Rivista Anarchica Online





Sud/
La rabbia di chi non si rassegna

Dopo i racconti di Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo 2014), ispirati alla musica punk e post-punk, con protagonisti anarchici e appassionati di controculture formatisi intorno alla figura leggendaria di Sante Cannito, Francesco Dezio, scrittore pugliese, torna in libreria con La gente per bene (TerraRossa, Alberobello 2018, pp. 207, € 15,00).
Il suo romanzo d'esordio Nicola Rubino era stato il primo esempio di letteratura postindustriale degli anni Duemila, ambientato com'era in una multinazionale produttrice di motori Diesel dell'hinterland barese, nella quale un giovane lavora con un contratto di formazione a tempo determinato, inutilmente sperando nel posto fisso e disilludendosi anche sull'ideale della solidarietà di classe, poiché gli operai ingaggiano tra loro una guerra spietata fatta di sgambetti, mobbing, cooptazioni sleali. Tutto lo spazio narrativo di Nicola Rubino era occupato dalla fabbrica, un mondo concentrazionario chiuso in sé stesso. La gente per bene invece allarga lo sguardo ad un intero tessuto sociale compromesso, anzi necrotizzato, dandoci uno spaccato di un pezzo di provincia italiana, attraverso una focalizzazione molto mobile nei vari capitoli.
A differenza di Nicola Rubino, qui il destino del protagonista è assodato dalle prime pagine: il primo racconto di lavoro inizia con la comunicazione del licenziamento, e poi procede a ritroso fino al momento dell'assunzione per tornare, in modo circolare, alla fatalità inevitabile di una disoccupazione cronica e senza scampo.
In un'opera che sembra un rantolo crudo, proveniente dalla pancia di un Sud abbandonato a se stesso, l'antinomia “personaggio inetto – imprenditore” riattualizza la dialettica, che qualcuno pensa passata di moda, tra chi ha i mezzi di produzione e chi non ce li ha. La struttura narrativa “deformata”, “scorciata” di questo romanzo, che sostituisce all'io narrante dell'ex lavoratore l'epopea in terza persona dell'imprenditore (semplicemente perché il protagonista non ha più nulla da dire di sé) ripropone nella morfologia della trama questo scippo: questa rapina può anche chiamarsi lotta di classe, colta nel suo stadio terminale, nella disamina disperata e insieme liberatoria di molti fallimenti storici. Si tratta di un affresco allucinato del gigantismo industriale che nel Sud Italia è collassato su se stesso più rapidamente che altrove per una connaturata fragilità, che non poteva reggere il confronto con le economie dei giganti asiatici, le delocalizzazioni e le crisi strutturali.
Ma è anche una critica radicale all'inadeguatezza della politica a trovare vie di emancipazione per le masse, nelle sue forme organizzative tradizionali, nella delega rituale ai rappresentanti (dei partiti, sindacati, movimenti: anche questi sono annoverati tra la gente per bene), nell'usura del suo stesso linguaggio, che finisce per diventare cantilena autocaricaturale e retorica (e infatti la lingua di Dezio spesso preferisce attingere ai registri linguistici bassi, dando voce agli ultimi).
Anche per questo viene fuori, nelle ultime pagine, la rabbia di chi non è ancora disposto a rassegnarsi e nell'analisi condotta con gli strumenti della ragione trova l'energia per un ultimo estremo scatto libertario, per un'ulteriore resistenza.

Claudia Mazzilli


LGBTQI/
Anni '70 e oggi. Dalla radicalità alla normalizzazione

Per presentare il libro di Porpora Marcasciano AntoloGaia (Alegre edizioni, Roma 2014, pp. 272, 15,00), autobiografia in cui si ripercorrono le battaglie dei movimenti LGBTQI negli anni Settanta, abbiamo fatto alcune domande all'autrice, presidente del MIT (Movimento identità transessuale).

Porpora, puoi dirci com'è cambiato l'ambiente LGBTQI dagli anni '70 ad oggi?
È cambiato molto, profondamente, ma dipende dai punti di vista se dire in meglio o in peggio.
Per quanto mi riguarda, credo ci sia stato un progressivo miglioramento in termini di visibilità, ma non altrettanto per quanto riguarda i diritti e il riconoscimento. Ho la sensazione che tutto sia progredito fin quando è durata la spinta propulsiva degli anni '70 poi si è innescata una controtendenza, che non so datare con esattezza, che ha prodotto una involuzione in termini di pregiudizio e violenza.
L'Italia è attestata al primo posto in Europa per crimini contro le persone trans, ma anche gay e soprattutto delle donne, cos'altro dire? La parola più usata dai bulli nelle scuole è “frocio” cosa altro aggiungere?
Evidentemente una causa c'è e va ricercata sicuramente nella propaganda catto-fascista fondamentalista che negli ultimi anni ha avuto una grossa recrudescenza.

Dagli anni delle rivolte e dei moti di Stonewall si è passati a richieste più istituzionali e normalizzanti. Dov'è finita la radicalità del movimento?
Dalla metà degli anni '80 il movimento mainstream si è piegato ai partiti, o meglio al partito, manipolando tutte le questioni sui diktat di palazzo. Tutto è stato riportato alla battaglia per le unioni civili tralasciando il resto.
La parte più radicale del movimento LGBTQ è stata attaccata e fagocitata, mentre la parola d'ordine diventava “normalizzazione”. Oggi ci si comincia a rendere conto che quel vuoto ha prodotto mostruosità e non so dire se è troppo tardi.

Puoi parlarci del MIT? Qual è la sua storia e quali sono state le sue conquiste?
La storia del MIT (Movimento Italiano Transessuali prima e Movimento Identità Trans poi) è nata nel 1981 ponendo l'associazione come la più longeva di tutto il panorama LGBTQ.
La sua conquista principale è datata 1982 ed è l'ottenimento della Legge 164 che permette di cambiare sesso. L'unica insieme alla Germania. Oltre alla possibilità di intervenire chirurgicamente era un primo grande riconoscimento dell'esperienza trans fino a quel momento negata.
In seguito il MIT nel suo percorso bolognese realizza e struttura grandi servizi e progetti come il primo Consultorio per la salute delle persone trans, il progetto di riduzione del danno nel mondo della prostituzione, lo sportello legale, quello per il lavoro, l'intervento in carcere, le case di accoglienza e il Festival del cinema trans denominato Divergenti.

