Rivista Anarchica Online



Resistenza antifascista/
L'anarchico pistoiese Silvano Fedi

“Silvano Fedi, nato nel 1920, muore il 29 luglio 1944 nelle vicinanze di Pistoia in un'imboscata tesagli dalle truppe tedesche, forse su delazione di alcuni italiani, ma l'episodio non è a tutt'oggi completamente chiarito”. Così scriveva Italino Rossi, che aveva già trattato la vicenda di Silvano Fedi nel libro La ripresa del Movimento Anarchico Italiano e la propaganda orale dal 1943 al 1950; edito nel 1981 dalle Edizioni RL a cura di Aurelio Chessa, aveva concluso la voce biografica sul comandante partigiano, contenuta nel Dizionario Biografico degli anarchici italiani (edito da BFS edizioni nel 2003). Della vicenda della Formazione Fedi si era occupata anche la rivista “A” nell'aprile del 1973 nella monografia “Gli anarchici contro il fascismo” ed anche Adriana Dadà nel suo libro L'anarchismo in Italia: fra movimento e partito, pubblicato nel 1984.
Preannunciato dal numero 241 del 2014, dal titolo “Agguato a Montechiaro”, del Notiziario del Centro di Documentazione di Pistoia, dove Ilic Aiardi e Roberto Aiardi avevano trattato della vicenda nella quale Silvano Fedi e due compagni della sua formazione, trovarono la morte, è uscito nel corso dell'anno, scritto dagli stessi autori, un altro libro che contestualizza storicamente e politicamente la figura del nostro compagno. Storie di Resistenza a Pistoia. La vicenda del comandante partigiano Silvano Fedi è un altro notevole ed esaustivo contributo al chiarimento di quella vicenda, nel contesto della Resistenza a Pistoia e nel territorio attorno a Pistoia. Il libro è dedicato al nostro compagno Giuseppe Pinelli e inizia con una densa introduzione e con la prefazione di Bruno Fedi, fratello di Silvano, che suggerisco entrambe di leggere con attenzione, per la profondità di prospettiva sul passato e sul presente: che oggi raramente è dato di avere.
Il libro che è un elevato contributo alla storia della Resistenza in Italia, per ricchezza di contenuti, esame della documentazione archivistica e raccolta delle testimonianze orali degli anarchici della Formazione Fedi, degli anarchici di Pistoia e della popolazione che soffrì la tragedia della guerra, dei bombardamenti e della guerra civile. È, a mio parere, pari all'altro grande libro che trattò, alcuni anni fa, la storia di quel periodo: Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, scritto da Claudio Pavone.
Da rammentare che il libro è stato edito dal CDP di Pistoia, che da decine di anni si occupa della conservazione della memoria antifascista coniugandola con quanto di progressismo si è via via sviluppato dalla cesura epocale del '68 in avanti, e che Aurelio Chessa, citato nel libro, per diversi anni, proprio a Pistoia, curò e sviluppò l'Archivio Famiglia Berneri, ora Famiglia Berneri-Aurelio Chessa.

Silvano Fedi

Dalle pagine del libro emerge una città profondamente amante della libertà, che alla riconquista di questa libertà ha visto sacrificarsi non solo la vita di Silvano Fedi e di diversi anarchici, ma anche di militanti di altri partiti, come si rileva dal libro. Infatti il libro è anche storia dei diversi contributi che le diverse famiglie politiche svilupparono in quegli anni. Eppure un libro così orientato politicamente ed ideologicamente propone al lettore fatti e, laddove alcuni fatti risultano essere controversi, ne sono presentate e ragionate le diverse versioni ed interpretazioni, che si sono succedute nel corso degli anni da allora. Viene di molto fatta chiarezza sui rapporti di Licio Gelli con la Resistenza e con Silvano Fedi, nonché sui retroscena che accompagnarono il cambio da un regime ad un altro.
Rimane tuttora ancora non esaurientemente definita la vicenda che portò all'agguato nel quale Silvano Fedi e due suoi compagni persero la vita, ma rimane la bella figura del militante anarchico.
Pieno di vita e di attività antifascista, accorto e spericolato quel che era necessario in un periodo convulso, generoso e attento alle necessità del momento, così da realizzare un forno di panificazione con un panificatore dedicato, per venire incontro alle terribili condizioni della popolazione stremata dalla guerra e dal passaggio del fronte. Certamente Silvano Fedi sarebbe stato un compagno fondamentale nella ripresa del movimento anarchico del dopoguerra.

