'altra colpa. Ma è bastato per ucciderlo.

Si chiamava Mohamed Sheab....
Suicida perché non aveva più patria...
Riposa nel camposanto d'Ivry...
E forse io solo so ancora che visse
(estratti da “In memoria”. Giuseppe Ungaretti, 1916)

Comincio queste note mentre da poco si sono spenti i bagliori delle esplosioni in Siria. Stati Uniti, Francia e Regno Unito hanno bombardato quasi senza preavviso, ufficialmente in risposta alle stragi chimiche del dittatore Bashar al Assad. Il mondo per qualche ora ha tremato, spaventato dal nuovo confronto fra le potenze atomiche. Forse dovrei scrivere di questo, del pianeta in mano a pazzi armati fino ai denti, dei siriani che possono essere uccisi, sì, ma solo con armi “convenzionali”. Dovrei parlare dell'indifferenza con cui è stata accolta la notizia in questa metropoli faticosa, dove la vita non si ferma mai.
Tuttavia è di un'altra indifferenza di cui voglio parlare. Sono affiorati alla mente i versi di una poesia di Ungaretti: “In memoria”. Parole che ho amato fin dalla prima volta che mi hanno parlato dalle pagine di una vecchia antologia. È riaffiorato quel nome esotico, Mohamed Sheab, destinato all'oblio, se non fosse per quelle poche righe che lo ricordano per sempre.
Con quei versi in testa voglio raccontare quel poco che si sa della vita e della morte di un tale Saheed Vassell. Un altro nome esotico per una persona qualunque. Vorrei che anche il suo nome non cadesse subito nell'oblio, che non se ne perdesse troppo presto la memoria.
Era un nero, uno di tanti. Morto ammazzato a due passi da casa sua. È morto da poco eppure già nessuno se ne interessa più e forse io solo ancora ne scrivo.

Se non fosse stato nero...

Non è facile parlare di Saheed Vassell, la sua biografia è minima, la sua vita insignificante per i più. Aveva 34 anni, viveva coi genitori a Crown Heights, una zona popolare di Brooklyn. Ha avuto un matrimonio tumultuoso e diciassette arresti in gioventù. Morendo ha lasciato un figlio e poco più.
Fin da ragazzo soffriva del disturbo bipolare, una grave patologia della psiche nella quale si alternano stati di ansia e depressione a stati di esaltazione incontrollabile. Una malattia che si può tenere sotto controllo con le terapie giuste, dicono gli psicologi. Ma Saheed Vessell le cure non se le poteva permettere e passava le sue giornate per le strade del quartiere, talvolta depresso, talvolta agitato. Negozianti e vicini lo conoscevano bene e, dopo il fattaccio, tutti sono stati concordi nel testimoniare che non era mai stato un tipo pericoloso o aggressivo. Era uno del quartiere, insomma. Lo scemo del villaggio, uno dei tanti che si aggirano per le strade di New York, patetico e inoffensivo.
La morte di Saheed Vassell si è consumata nella grande metropoli multietnica, è un piccolo dramma della vecchia Broccolino dei migranti italiani, con le valigie di cartone tenute assieme dallo spago; città nella città, quartiere che fa tendenza dove, fra un ghetto e l'altro, ricchi e benestanti si sono insinuati, hanno colonizzato varie zone, divenute di lusso, mentre altre si sono affollate di giovani di ogni provenienza e si stanno riempiendo di pub e ristorantini etnici.
I giornali hanno scritto che quella di Saheed Vassell è una tragedia con cui deve fare i conti la comunità di Crown Heights, come se quella gente vivesse su un altro pianeta. Invece quel quartiere è solo a breve distanza dalla New York che conta e io, dopo, ho camminato in quella brutta periferia dove tutti sono neri e un bianco si sente un estraneo. Ho visto quei negozietti squallidi, le strade trascurate e la gente che le percorre in un moto incessante. Io credo che con quella morte tutti dobbiamo farci i conti, ci riguarda tutti.
Se Saheed Vassell non fosse stato nero le cose per lui sarebbero andate diversamente. Se fossi stato io, al suo posto, non mi avrebbero fatto fuori come un cane. Ma anche quest'immagine è sbagliata. I cani qui godono di grande rispetto. D'inverno li portano a spasso col cappottino e le scarpe, vanto e orgoglio dei loro padroni, oggetto di conversazioni e scambi di complimenti in ascensore e per la strada. Qui il mestiere del dog sitter è una cosa seria, perché chi fa affari spesso non ha nemmeno il tempo di portare al parco i propri cani di lusso e li affida a questi angeli custodi. Li si incontra per la strada o nei parchi, capaci, professionali, con una muta di svariati pedigree al guinzaglio. Di ciascuno sanno il nome e la storia. No, Saheed Vassell non è stato ammazzato come un cane, a nessuno qui verrebbe in mente di ammazzare un cane per la strada. È stato ammazzato come un nero. Un matto nero.