Cosa c'è nel futuro del MIT?
C'è il cambiamento della realtà trans, quella del paese e di tutto il mondo. Abbiamo appena cominciato e dobbiamo eliminare dalla storia il pregiudizio e la violenza che ne consegue.


Sacra Bottega/
Uno sguardo critico e un po' di aria fresca

Left è una rivista settimanale che esce da oltre 12 anni, in diretta continuità con Avvenimenti, analoga rivista con cui oltre una ventina di anni fa stabilimmo la possibilità di un abbonamento (unico) cumulativo alle due riviste. Abbiamo buoni rapporti personali con la direttora Simona Maggiorelli e un positivo dialogo con Federico Tulli, uno dei 3 redattori di Left e in un paio di occasioni nostro stimato collaboratore. Stimato e significativo, perchè è un giornalista e scrittore che ha un pallino che ci accomuna: l'interesse critico, molto critico, per le cose vaticane, per l'influenza della Chiesa cattolica nella società, la critica alla sinistra istituzionale (e anche a quella “estrema”) per la sua rinuncia a qualsiasi spirito critico verso il Vaticano e il suo inquilino più famoso.
Lo scorso anno il quotidiano comunista Il Manifesto – tanto per ricordarci in che tempi grami viviamo – se n'era uscito con un libretto dedicato a Bergoglio, ai suoi scritti contro il capitalismo ecc. ecc. E Francesco, come ormai viene chiamato dai mass–media come fosse un nostro fratello, membro di ciascuna delle nostre famiglie, riceveva così un'ulteriore consacrazione quale figura di punta della sinistra attuale. Una specie di novello Che Guevara, paladino delle periferie geografiche e sociali del mondo.
Il libro che qui segnalo – edito sostanzialmente da Left – va nella direzione opposta, come già indica il titolo: Il falso mito di Bergoglio (Editoriale Novanta, Roma 2018, pp. 223, € 19,70). Si tratta di 42 articoli apparsi su Left, tra il 2013 e il 2018, scritti da 15 persone: più della metà (ben 23) dal citato Tulli. Per capire il contenuto e soprattutto lo “spirito” di questo libretto, di veloce e piacevole lettura, è sufficiente, forse, citare i titoli di alcuni articoli (abbiamo scelto quelli di Tulli): I massoni di San Pietro / Il paradiso degli affari sporchi / La chiesa sconfessata / M.G.Gatti: La violenza non è sessualità / A chi giova la morte del prete che “odiava” i bambini / Chi confessava i torturatori / Il paradiso può attendere / G. Nuzzi. Per il Vaticano parlare con i giornalisti è reato / Che fine ha fatto il Giubileo? / Pedofilia: i fantasmi di Bergoglio / Caccia al diavolo / Desaparecidos. Il Vaticano apre gli archivi. Ma non troppo / Le narrazioni tossiche della Santa Sede / Renzi ha messo in ginocchio la Rai / Quando l'autorità (non) è garante / Chiesa e pedofilia: i complici di papa Francesco / Un tipo sinistro / Sì allo ius soli, dice il papa. Ma fuori del Vaticano / Stefano Incani: Viviamo in uno Stato ipotecato dalla Chiesa / Pedofilia, un papa dalla memoria corta. I chierichetti del papa, l'orco e i monsignori / Croci, padelle e pappagalli / Il senso di Bergoglio per la pedofilia.
Non entro nel merito di alcuno degli scritti contenuti in questo libretto. Chi ha a cuore la difesa della società civile dall'invasiva presenza della Chiesa, anche partendo da premesse e da una concezione molto diversa dalla nostra prospettiva anarchica, troverà in queste pagine aria fresca e stimolante, così difficile da trovare oggi in materia di Vaticano, papa, Chiesa e dintorni.
Più volte abbiamo lamentato su queste colonne il progressivo ritirarsi – come avviene per i ghiacciai – di quello spirito laico, anticlericale, che ha sempre cercato di denunciare e arginare la nefasta influenza del Vaticano nella vita quotidiana, soprattutto in Italia. Alcuni soggetti di quelle battaglie sono scomparsi o si sono trasformati, penso ai repubblicani, ai liberali (con l'eccezione importante di Critica liberale). E poi tanta parte dei socialisti, una piccola minoranza dei comunisti, gli stessi radicali che dall'esaltazione delle Pagine anticlericali di Ernesto Rossi (uno dei testi della mia formazione politica giovanile, mezzo secolo fa) sono passati alle marce, pasquali e non, “nel nome di Marco (Pannella) e Francesco (Bergoglio)”. Il caso dei radicali è davvero clamoroso, per chi – come me – ha vissuto la loro stagione anticlericale sia dal lato degli anarchici (quando facemmo iniziative comuni anticlericali) sia da parte familiare (mia madre, in particolare, impegnata accanto a loro nelle lotte per il divorzio, l'aborto, la denuncia dei Patti Lateranensi).
Fa piacere che una rivista come Left, in assoluta controtendenza, mantenga acceso e attento lo sguardo sulla Sacra Bottega. Forse Left non sarà, come si autoproclama, “l'unico giornale di sinistra”, ma fosse anche solo per questa sua attenzione costante sull'invasività clericale, merita di essere seguita, come sempre con attenzione critica (che noi rivolgiamo anche a noi stessi).
Comunque, il libro che ho qui segnalato non può mancare nella libreria di chi – indipendentemente dal proprio personale ateismo o fede in qualsiasi religione – ritenga il clericalismo, qualsiasi clericalismo, tossico per la società, gli individui, la libertà. E, appunto, voglia respirare un po' di aria laica e fresca.

Paolo Finzi


Louise Michel/
Quella “follia creativa” di cui abbiamo tanto bisogno

È la tua forza interiore a farti libero, nonostante tutte le costrizioni esterne.