Enrico Calandri


Sardegna/
Quei piccoli paesi a rischio estinzione

Sono 31 i piccoli paesi dell'interno della Sardegna a rischio concretissimo di totale estinzione in un futuro ormai sempre più prossimo.
Questi paesi sono infatti, attualmente, in fase di grave spopolamento, assieme a centinaia di altri paesi di media e più ampia popolazione, che sembrano reggere ancora, versando però in uno stato di costante precarietà e di terribile isolamento. Sono posti nelle aree interne dell'isola, lontani dai centri delle coste che attraggono turismo e dalle grandi città; e sono caratterizzati, ormai da tempo, da un continuo esodo, per la crisi economica (conseguenza delle profonde trasformazioni indotte dall'economia globalizzata) e perché, in generale, sulle giovani generazioni operano modelli (indotti) di vita che sono quelli produttivistici, individualistici e competitivi, della società dei consumi, per inseguire i quali, cercano opportunità e lavoro nelle grandi realtà metropolitane.
Di quest'attuale e grave fenomeno dello spopolamento, relativamente alla Sardegna, un documentato studio analizza le cause e fa un'esaustiva radiografia della situazione attuale: lo hanno coordinato Francesco Cocco, Nicolò Frenu e Matteo Lecis Cocco-Ortu, del collettivo interdisciplinare di progettazione e ricerca urbanistica e architettonica Sardarch e lo ha pubblicato l'editrice LetteraVentidue col titolo Spop. Istantanea dello spopolamento in Sardegna (Siracusa 2018, pp.190, € 20,00). Il collettivo Sardarch si presenta, nelle prime pagine del libro, con un Manifesto (redatto al Cabaret Voltaire di Zurigo nel 2009) che inizia con un deciso “noi crediamo nella ricerca tra ricerca e progetto al fine di stimolare una nuova lettura del territorio e della città”. Questa ricerca – si legge ancora tra le proposizioni del Manifesto – avrà come fine l'intervento attivo e partecipato sulle realtà territoriali al fine di ridisegnarle nel rispetto dell'ambiente, della loro storia e delle loro tradizioni, ed esalterà la bellezza, come fattore identitario dei luoghi, e il valore etico e politico dell'architettura. E, animati da tale spirito programmatico, sono i diversi interventi della prima parte del libro che analizzano, interpretano e valutano il presente della Sardegna interna e abbandonata, in vista, però, della costruzione di un nuovo modello di futuro, dove la progettazione tecnica ed economica, discussa e decisa dal basso, diventerà uno “strumento capace di ridurre squilibri sociali e di aumentare la qualità della vita”, di “far nascere nuove urbanità, nuovi rapporti tra urbs e civica”, e di “stabilire con il paesaggio-ambiente un rapporto di uguaglianza e di cura reciproca”.
La parte centrale del libro è costituita da un ampio e completo “atlante” che, in un nutrito corpus di cartine, presenta una chiara e accurata mappatura “dell'organizzazione geo-politica storica e attuale; dell'invecchiamento della popolazione e della geografia dello spopolamento” dell'intera Sardegna; e in delle schede dettagliate radiografa, “in una panoramica generale, lo stato demografico, geo-politico e dei servizi” di ognuno dei 31 paesi che, nel volgere breve dei prossimi decenni (secondo le stime dell'Istat) potrebbero non esserci più.
Quindi, dopo l'accurata analisi della realtà presente, il volume dà ampio spazio a quanto s'è fatto e si sta facendo nei centri interni dell'Isola, per uscire dall'isolamento e impedire il declino di un territorio carico di storia e di cultura: testimonianze e 'casi studi' documentano la formazione di Consulte giovanili, attive e propositive nelle politiche locali; il riutilizzo delle case chiuse vendute al prezzo simbolico di un euro; l'apertura dei musei diffusi; l'insediamento di accademie artistiche e culinarie di gran livello; la pianificazione partecipata ed ecosostenibile del recupero dei centri storici; le performance artistiche: come quelle di Gianluca Vassallo che nel 2016 “nel corso di dieci giorni ha attraversato dieci paesi tra quelli definiti in via di estinzione, in funzione della più vasta superficie pro-capite, ridefinita dall'artista come la circonferenza della solitudine” e ha raccolto testimonianze fotografiche e video che hanno dato vita a una mostra che ha ben raccontato “la strada, i paesi, le persone, gli sguardi e le parole degli abitanti visibili in una città invisibile che riassume tutte le altre”.
In un'intervista al musicista Paolo Fresu si propone, a modello di sapiente e sostenibile uso turistico del territorio, il noto festival jazz da lui ideato e che si svolge, ormai da anni, a Berchidda. E un intervento prende ad esempio quanto realizzato a Riace in Calabria, comune virtuoso nell'integrazione degli immigrati, per indicare un'altra possibile via per il ripopolamento dei borghi abbondati: considerare i migranti una risorsa e non un peso, in specie nelle comunità precarie e sottoabitate.
Il volume pone così l'attenzione su un fenomeno, lo spopolamento dei centri interni e rurali, che non riguarda solo la Sardegna, ma l'intera nazione: offrendo strumenti di indagine e interessanti stimoli operativi, perché “l'indebolimento demografico può essere visto come l'inizio di nuove strategie di relazione e residenza”.