Brooklyn, New York, 2018 - Nel luogo dove è stato ammazzato,
è stata malamente appiccicata una foto di Saheed Vassell con la scritta
“RIP” (riposa in pace) in mezzo a pubblicità e avvisi. Ai piedi della
recinzione un cassetta di frutta con lumini ormai consumati
aggiunge tristezza al generale squallore della scena

Ma qualcuno ha chiamato la polizia

Il giorno che lo hanno ammazzato quelli del quartiere hanno fatto un po' di cagnara davanti al tribunale e alla stazione di polizia, rispolverando i vecchi cartelli con la scritta: “Black Lives Matter”. La madre ha parlato ai microfoni dell'improvvisata manifestazione, il padre è stato intervistato dai giornalisti. Mi sono sembrati tutti più rassegnati che arrabbiati. Questa è gente che una tragedia così se l'aspetta. Dopo si sono spenti i riflettori e il nome è andato ad aggiungersi alla lunga lista curata da un paio di siti dedicati. Tutto finito.
Era un mercoledì di inizio aprile, quando è morto. A New York faceva ancora molto freddo, due giorni prima aveva anche nevicato. Quella mattina Saheed Vassell è uscito di casa con chissà quale film in testa. Camminava lungo la Utica Avenue con in mano un pezzo di metallo, un tubo corto e di piccolo diametro, con una sorta di impugnatura. Dalle foto che, poi, ho visto, mi è parso che fosse uno di quei tubi che portano acqua al rubinetto del lavandino, o forse il tubo di un vecchio scaldabagno, una cosa del genere. Se nella vita vi è capitato di improvvisarvi idraulici o anche solo di pisciare guardando il bagno attorno a voi con un minimo di curiosità, lo avreste subito riconosciuto: metallo cromato con filettatura all'estremità. Il ragazzo lo teneva per l'impugnatura e lo puntava verso i passanti, come fosse una pistola. Doveva essere nella fase di esaltazione del suo maledetto disturbo. Non so se facesse anche dei suoni con la bocca, uno di quei verbi onomatopeici che in Italia abbiamo imparato dai fumetti, tipo: “Bang”. Nelle scarne cronache non se ne parla, però io me lo immagino, perché così facevamo noi da bambini, con le pistole giocattolo della Standa che ci regalavano a Natale.
In ogni modo, nessuno si è fatto male, tutti i passanti hanno continuato per la loro strada. Qualcuno però si è spaventato, qualcuno che non lo conosceva, qualcuno che nella vita non ha mai dovuto improvvisarsi idraulico o che ha sempre pisciato con lo sguardo rivolto a terra. Sarà stato qualcuno senza problemi mentali, di quelli che pensano che nella vita ci vogliano soprattutto legge ed ordine. Quelli non mancano mai.