Il filosofo e alpinista norvegese Arne Naess sosteneva che il benessere è collegato a due elementi: ardore e dolore. L'ardore – cioè gioia, passione, coinvolgimento – secondo il suo pensiero, può compensare molto dolore. Al contrario, se si “arde” poco o niente, il livello di benessere sarà basso, anche se nella vita si avesse avuto la fortuna di incrociare poco dolore. Coerentemente con questa riflessione, secondo Naess sarebbe più importante accrescere l'ardore che non ridurre il dolore per avere maggiore benessere. (cfr. Erling Kagge, Camminare. Un gesto sovversivo, Torino, Einaudi, 2018).

Oltre al fatto che trovo interessante il tipo di riflessione, ho voluto introdurre con questo pensiero la recensione a Il tempo delle ciliegie perché l'intera vita di Louise Michel - raccontata da Marco Rovelli in centoventi pagine per quelli di Elèuthera (Milano 2018, pp. 128, € 14,00) mi è apparsa come l'esatta applicazione di questo principio: la passione, la speranza, la fede più di tutto, a sostegno di molto dolore.
La storia è quella di una ragazza di nome Louise che nasce nel maggio del 1830 in Francia – a Vroncourt-la-Cote, nello Champagne – da una donna che lavorava come domestica presso i signorotti del paese. Il padre era “relativamente ignoto” perché semplicemente si trattava del padrone o – questo non è certo – del figlio del padrone. Sta di fatto che Louise, anche se in maniera non ufficiale, verrà accettata e grazie a questo riceverà una buona istruzione che, oltre a infonderle amore per la letteratura e la cultura in generale, le permetterà di diventare istitutrice e quindi, a soli ventidue anni, aprire una scuola vicina ai suoi ideali, un luogo dove venivano applicati metodi pedagogici, assolutamente all'avanguardia per quell'epoca, basati su sperimentazione e creatività.
A ventisei anni, continuando a lavorare come istitutrice, si trasferisce a Parigi dove sposerà idee repubblicane e rivoluzionarie e incomincerà a battersi per il diritto all'istruzione per le donne. Da qui alla primavera 1871, quando la si vede in prima linea sulle barricate della Comune, la sua vita sarà sempre un susseguirsi di gesti compiuti in favore degli ultimi, per un tempo di giustizia e uguaglianza che prima o poi sarebbe arrivato.
Di Louise si dice che fosse una splendida follia creativa e Marco Rovelli, nella prima parte del libro, ne segue le tracce come se di lei raccontassero tutti quelli che l'avevano conosciuta, già a partire dall'infanzia. Si delinea una personalità che si esprimeva in un modo d'essere pieno di fede nella possibilità di riscatto per gli esseri umani e intollerante verso ogni genere di sopruso, ancor prima dell'adesione a qualsiasi idea o ideologia. Poi vengono i giorni della Comune durante i quali le donne non rimasero mai in disparte, anzi si dice che furono un “esempio luminoso di speranza” nonostante – allora come sempre – dovessero sostenere un doppio scontro, entrando spesso in conflitto con gli uomini compagni di ideali, come fu in quella manciata di giorni carichi di sogni e passati per sempre alla storia. Dopo arrivarono gli anni di carcerazione e quindi la deportazione in Nuova Caledonia, ma, come suggerisce la quinta parte del libro, il racconto a un certo punto si fa mito (...) gli eventi vengono isolati e posti in un meraviglioso eterno presente, carichi di una potenza universale che si riverbera su ogni possibile futuro.
Ed è così. Ma proprio per questo val la pena riportare ancora qualcosa di quanto ci viene raccontato, idee di fondo che il tempo non ha invecchiato.
La prima riguarda il potere, sul quale Louise, durante il viaggio che la portava verso l'Oceania, pare abbia riflettuto a lungo: Potere che non può che essere “comune”, dal basso, esercitato da un popolo in cui tutti e ciascuno abbiano per prima cosa la dignità della vita: e non può, soprattutto, essere un potere, se non inteso come modo infinito del verbo. Il potere è l'ostacolo principale della liberazione dell'umanità.
La seconda – tratta da un ricordo di Pietro Gori a pochi anni dalla morte di Louise Michel (riportato da Marco Rovelli) – estende il discorso sul potere andando a coinvolgere i cosiddetti “esseri inferiori” e dice così: Ah, gli esseri inferiori, ecco il pretesto d'ogni dominazione! (...) Inferiori perché? Perché altri più violenti, o più astuti, riuscirono ad assoggettarli o a ucciderli? (...) Ma io conosco un'altra legge, che non è di oppressione né di morte, ma di libertà e di vita, quella della solidarietà. (...) Diversi sì, inferiori no. (...) “Ma tra l'umanità e le altre specie zoologiche ...” azzardai io. “Ebbene – incalzò l'ardente vegliarda - è appunto perché l'umanità volle calpestare gli altri esseri, che voi chiamate inferiori, che essa si trovò esercitata ad inferocire e a dilaniare se stessa. Le razze inferiori, le classi inferiori, il sesso inferiore, che per dileggio chiamate gentile, ecco la stessa classificazione trasportata dal campo animale a quello umano...”
Oggi abbiamo ancora sfruttamento, violenza sulle donne, discriminazioni in base alla razza e all'orientamento sessuale, soprusi sui migranti e – privilegio dei nostri tempi – allevamenti intensivi, distruzione delle risorse naturali... Allora a cosa ci serve leggere questa storia accaduta centocinquant'anni fa? Forse perché, come al cinema, è sempre bello immedesimarsi in avventure piene di coraggio e altruismo? Oppure per constatare come va sempre a finir male e quindi, disillusi e rassegnati, tornare al grigiore quotidiano?
Io penso che libri di questo genere abbiano la funzione di confermare la teoria citata all'inizio e spingerci alla messa in gioco, proprio se ci sta a cuore il benessere di tutte/i e tutto. Non si può pensare di star sempre di lato, poco coinvolti, di passare indenni tra conflitti e contraddizioni, esplorando solo la superficie degli accadimenti e di noi stessi. È di quella “follia creativa” che necessitiamo anche noi, non necessariamente per vincere ma, come Louise Michel, per vivere.