Silvestro Livolsi


Rivoluzione russa/
La lenta disillusione di Emma Goldman

Opportuna e di grande utilità l'idea di rendere disponibili (Emma Goldman, Un sogno infranto - Russia 1917, Zero in Condotta, Milano 2017, pp. 114, € 10,00) alcuni articoli di Emma Goldman scritti tra il 1917 e il 1936, necessariamente disomogenei e a tratti frammentari, interamente focalizzati prima sull'abbattimento dell'autocrazia zarista e poi sulla conquista del potere da parte del partito comunista.
Va ricordato, per chi non sia già dedito alla storia del movimento anarchico, che Emma Goldman, di famiglia ebrea russa, era emigrata giovanissima dalla potenza imperiale euroasiatica, giungendo negli Usa nel 1885. Era qui che aveva aderito al movimento anarchico, entrando in contatto diretto con le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici statunitensi, in larga parte immigrati come lei. La repressione delle attività sindacali era di natura evidentemente diversa rispetto a quanto aveva lasciato in Russia, dove il despotismo era brutale e la contrapposizione tra rivoluzionari e tiranni di violenza immediata, e tuttavia la democrazia americana non mancò mai di mostrare il suo volto feroce, come nel caso degli assassinî di Chicago del 1886-87, prima per mano della polizia e poi del potere giudiziario.
Fu questo un evento cardine nella vita della Goldman che divenne oratrice, propagandista ed organizzatrice temutissima dal governo statunitense e costantemente perseguitata a causa delle sue idee. Alla caduta dello zarismo Emma Goldman era alle prese con la campagna anti-interventista nella Grande guerra per la quale sarà arrestata nel giugno 1917, assieme ad Alexander Berkman, e condannata a due anni di prigione per istigazione alla renitenza alla leva. La sua posizione era quindi particolarmente svantaggiata al fine di una corretta valutazione degli eventi in corso, così che l'entusiasmo per le travolgenti conquiste del popolo russo, unita alla lunghissima lontananza dalla terra d'origine, indusse la Goldman a schierarsi dalla parte del governo bolscevico con determinazione poco critica. Giusta la scelta quindi di riportare in apertura del volume due articoli apologetici datati dicembre 1917 e gennaio 1918, dove si possono trovare frasi bizzarre, se scritte da un'anarchica, come: “È evidente che sotto la rabbia nei confronti dei bolscevichi, condivisa dalle forze oscure di tutto il mondo, si nasconda un senso di rispetto, in virtù del fatto che Lenin e Trotsky chiedono non meno di... tutto! Tutto per le persone e niente per loro stessi.”
Con tali ottimistiche convinzioni, a guerra ormai finita, Berkman e Goldman uscirono di galera, ma un involontario sostegno alla loro futura consapevolezza arrivò dalla decisione delle istituzioni nordamericane di rispedire un po' di sovversivi nel paese della rivoluzione alla quale inneggiavano. A Emma Goldman tra l'altro venne ritirata la cittadinanza, al fine di giustificare una deportazione altrimenti giuridicamente impossibile, e fu quindi imbarcata su una nave che all'inizio del 1920 la riportò nei suoi luoghi d'origine. Quella che chiamerà la sua “disillusione” prese corpo lentamente, osservando di persona e verificando le affermazioni degli uomini del partito al potere e quelle degli anarchici con i quali si confrontava, verificando le condizioni dei lavoratori e cercando di comprendere le conquiste rivoluzionarie e le difficoltà del processo di cambiamento.
Nell'arco di poco più di un anno le sue certezze vengono completamente demolite, ricevendo il colpo di grazia nel marzo del 1921. “La realtà che trovai in Russia era grottesca, totalmente differente rispetto al grande ideale che mi ero costruita. Ci sono voluti quindici mesi prima che riuscissi a trovare dei punti di riferimento per orientarmi. Ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, il prezioso edificio che mi ero costruita si sgretolava sempre di più. Ho combattuto disperatamente contro le mie disillusioni. Per lungo tempo ho lottato contro quella voce silenziosa che dentro di me ripeteva insistentemente di affrontare i terribili fatti cui assistevo. Ma io non volevo, né potevo arrendermi. Poi è arrivata Kronštadt. È stato lo strappo finale che mi ha portato alla terribile realizzazione che la rivoluzione russa non esisteva più. Ho visto con i miei occhi il terrificante Stato bolscevico schiacciare ogni sforzo rivoluzionario costruttivo, sopprimendo, corrompendo e disintegrando qualsiasi cosa.” Purtroppo il volume costituisce solo un assaggio della corposa opera di Emma Goldman per la quale non sembra ancora prevista una pubblicazione organica – la celebre autobiografia in quattro volumi, Living my life, attende da tempo una ristampa: tre furono stampati negli anni '70 dalla Salamandra (ma sono da tempo introvabili), il quarto successivamente da Zero in Condotta (ma è anch'esso esaurito) – testimonianza straordinaria della storia dei movimenti rivoluzionari tra l'800 e il '900, indispensabile in tempi di facili mitologie e smemoratezza generalizzata.