Come il matto di Faber

Quel qualcuno, più di uno, ha chiamato la polizia. A New York la polizia arriva subito, sembra sia sempre dietro l'angolo. Cinque agenti, due in divisa, tre in borghese. L'uomo li ha visti e ha puntato il tubo, metallo cromato con filettatura, impugnato a due mani, come nei film. Chissà che aveva in testa in quel momento. Gli agenti non hanno esitato, non hanno intimato, non hanno verificato, non si sono dati pena di distinguere fra una pistola e un tubo, non hanno avviato trattative o chiesto ai negozianti della zona. Lo hanno massacrato. Dieci colpi a segno, ottimi tiratori. L'uomo nero ha smesso di spaventare i passanti, ha smesso anche di respirare e ora non è più matto. Ora dorme sulla collina. Ora c'è luce nei suoi pensieri. Come il matto di Faber.
Una morte senza senso, ha detto poi la mamma. Come hanno fatto i poliziotti a non vedere che quello che aveva in mano non era, non poteva essere una pistola?
Anche i poliziotti però erano ragazzi ordinari, di quelli che fanno solo il proprio dovere. Hanno visto il solito nero fuori di testa puntare qualcosa e hanno reagito. Come da manuale, come nei film. Dopo hanno anche tentato il soccorso, hanno chiamato l'ambulanza. Anche le ambulanze qui arrivano presto, ma Saheed Vassell aveva già smesso di respirare. Dieci colpi sono tanti per un corpo solo. Un giornalista ha scritto: “Perché non sono arrivati i poliziotti del quartiere? Quelli lo conoscevano, sapevano che era un tipo inoffensivo, quelli non avrebbero sparato”. Non c'è risposta ufficiale a queste ovvie domande.
Nulla di nuovo.
Tre anni e mezzo fa, quando da poco avevo messo piede nella capitale dell'impero e muovevo i primi passi incerti nei vicoli della suburra, ne capitarono alcuni di fatti così. Ricordo che ne fui spaventato e inorridito. Ora mi sono abituato. Ricordo in particolare un episodio di cronaca, avvenuto in una casa popolare di Brooklyn nell'autunno del 2014: un ragazzo nero era andato a trovare la sua ragazza nera e fu freddato per le scale del palazzo da un giovane poliziotto.
Quel giorno era mancata la corrente e il ragazzo, per uscire, dovette prendere le scale. Nessuno scende per le scale nei palazzi di New York. Il ragazzo in divisa che se lo ritrovò nel fascio di luce della torcia pensò a un malvivente e lo fulminò col suo revolver d'ordinanza. Un tragico errore anche quello.

Central Park, New York, 2018 - Dog sitter al lavoro
fin dalle prime ore del mattino