Silvia Papi


Libri per l'infanzia (ma non solo)/
Quando l'eternità diviene un sussurro di poesia

L'eternità è un'idea incontenibile e per questo, il più delle volte, suscita timore e sgomento. Vi sono tuttavia delle occasioni particolari di poterla sfiorare come fosse una brezza sottile e leggera, che tocca la punta del nostro naso per essere annusata. Questa opportunità l'ho avuta leggendo, recentemente, due racconti che, per forma e contenuto, hanno in sé lo straordinario. Il primo è di Beatrice Masini, Se è una bambina (bestBUR Rizzoli, Milano 1998, prefazione di Antonio Faeti, pp. 108, € 9,50); già letto qualche hanno fa, ma ritrovato da poco. Il secondo è di Bruno Tognolini, Il giardino dei musi eterni (Salani editore, Milano 2017, pp. 272, € 13,90) più recente e di prima lettura.
Beatrice Masini e Bruno Tognolini indicati nelle loro biografie come “scrittore e scrittrice” per i bambini e le bambine, amo pensarli più come “scrittore e scrittrice con l'infanzia” poiché nelle loro tracce, lasciate sulle pagine, concedono, a chi le legge, di far riprendere forza e sensibilità a quella parte di ognuno e ognuna di noi che ci accomuna nella nostra vita e ci rende così simili e vicini; parte che va appunto sotto il nome di: infanzia, quell'essere qualcosa d'altro da ciò che da adulti siamo, saremo o abbiamo immaginato di essere.
Le loro pubblicazioni sono molteplici e invito chi ancora non li abbia incontrati, di tentare questa conoscenza attraverso queste due loro opere che ci portano per mano in uno dei paesaggi più timorosi, misteriosi e dolorosi della vita: quello dell'eternità. Masini lo fa attraverso lo sguardo e le parole di una bambina e la sua mamma che scompare per sempre in quel giorno della polvere, Tognolini ci porta nel giardino dei musi eterni in cui gli Àniman, senza capo né coda, trovano il loro luogo oltre la vita sulla terra. Lo stile di entrambi è quello di sussurrarci parole poetiche entro quel buio che potrebbe essere la luce eterna e dentro quel giardino in cui: Tu sei tutti e tu sei tu.
Ora, immagino, vi domanderete: a chi sono rivolti questi racconti e per quale età?
Come dicevo, a mio avviso, sono pensati per l'infanzia qualsiasi età abbia oggi o abbia avuto ieri, a cui siamo appartenuti o alla quale ancora apparteniamo. Poiché, per fortuna l'infanzia può essere anarchica e si posiziona liberamente nell'età che meglio crede.
Qui di seguito troverete alcuni pensieri che hanno l'intenzione di essere un invito per l'infanzia che è corpo grande e per l'infanzia che è corpo piccolo, in questo modo anche, chi ancora è giudicato piccolo o piccola per scegliere, qui troverà alcuni elementi per essere libero o libera di farlo con la propria testa.
L'eternità è un'idea incontenibile e per questo, il più delle volte, suscita timore e sgomento. Vi sono cegliere, qui troverà alcuni elementi per essere libero o libera di farlo con la propria testa.

Se è una bambina
Per l'infanzia che è ancora in un corpo piccolo. Se sceglierete di leggere questo libro dovrete avere un po' di coraggio perché vi troverete una bambina che vive la terribile e crudele esperienza della guerra e che un giorno perde per sempre la sua mamma. Da quel giorno la sua vita cambia e decide di parlare fra sé e sé come se la sua mamma ancora ci fosse, e contemporaneamente, nel tempo eterno, la sua mamma fa lo stesso e pensa a lei. A volte è molto triste capire che qualcuno è andato via per sempre, è morto o morta, ma in queste pagine troverete molto di più della sola tristezza e potrete anche sorridere ed essere contenti per le cose belle che questa bimba continuerà a fare anche se le manca moltissimo la sua mamma.
Qui troverete i racconti della sua vita che risalgono ad un periodo storico molto diverso da quello che viviamo noi oggi, ma che proprio per questo ci aiutano a comprendere cosa significa vivere dopo una guerra. È molto bello leggere anche i pensieri della sua mamma che, anche se volata nell'eternità si ricorda, pensa e vuole per sempre bene alla sua bimba che è ancora sulla terra, infatti lei stessa dice che non saremo mai lontani perché siamo fatti di desideri più che di carne, impastati in un materiale più delicato che quella di solita lega di ciccia e sangue. Dunque provate a vedere se avete voglia di ascoltare e stare vicino a questa bambina che vive questa esperienza un po' difficile, ma che tuttavia non si scoraggia mai.

Per l'infanzia che è in un corpo già grande consiglio, per questo libro, di trovare un posto caldo, solitario, che sappia guardare verso l'infinito, poi consiglio due generi di lettura quella tutta d'un fiato che ci porta via con essa e non sappiamo più dov'è il posto dove siamo, oppure la lettura a dialogo collettivo (a due voci magari) per mettervi in scena e vivere sino in fondo questi attimi di altro tempo. Vi ritroverete accovacciati in voi stessi, troverete un silenzio mai trovato, che forse in realtà rintraccia l'urlo che si fa anche quando si nasce, che sorprende, spaventa e meraviglia. Masini vi prende per mano, non vi lascia comunque soli, ma con i pensieri vi farà scoprire angoli mai visti, traiettorie mai tracciate. Comparirà il timore della dimenticanza nel famoso eterno presente che ci farà preferire di insistere nel continuare a ricordare, vedere, sentire perché i ricordi preziosi non si spengono e noi possiamo sempre avere una lampadina. La prefazione di Roberto Faeti ne amplifica e sostiene la straordinaria profondità esistenziale e filosofica. Beatrice Masini sembra essere molto vicina a dare senso a ciò che spesso senso sembra non trovarne. Se avete un po' di coraggio infantile tentate e leggete.