Giuseppe Aiello


Tortura/
Nell'era della Resistenza

La storia inizia già dall'illustrazione di copertina, che è essa stessa un documento storico di rilievo riguardo “l'immaginario collettivo” dopo la Liberazione. Si tratta di un disegno del 1945, eseguito da Gaetano De Martino ex detenuto a San Vittore, raffigurante torturatori in azione, ben riconoscibili nei loro ruoli lugubri e nell'identità (un soldato tedesco con le mostrine delle SS e un fascista italiano). È una raffigurazione efficace del tema specifico, sorta di “quadretto”, che però può allargarsi e superare le stesse delimitazioni spazio temporali imposte dal titolo.
Questo nuovo lavoro di Mimmo Franzinelli (Tortura. Storie dell'occupazione nazista e della guerra civile (1943-45), Mondadori, Milano 2018, pp. 285, € 22,00) per la struttura narrativa chiara e accessibile, per il consueto stile d'indagine volto alla focalizzazione di tematiche specifiche e rilevanti, è assimilabile a tutte le sue precedenti opere di successo. Stavolta però la lettura, e d'altra parte c'era da aspettarselo, è davvero poco amena e suscita patemi.
Trattasi, in verità, di un vero e proprio “viaggio nell'orrore, per conoscere i meccanismi oscuri dell'animo umano e, forse, per individuarne qualche antidoto” (p. 252). Di certo il saggio, con particolare riferimento all'argomento trattato, oltre a mettere in risalto l'ormai consolidato e ben conosciuto impegno civile dell'autore, fine raccontatore e storico molto prolifico del fascismo, della Repubblica Sociale Italiana e della seconda guerra mondiale, evoca – nei suoi passaggi cruciali come nelle pieghe minuziose della trama – forti turbamenti e induce a tristi riflessioni. Prescindendo dal fatto che le cesure temporali siano delimitate al biennio 1943-1945, snodo che peraltro ricorre nella maggior parte degli studi di Franzinelli, è quasi d'obbligo “dilatare” ben oltre; del resto alcuni spunti per procedere in tal senso li troviamo chiaramente enunciati nelle poche intense pagine del libro dedicate alle “Conclusioni”. Questo perché “Per l'Italia, quello della tortura è un nervo scoperto, un problema sostanzialmente rimosso” (p. 251).
Si va così dalle similitudini e “continuità” riscontrabili nell'immediato secondo dopoguerra rispetto all'epoca precedente – basti pensare alle modalità di repressione e trattamento dei detenuti o dei sottoposti a fermo di polizia – per giungere agli anni Sessanta (con i carabinieri che torturano e seviziano i separatisti sudtirolesi); fino al terrificante G8 di Genova, e poi ai casi di Stefano Cucchi, Riccardo Magherini, Giuseppe Uva e molti altri. E come non ricordare allora che, proprio in Italia, il reato di tortura è stato introdotto in una forma così blanda da non punire neppure – appunto – casi come quelli di Diaz e Bolzaneto?