Nella quasi indifferenza

Poche settimane prima della morte di Saheed Vessell i notiziari hanno brevemente riportato di un'altra tragedia, accaduta a Sacramento, in California. Stephon Clark era andato a trovare i nonni e stava nel giardino di casa loro.
Qualcuno si è insospettito nel vedere l'uomo nero aggirarsi fra quei giardini e ha chiamato la polizia. Le guardie hanno visto il sospetto con un oggetto in mano. Otto colpi alla schiena e il ventiduenne, padre di due figli, è caduto riverso sul prato verde. A pochi passi hanno ritrovato il cellulare, l'oggetto misterioso che Clark brandiva quando l'hanno ammazzato.
Con tutte queste piccole tragedie che si affacciano di continuo dalle cronache non sono più capace di stupirmi quando muore uno come Saheeb Vessell. Però mi addolora l'indifferenza di tutti. Qui ad Harlem, nel mio quartiere, non c'è stata nemmeno una veglia di preghiera. Crown Heights forse è troppo distante, è in un altro mondo, a un'ora abbondante di metro e qui i neri hanno già i loro problemi.
Almeno in certi stati del sud scoppia la rivolta, l'esasperazione viene a galla, rabbia e frustrazione esplodono in frantumi di vetrine e cassonetti in fiamme. Arrivano le truppe anti-sommossa, la guardia civile, l'esercito. Perlomeno il mondo vede e l'America non riesce a nascondere quelle morti e le sue contraddizioni. Ma qui, nella grande metropoli affacciata sull'Atlantico, aperta, moderna e tollerante; qui nel melting pot, fra i turisti felici, qui la polizia uccide nella quasi indifferenza. Qui tutto viene triturato e ognuno alla fine deve pensare a se stesso. Saheeb Vessell in fondo è solo una notizia al telegiornale, è accaduto a Brooklyn, noi non c'entriamo.
They get away with murder, mi disse un giorno la signora Hawley parlando della polizia: assassinano e se la cavano. La polizia ha licenza di uccidere. Sparano, ammazzano, e non ci sarà nemmeno un processo. Colpa dei neri che vanno in giro col celluIare in mano che potrebbe anche essere una pistola. Colpa loro, che sono pazzi e attirano su di sé la morte di piombo. Gli agenti che hanno assassinato Saheeb Vessell in fondo non hanno violato né leggi né regolamenti. Le regole me le sono andate a rileggere in un articolo del Washington Post di tre anni fa: “Un poliziotto è autorizzato a sparare per uccidere, quando ritenga che siano messe in pericolo la propria vita o quella altrui”.
La nostra vita dipende dalla percezione di questi ragazzoni in divisa, che non sanno distinguere un pazzo da un criminale, un tubo di ferro da una pistola. Questi che a disarmare l'altro nemmeno ci provano, che non dicono “altolà” ma sparano puntando subito al bersaglio grosso. I film western che guardavo da ragazzo non hanno inventato nulla e mi aspetto ogni tanto di veder spuntare per la Quinta strada lo sceriffo a cavallo, come in una vecchia serie che mandavano in onda ai miei tempi alla TV dei Ragazzi. Era tutto vero.
“La prima consegna di un poliziotto è di tornare a casa vivo alla fine del proprio turno, il principio base è la sopravvivenza, la sua formazione ruota intorno a questo principio. I poliziotti imparano che ogni incontro è potenzialmente mortale e per loro un ragazzo nero con le mani in tasca è un pericolo, perché potrebbe tirar fuori una pistola”. Un ragazzo nero, si badi bene. Ho ritrovato questa frase in un'intervista a un professore di criminologia della Carolina del Sud e mi sono tornate alla mente le parole di Errico Malatesta: “è forse grazie ai gendarmi che non si uccide più di quello che si fa?”. Ma qui sono i gendarmi ad uccidere. Guardie e ladri fanno entrambi paura.

Central Park, New York, 2018 - Alcuni cani indossano
una bandiera a stelle e strisce a mo' di bandana

Neppure la notizia della sepoltura

Ogni anno le forze dell'ordine fanno fuori parecchi individui con disturbi mentali, lo rivelano le statistiche. Gli esperti sostengono che se i poliziotti ricevessero una formazione adeguata, se imparassero a distinguere i sintomi, se fossero capaci di instaurare una relazione con questi matti che si aggirano per le strade, molte tragedie sarebbero facilmente evitate, molte vite risparmiate.
Penso che in fondo alle autorità non importi molto di spendere soldi in attività di formazione per risparmiare quelle vite. Saheeb Vassell e i tanti come lui sono solo un fastidio. Non portano nulla alla società, non guadagnano e non spendono. Le loro vite non hanno valore.
Mentre sto concludendo queste inutili riflessioni leggo che potrebbe saltare l'accordo con l'Iran, che si preparano nuovi scenari di guerra. Ecco una prospettiva che molti vedono di buon occhio. La guerra aiuta l'economia a crescere.
E io invece sono qui, come uno stupido, a scrivere di questo insignificante Saheeb Vassell, uno che non ho mai conosciuto, che se fossi passato da Utica Avenue e l'avessi incrociato mi sarei scansato, per precauzione. Uno assassinato per la strada dalla forza pubblica perché era matto. Uno che gli abitanti del quartiere non sono stati capaci nemmeno di fargli un altarino come si deve, all'incrocio dove è stato ammazzato, fra la brutta recinzione posta davanti a una palazzina pericolante e il negozio di frutta dietro l'angolo. Un posto squallido come la vita di Saheeb Vassell, che fa schifo anche solo l'idea di doverci, per caso, morire.
Negli scarni notiziari non ho trovato nemmeno la notizia sul luogo della sepoltura. Non so in quale cimitero riposi quel corpo crivellato. E forse io solo ancora ne scrivo.

Santo Barezini