Il giardino dei musi eterni
Per l'infanzia che è ancora in un corpo piccolo Il giardino dei musi eterni è un giardino speciale, abitato dagli Àniman, senza capo né coda, che lasciata la terra, e con lei i loro amici e amiche umani, per sempre si ritrovano in questo luogo indefinito e di tempo infinito. Si tratta di un cimitero per animali in cui Ginger, gatta maine coon a pelo semilungo, Orson, cane pastore maremmano abruzzese, Mama Kurma, vecchissima tartaruga europea di terra, Ted pastore tedesco poliziotto, Trilly porcellina d'india peruviana, Sophie cagnetta bastarda, e molti e molte altri e altre ci portano a vivere un'avventura nella vita ultraterrena fatta di mistero e amicizia. Gli Àniman parlano, pensano e ci faranno scoprire che a volte bisogna lasciare andare qualcuno o qualcosa a cui vogliamo molto bene senza paura, perché esiste, anche per gli animali, un luogo fantastico in cui il tempo è divenuto infinito.

Per l'infanzia che è in un corpo già grande gli Àniman sono l'Anima più grande che possiamo incontrare nella vita, Tognolini con il suo sguardo poetico e fantastico dona l'Àniman a quelle creature che abitano con noi l'esistenza. Il giardino dei Musi eterni è un insegnamento unico, quello di pensare che possiamo essere tutti e che tutti possono essere noi, non solo nell'eternità. Non fatevi prendere dunque dalla fatica dell'abbandono, ma sappiate cogliere la forza della vicinanza, del legame anche con chi ci sembra di essere così differenti da noi. Tognolini ci mostra il potere di pensare che gli animali possano essere Àniman.

Silvia Bevilacqua


Quasi una biografia/
Giuseppe Brunetti. Il culto del dubbio

Il Centro Internazionale della Grafica di Venezia, un anno e mezzo fa, ha pubblicato Uno spirito libero, in un'edizione limitata. Il medesimo testo è ora disponibile con una veste rinnovata: Giorgio Brunetti, Educazione alla libertà (edizioni Nuovadimensione, Portogruaro - Ve 2017, pp. 157, prezzo non specificato).
L'autore, già docente di Economia aziendale alle facoltà Ca' Foscari di Venezia e Bocconi di Milano, è professore emerito e autore di diversi libri sulla sua materia di insegnamento, ma qui dedica la sua attenzione al ricordo del padre Giuseppe, nato nel 1907 e morto nel 1985. Sarebbe però improprio catalogarlo fra le biografie: non mancano i dati essenziali, ma lo scorrere del vissuto è cadenzato dalla crescita della sensibilità intellettuale descritta parallelamente ai principali avvenimenti storici italiani e al dibattito alimentato dagli stessi.
Giuseppe Brunetti nasce da “famiglia modesta” a Venezia dove trascorre tutta la sua esistenza; trova lavoro come infermiere, studia e si diploma, trovando in questa professione la coerenza etica che caratterizzerà tutto il suo percorso di vita; si sposa, ha un figlio e due nipoti.
“Gli ammalati gli offrono uno spaccato di una umanità dolente e disagiata che lo coinvolge profondamente: viene a contatto con vagabondi, avvinazzati, questuanti e poveri di ogni tipo. Ha un profondo senso di rispetto della persona ed è generoso quando si tratta di aiutare i degenti, qualità che lo aiutano a svolgere il lavoro di infermiere con professionalità e con altrettanta umanità”. È questo affettuoso ritratto di Bepi a delineare l'indole benevola che sempre lo accompagnerà e che aiuta a comprendere l'instancabile esigenza di un'incessante ricerca culturale maturata fino all'avvicinamento al movimento e all'ideale anarchico, entro il quale trova una personale dimensione di coerenza oltre ad ulteriori stimoli di arricchimento del proprio pensiero.
L'incontro con Giulio Morandini diventa così fondamentale che Giuseppe affiancherà, all'approfondimento dei suoi interessi, uno sguardo critico prettamente libertario a “conferma del suo sentire. Una filosofia etico politica nella quale scopre cose che avverte da sempre quali la libertà dell'individuo, la sua autodeterminazione e il totale e pieno diritto di scelta, di consenso o di rifiuto.”
Frequenta la Libreria Internazionale di Venezia e le tante iniziative lì organizzate, anche grazie alle instancabili attività editoriali ed artistiche di Silvano Gosparini che in seguito diverrà il fulcro creativo del Centro Internazionale della Grafica.
Il figlio Giorgio, nel dettagliare autori e titoli di cui è composta la biblio/emeroteca del padre – ora divenuta un fondo a suo nome conservato nell'Archivio Famiglia Berneri-Chessa - svela quanto, all'interno dei libri, abbia trovato appunti, parti evidenziate, citazioni esemplificative, commenti o recensioni a testimonianza di quanto le letture abbiano sempre nutrito il suo bisogno di approfondire una gamma vastissima di temi: “due insegnamenti di mio padre. Il primo, non sempre la ragione è a fondamento del proprio pensiero e del proprio agire, occorre anche tener conto del cuore. Il secondo è il culto del dubbio”.
La scorrevole lettura di Educazione alla libertà è di per sé una sorta di viaggio temporale, una mappatura delle principali tappe del percorso intellettuale del protagonista dalle quali emerge una poliedrica messa a confronto di saperi ed espressioni, dall'economia alla politica, dall'attualità alla letteratura, dalla pedagogia alla psicanalisi.