C'è allora un nesso parecchio evidente tra potere costituito e supplizio organizzato, tra quest'ultimo e l'esercizio della violenza “legittima” da parte dello Stato. In chiave attuale sarebbe sufficiente la compulsa sommaria dei rapporti annuali di Amnesty International, oppure basterebbe un approccio global history per tracciare una sorta di “storia mondiale della tortura”, plurisecolare, esattamente parallela a quella delle istituzioni statuali, ecclesiastiche, ecc. Fin dalle epoche più remote la mano dell'aguzzino, al servizio di Dio, della Legge, della Nazione, della Classe o di altre superiori entità o interessi, ha reiterato atti di crudeltà verso le persone non conformi e non allineate.
Da sempre tecniche più o meno raffinate di tortura sono state patrimonio dei protocolli di comportamento delle forze di polizia, militari, servizi segreti, strutture paramilitari o gruppi di guerriglia; ciò al fine di comminare sofferenze fisiche e psichiche ad avversari e oppositori, o in genere per strappare confessioni. Tali prassi, che in qualche caso sono state storicamente legittimate dai codici, sono rimaste il più delle volte nel limbo dell'informalità e della discrezionalità gestionale di ogni forma di potere. E poi i torturatori – come bene ci spiega Franzinelli – agiscono sempre in segreto e possibilmente senza lasciar tracce. Per una crudele e strana regola del contrappasso talvolta anche le stesse vittime tendono a rimuovere i loro ricordi: “A che pro esporre tutta una sequela di sevizie che disonorano l'umanità?” sono le parole di un reduce dai Lager e da San Vittore (p. 7). Così la “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” del 1948, pur nobile nei suoi intenti, non ha cambiato di una virgola i termini della questione.
Protagonisti e contesti son ben vagliati e analizzati dall'autore nei primi sei corposi capitoli: I laboratori del furore nazista; Torturati (e torturatori); Nella Repubblica della violenza; Le squadre della morte; Le polizie speciali. Di particolare interesse i focus relativi agli ultimi due capitoli: Sevizie contro le donne (nel quale si individua la tipologia sessista delle violenze insieme alla figura del maschio torturatore); La Resistenza macchiata (ossia i casi, rimossi, della “criminalità partigiana”). A quest'ultimo proposito è interessante riportare le conclusioni dell'autore (leggibili anche nel risvolto di copertina): “Seppure in versione isolata, anche i partigiani ricorsero alla tortura. E questa è la pagina più nera della Resistenza, il suo lascito peggiore. Eppure non è possibile un'equiparazione. Oltre alla rilevante diversità quantitativa, le torture inflitte dai fascisti rivestirono carattere istituzionale, mentre quelle perpetrate dai partigiani violarono le norme diramate dai CLN...”.
Studi come questo, che trattano in modo nuovo e con categorie e visuali particolari gli snodi cruciali del Novecento, ci fanno capire come sempre di più le fonti debbano essere interpretate – per dirla con Giovanni De Luna – “alla luce dei sensi, della sensibilità, delle emozioni dello storico stesso”.