Chiara Gazzola


Migranti/
Quando la libertà dipende dal verso

“Tu racconti, io scrivo e firmiamo entrambi”. L'accordo tra Bruno Le Dantec, giornalista e scrittore, e Mahmoud Traoré, è stato da subito molto chiaro. L'idea di rubargli la storia era categoricamente fuori discussione (Partire - Un'odissea clandestina di Mahmoud Traoré e Bruno Le Dantec (traduzione di Federico Brivio, Edizione Baldini & Castoldi, Milano 2018, pp. 288, € 18,00).
Già per tutto il viaggio, sin dal treno Dakar–Bamako, il giovane, come tutti i migranti, ha dovuto fare i conti con una serie di appropriazioni indebite, richieste ricattatorie di denaro e altri soprusi che caratterizzano tutto il bizness dell'immigrazione. E poi secondo Bruno Le Dantec, troppo di rado i migranti hanno occasione di raccontare in prima persona la propria storia e i propri sentimenti. E quando anche lo fanno, troppo spesso le loro storie vengono riferite in maniera parziale e manipolatoria a seconda dell'obiettivo di chi, sia egli politico o giornalista, le riferisce.
La potenza del racconto del viaggio che Mahmoud Traoré ha affrontato sta nello svelarci soprattutto le nostre contraddizioni. Siamo ben disposti, non tutti ovviamente, ad accogliere migranti che scappano da guerre, dittature e fame. A noi e alle nostre coscienze fa comodo pensare che i flussi migratori avvengano solo ed esclusivamente a causa di fattori che pongano la fuga come unica alternativa ad una morte certa.
Non voglio negare che queste siano le motivazioni di una moltitudine di migranti, ma il punto è che ci è più facile far leva sul nostro pietismo piuttosto che sul nostro intimo concetto di libertà. Non è detto infatti che siamo disposti ad accogliere chi, come Mahoumud Traoré decide di partire all'improvviso per “fare l'avventura” all'africana semplicemente perché, come lui stesso racconta, “sei lì, a mani vuote, stanco di soffrire e di attendere qualcosa che, ne sei sicuro, non succederà mai se non sei tu ad andartelo a cercare. Così un bel giorno decidi di darti una mossa e vai a cercare fortuna, dicendoti che se ti andrà male potrai sempre tornare indietro”.
E così si arriva alla motivazione più personale, più intima che spinge Bruno Le Dantec a sbobinare più di trenta ore di registrato in cui Mahmoud Traoré racconta la sua odissea durata più di 3 anni (2002/2005). Scrive il giornalista: “Partire all'improvviso, ho fatto la stessa cosa, più o meno alla stessa età. L'unica differenza è che mi trovavo dalla parte giusta del mondo. Nelle situazioni difficili, un passaporto mi garantiva la possibilità di tornare a casa.”
Ma Mahmoud Traorè, nonostante l'illusione iniziale, ci racconta che non è più possibile tornare a casa. E non solo per orgoglio, perché non si vuole essere considerati dei falliti, dei rinunciatari mollaccioni. Non si può più tornare indietro perché non si hanno i soldi, non si hanno i documenti ma soprattutto non si riattraversa il deserto dopo che si è riusciti una volta e si sa quanti sono i morti che ci si è lasciati alle spalle. Perciò ci si ammassa per cercare di arrivare in Europa che pare l'unica meta possibile per sfuggire all'inferno libico o marocchino.
Partire - Un'odissea clandestina ci mostra molto chiaramente anche le contraddizioni delle politiche migratorie. Ci sono ampi settori della nostra economia che si basano esclusivamente sullo sfruttamento dei migranti irregolari, checché strillino ipocritamente e demagogicamente i politici.
Ma sempre di sfruttamento si tratta. La mano d'opera a bassissimo costo consente alle nostre economie di poter competere con i paesi emergenti in cui il lavoro viene sottopagato. E questo meccanismo non viene applicato solo in campo agricolo, ma anche in edilizia, nell'industria alberghiera, nella ristorazione oltre che nei servizi alla persona. Il ricatto di espulsioni, leggi discriminatorie e ritorsioni razziste, mettono il clandestino in condizione di apparire come il lavoratore ideale desiderato dal capitalismo. Come può infatti rivendicare alcunché chi è ricattabile su tutto?
Senza filtri, Mahmoud Traoré ci racconta anche le contraddizioni in seno alla stessa comunità dei migranti dove ovviamente non tutti i migranti sono angeli così come non tutti i passeur o i poliziotti sono mascalzoni, e del razzismo diffusissimo soprattutto in Libia nei confronti dei subsahariani. È amara la constatazione che i migranti, da quando partono a quando arrivano, sono una merce che durante tutto il tragitto fa guadagnare tutti tranne i migranti stessi, a meno che non decidano di fermarsi per dedicarsi in prima persona al bizness dell'immigrazione. E il bizness è a tutti i livelli.
Mahmoud Traoré non può infatti dimenticare il “torna quando vuoi” dettogli da uno dei militari marocchini che lo stava respingendo verso l'Algeria. Al momento aveva giudicato tale invito incomprensibile. Solo in seguito si renderà conto del senso di quelle parole: senza migranti non vi sarebbero i soldi che l'unione Europea versa al Marocco e alla Libia che nel 2005 era ancora sotto il dominio di Gheddafi (adesso pare che la mercificazione e le condizioni siano peggiori di allora).
Come scrive Bruno Le Dantec certo ora le rotte clandestine si sono spostate e la guerra in Iraq, in Siria e Libia hanno provocato ulteriori ingenti esodi cui si sono aggiunti a quelli dei curdi, dei palestinesi, dei somali, degli eritrei, degli afghani, degli iracheni e dei sudanesi oltre che dei pachistani, etc. Ma a prescindere dalla provenienza e dalla motivazione per intraprendere un esodo migratorio, la realtà è che qualsiasi migrante è una merce che crea profitto, ma che contrariamente a tutte le altre merci che circolano in questo mondo globalizzato, non ha alcuna tutela, sebbene di esseri umani si tratti. E questo è disumano. Come pure disumana è la geografia dell'Africa che emerge dal racconto.
Un'Africa divisa dal Sahara e da una serie infinita di confini fittizi, confini che delimitano zone di influenza di bande organizzate per sfruttare il traffico dei migranti, il bizness appunto. Certo ci sono anche i confini lasciati dalla spartizione coloniale, ma ciò che stupisce è che i paesi africani agiscano come se fossero ancora delle colonie. E la globalizzazione non fa altro che estremizzare lo sfruttamento colonialistico a vantaggio dei pochi che si spartiscono il potere e le mazzette a scapito della propria gente.
Diamo per scontate le dinamiche tangentistiche legate allo sfruttamento delle risorse petrolifere, e pare esemplare il caso del Senegal che concede alle multinazionali della pesca di pescare con mastodontici pescherecci di fronte alle proprie coste, a scapito della diffusissima economia della pesca locale che ovviamente non regge la concorrenza tecnologica e da anni è sprofondata in una devastante crisi economica. Dunque, al di là delle nefandezze che compiono i nostri governi nei confronti dei migranti, la domanda che rimane sul piatto è: perché i governanti del Senegal, del Niger, del della Nigeria eccetera non fanno nulla per i diritti alla libera circolazione della propria gente?
Eppure Mahmoud Traoré ci racconta che la solidarietà è l'unica semplice regola che governa l'agire della comunità che costituisce il suo villaggio.
E noi cosa facciamo?

Eugenia Lentini


Detenuti politicizzati/
Una vita tra le sbarre

Una storia articolata precede la pubblicazione di questo testo firmato da Giorgio Panizzari (L'albero del peccato, Edizioni Colibrì, Milano 2018, pp. 205, € 14,00) ma che va ritenuto, almeno parzialmente, un'opera collettiva con il doppio valore di testimonianza storica e di analisi da parte di un profondo conoscitore del sistema carcerario. Il testo originario, dallo stesso titolo, fu elaborato nell'1980-81 da un gruppo di detenuti nel carcere di Palmi e pubblicato a Parigi a firma “Collettivo Prigionieri Comunisti delle Brigate Rosse” nel 1983, in un'edizione che conobbe, contrariamente a L'ape e il comunista, scarsissima diffusione. L'autore, tra i fondatori dei NAP e successivamente entrato nelle BR, compie una radicale revisione della prima versione.
Ad opera conclusa, nel 1989, non c'è più niente del rustico vocabolario guerrigliero dei lottarmatisti, inutile cercare esortazioni programmatiche quali: “Magistratura penale dei tribunali che mitraglia raffiche di secoli di carcere a decine di migliaia di proletari; giudici istruttori, procuratori, giudici degli sfratti, tribunali dei minori; esperti tecnici dell'amministrazione e avvocati di regime che ne integrano struttura e funzioni, vanno battuti e dispersi se si arrendono. Massacrati se resistono.” - che si trovano nell'edizione parigina, espunte al pari di numerosi altri passi che oggi rappresentano pura archeologia. Così dalla prima persona plurale si passa a quella singolare, scelta opportuna visti anche i notevoli ampliamenti e le cospicue parti autobiografiche. Una lunga gestazione dunque per il libro dell'ex ragazzino torinese incappato, per reati comuni, prima in quella scuola di violenza che erano i riformatori degli anni '60 e successivamente in una condanna all'ergastolo per un omicidio non commesso.
Il contatto con i detenuti politicizzati dà forma e contenuti all'insofferenza verso le ingiustizie subite e trasforma Panizzari in una singolare figura di proletario divenuto intellettuale militante in un percorso consumatosi quasi interamente in istituti carcerari. La biografia dell'autore permea l'intero saggio che è in qualche modo il contrario di un trattato dell'osservatore distaccato, ma non per questo ne mina le capacità di valutazione, che restano integre e metodologicamente chiare. L'obiettivo è quello di definire la storia, formazione e struttura del proletariato extralegale, ovvero la parte della classe rivoluzionaria che conduce un'esistenza contrassegnata dall'infrazione delle leggi e conseguente detenzione. L'esigenza di chiarimento viene dall'originaria sentenza sul lumpen che ben conoscono il lettori di Marx & Engels - “putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società” - e dalla necessità di tenere assieme la teoria rivoluzionaria comunista e il ruolo del sottoproletariato. Come dire: salvare la capra marxista e il cavolo carcerato. Tale problema è del tutto estraneo alla tradizione anarchica che non si è mai fatta alcun problema ad includere tra gli oppressi bisognosi di rivolgimento globale gli strati marginali e socialmente irrecuperabili, mentre è questione spinosa per chi si aspetta la rivoluzione dal proletariato industriale disciplinatamente condotto da avanguardie politiche.
Talmente scomoda che Panizzari nota: “Benché il carcere stimoli indignazione in tutti i ceti sociali, c'è infatti chi lo ritiene un «male», sì, ma «necessario», e vorrebbe liberarsi della sua necessità; oppure chi lo vorrebbe continuamente riformato in vario modo; altri lo individuano come un simbolo da combattere e da abbattere: «baluardo controrivoluzionario della società borghese» ma non una sola rivoluzione politica in tutto il mondo ha saputo disfarsene!”. L'osservazione non è scorretta, ma lacunosa, e sarebbe stato bello se l'autore avesse ricordato chi erano quelli che durante la Rivoluzione spagnola svuotavano le carceri non per rinnovarne l'utenza ma per lasciarle definitivamente prive di ospiti.
A tali evidenti mancanze, che non sono di Panizzari ma dell'intero contesto marxista, corrispondono rigide formule derivate dal bisogno di corrispondere a un ingessato modello ottocentesco, racchiuso in sentenze del tipo: “Il percorso storico della produzione, dello sviluppo delle forze produttive, è racchiuso nel rapporto tra i mezzi di produzione-materie prime e lavoro umano = mp/l” - visione ristretta e determinista che, a modestissimo avviso del recensore, non tengono conto della natura proteiforme del dominio e della sua complicata relazione con il celeberrimo “sviluppo delle forze produttive”.
Il merito del libro si trova invece altrove, nelle brillanti descrizioni delle dinamiche delinquenziali-carcerarie, nelle testimonianze dirette e nell'inesausto desiderio di libertà che prorompe dalle pagine migliori, e nel suo rappresentare un importante documento su una parte dei movimenti degli anni '70 che andrebbero compresi e non demonizzati, ma men che mai mitizzati.