Giorgio Sacchetti


Arte/
Che onori la vita

Sei condannato ad essere te stesso. (...) La calligrafia. Il modo di camminare. Il motivo decorativo delle porcellane che scegli. Sei sempre tu che ti tradisci. Ogni cosa che fai rivela la tua mano. Ogni cosa è un autoritratto. Ogni cosa è un diario.

(C. Palahniuk)

Questa frase è riportata dall'autrice nell'introduzione al libro di cui sto per parlare. Una frase che in poche parole racchiude l'essenza di tutto quello che si continuerà a leggere. Sono cinque ritratti di donne accomunate dal fatto di essere artiste, di usare strumenti mutuati dalle cosiddette arti minori (ricamo, uncinetto, intreccio...) e, soprattutto, di avere fatto del percorso di conoscenza di se stesse un racconto artistico, o opera d'arte, se più ci piace dire. Da questo il titolo: IO SONO – Arte, curato da Emanuela Scuccato per le Edizoni del Gattaccio (Milano).
Emanuela ha incontrato queste donne andando a casa loro, facendosi empaticamente raccontare le loro storie, la vita a partire dall'infanzia, con tutti gli accadimenti che rendono una persona quel che si trova ad essere, nel bene e nel male. Non siamo di fronte a una giornalista che, intervistando l'artista, incomincia a parlare per concetti astratti di non si sa bene cosa. In queste pagine ci vengono raccontati i perché, le diverse ragioni che hanno condotto un piccolo gruppo di donne ad usare certi strumenti espressivi per creare e crearsi.
Si tratta di persone che stanno lontane dal mercato modaiolo della vanità camuffata d'arte, più che altro figure, come si legge, che anelano a un'arte liberatoria, un'arte che le riconnetta alla loro autenticità e, per far questo, partono da dove sono e da quel che hanno, il loro corpo ad esempio, con le vesti e i monili che lo ricoprono e che diventano oggetti parlanti, per denunciare con ironica leggerezza le contraffazioni che il corpo subisce, per cercarne una nobiltà segreta.
Sono donne che usano strumenti che appartengono alla tradizione del lavoro manuale “femminile” come telai, aghi, fili, uncinetti – perché magari li conoscono bene già dall'infanzia – ma ne stravolgono l'uso, lo amplificano, lo portano lontano dall'abitudine: con il filo lavoro/ cerco pazientemente/di riunire i fili/che ci uniscono/alla natura, scrive ricamando Pietrina Atzori.
Sono personalità molto diverse per le quali il lavoro creativo diventa somma di ciò che si è compreso in lunghi percorsi di ricerca. Si possono trovare affinità o simpatia più per l'una che per l'altra, si possono tentare giudizi estetici - se ci aggrada e ne sentiamo il bisogno - ma il libro che le interviste formano, calato nel contesto dell'arte contemporanea, è quasi una pietra preziosa, proprio per il tono che usa e l'autenticità che cerca di comunicare. Si legge con piacere e vien voglia di arrivare fino in fondo, suscita curiosità e si vanno a cercare – oggi che internet permette la vetrina per tutte/i – le immagini del lavoro di queste donne, per capire meglio e anche per ammirare.