Giuseppe Aiello


Sulla Resistenza/
Vent'anni dopo Peli precisa

“...Non voglio con questo dire che grandi tentativi di sintesi delle vicende resistenziali, come quello di Roberto Battaglia, o di Giorgio Bocca, o di Gianni Oliva, non siano meritorie, o prive di grande utilità. Per loro natura, sono però comprensibilmente portate all'elaborazione di una narrazione unificante, o quanto meno a sfumare le grandi diversità di atteggiamenti, di partecipazione, di significati che la guerra partigiana assume nei vari contesti dove si realizza...” (p. 73).
La storiografia sulla Resistenza (come quella sull'anarchismo del resto) ha sofferto – almeno fino agli anni Novanta del secolo scorso, fatte ovviamente le dovute eccezioni – di prevalenti impostazioni autoreferenziali e da epopea, di narrazioni altisonanti talvolta più inficiate dagli stili propagandistici che caratterizzate dall'uso dei ferri del mestiere di storico.
Di questi ritardi e distorsioni, nel caso specifico riguardanti le modalità della produzione scientifica sulle vicende nazionali e sulla guerra civile del 1943-'45, portano la loro parte di responsabilità quelle istituzioni ed enti che si sono posti sullo scenario pubblico nazionale come, monopolistici e poco inclusivi, imprenditori politici della memoria, come vigili custodi delle ortodossie interpretative. E, a tal proposito, il riferimento evidente è sia all'atavica e persistente insipienza storiografica della rete degli Istituti storici della resistenza, sia ai fautori della tradizionale retorica celebrativa tipica dell'associazionismo combattentistico e reducistico.
Santo Peli è uno studioso di valore che, sulla scia della lezione indimenticabile di un grande maestro come Claudio Pavone, ha rotto da tempo quegli schemi e quegli approcci euristici monumentali e ingessati, così obsoleti e inutili. Perché solo con Pavone, e anche attraverso la sua innovativa categoria guerra civile, la ricostruzione storica su quegli anni tragici e tribolati è stata restituita a quell'universo emozionale che è insieme plurale e soggettivo e che, fino a quel momento, era stato appannaggio del racconto di testimoni d'eccezione e dei classici della letteratura (Fenoglio, Viganò, Calvino, Nuto Revelli...). Peli, già autore di testi fondamentali sulla classe operaia durante le due guerre mondiali, oltre che di studi specifici proprio sul movimento partigiano (si pensi ad esempio al suo ultimo, avvincente, Storie di Gap uscito nel 2014 con Einaudi), ripubblica oggi – a distanza di vent'anni e con i dovuti aggiornamenti bibliografici – questo prezioso saggio su La Resistenza difficile (Bfs Edizioni – Pisa / Centro Studi Movimenti Parma, 2018, pp. 140, € 16,00).
I temi tabù della violenza e della morte sono qui affrontati attraverso casi-studio e con l'indagine introspettiva sui percorsi esistenziali dei protagonisti, con la comparazione infine con le fonti extra-saggistica, come ad esempio i romanzi storici, le memorie e tutte quelle forme di scrittura che attengono l'arte di inventare il possibile e di renderlo reale, di “rifondare” insomma la stessa realtà. Su questo aspetto, non secondario, Giovanni De Luna – l'autore de La Resistenza perfetta – ha da tempo invitato i colleghi storici a superare il vecchio complesso di inferiorità dello scrittore mancato. Questo perché “spezzando i compartimenti stagni ereditati dal positivismo, il lavoro sulle fonti non appartiene solo alla fase erudita della sua ricerca, ma è parte integrante della narrazione”. Ed è lo stile ampiamente adottato da Peli: ossia una “relazione emotiva” instaurata con le fonti, tale da rendere più intenso il registro narrativo e da coinvolgere maggiormente il lettore, tale da restituire una realtà plausibile dei fatti che si vogliono far conoscere e delle correlate tesi interpretative. La questione della violenza – dura necessità o seduzione? – è ampiamente sviscerata dall'autore e le sue opinioni paiono del tutto condivisibili (almeno da parte del recensore).
“La mera deprecazione della violenza, facendo appello a un ovvio e incontestabile senso comune, è in realtà finalizzata all'annullamento della storia, alla banalizzazione e svuotamento delle cause dei contendenti” (p. 37).
Il volume contiene una Prefazione alla seconda edizione, una Introduzione (risalente al 1999) e sei saggi tematici così articolati: 1) La morte profanata. Riflessioni sulla crudeltà e sulla morte durante la Resistenza; 2) ”Rendere il colpo”. Osservazioni su novità e difficoltà della violenza partigiana; 3) Vecchie bande e “nuovo esercito”; i contrasti tra partigiani nella “grande estate” del '44; 4) Violenza e comunità locali nella guerra partigiana; 5) Il caso Nicola Pankov; 6) Operai e Resistenza.
La ricerca si fa apprezzare anche perché, oltre a “valorizzare i momenti alti” di un grande dramma collettivo, caratterizzato da un inusitato protagonismo popolare, mette a nudo il “lungo e travagliato lavorio di distillazione” del percorso resistenziale, ma, allo stesso tempo però non ne cela ambiguità e coni d'ombra.

Giorgio Sacchetti


Alfonso Failla (Siracusa 1906-Carrara 1986) è stato una delle figure più prestigiose del movimento anarchico di lingua italiana di questo secolo. Avvicinatosi giovanissimo all'anarchismo si impegna nella lotta contro il montante regime fascista. Più volte arrestato e sottoposto a provvedimenti restrittivi, nel 1930 viene spedito al confino ove rimane – salvo una breve parentesi di libertà vigilata a Siracusa nel '39 – fino all'estate del '43.

Dopo l'evasione in massa dal campo di Renicci d'Anghiari partecipa alla Resistenza principalmente in Toscana, Liguria e Lombardia. Nel dopoguerra è tra gli organizzatori della Federazione Anarchica Italiana redattore e direttore responsabile del settimanale Umanità Nova attivo nell'Unione Sindacale Italiana. Tiene centinaia di conferenze, dibattiti e comizi, l'ultimo dei quali a Pisa dopo l'assassinio di Franco Serantini.

Dal giugno del '72, per ragioni di salute è costretto ad interrompere l'attività pubblica.

Questo volume (pagg. 366 + XXIV, euro 12,90) è suddiviso in tre sezioni. Nella prima sono raccolte carte di polizia e documenti relativi al periodo '22/'43 tratti dal dossier Failla al Casellario Politico Centrale. Nella seconda sono raccolti gran parte degli articoli da lui scritti nel secondo dopoguerra. Nella terza sezione sono raccolte testimonianze della sua attività.

Per informazioni e richieste: info@sicilialibertaria.it