Un'arte che abbia per fine la consapevolezza, la guarigione, la libertà dell'individuo, in definitiva un'arte che onori la vita, che posto può avere in una società come la nostra? Nell'attuale sistema dell'arte c'è posto, ad esempio, per un'arte così come la intende Monica Gorza con questa domanda? Secondo la curatrice sì... purchè resti marginale.
Allora io mi chiedo: oggi si è centrali rispetto a che cosa? E cosa significa essere marginali? Non è forse lo spazio migliore in cui stare - il margine, il bordo, la periferia, il confine - dove, anche se privati della luce dei riflettori, si trovano piccole luci buone a illuminare le tracce che l'arte lascia lungo il percorso della vita?
Mi è capitato altre volte di occuparmi di argomenti affini a questo - di arte e creatività - recensendo libri, apparentemente molto diversi tra loro, per le pagine di questa rivista.
Lo scorso mese di maggio (“A” 425 - Contro le mostre) con la denuncia dello sfruttamento economico che le grandi opere d'arte subiscono ridotte a eventi commerciali.
Nell'ottobre dell'anno passato (“A”419 - Arte ir-ritata) presentando un'interessante ricerca che riflette sulla creatività come risorsa, nei luoghi di costrizione/detenzione, ma non solo.
Ancora un po' più indietro, nel mese di giugno (“A” 417 - Arte genuina e clandestina) ho cercato di mostrare il rapporto tra arte e agricoltura; entrambe produttrici di beni essenziali per la nostra vita, nonché di bellezza, ed entrambe vittime del medesimo destino che sta modificando alla radice la loro fisionomia.
Ho ricostruito questo percorso non per vanità della recensora, ma per irrobustire il filo in comune che attraversa questi libri e i pensieri che li hanno accompagnati, filo che unisce l'arte dell'occidente a quella d'oriente, africana e di ogni parte della terra, arrivando alla creatività di ognuno di noi. Un filo che collega gli autentici percorsi dell'avventura umana tracciati dall'arte mostrando – in epoca di ansia da “connessione” – il bisogno di ricostruire il frantumato legame con noi stessi e con il resto che vive.
Scrivevo ad esempio, che le forme dell'arte sono usurpate tanto quanto è cambiato il nostro rapporto con il cibo e la terra che lo produce e penso davvero che si possa ragionare in questo modo parlando d'arte, di un'arte che onori la vita, come viene detto in IO SONO – Arte.

Silvia Papi
http://artenatura.altervista.org
https://silviapapi.jimdo.com



Genova, 1° luglio/Quale ruolo per la stampa libertaria?

se ne parla con le redazioni di A, Cenerentola, Malamente, Umanità Nova

presso lo “Spazio Libero Utopia”, Via Ronchi, 59 Genova Multedo

Ore 16.00: “Qual è lo stato dell'informazione oggi? e quale ruolo ha o può avere la stampa libertaria oggi?”
Ne parleremo con 4 pubblicazioni libertarie: A, Cenerentola, Malamente, Umanità Nova.
“I media istituzionali sono inefficaci per diffondere le idee non conformi al sistema, ieri come oggi. Riviste, manifesti, giornali, periodici alternativi ai media ufficiali sono stati e sono necessari per descrivere le manifestazioni di massa, sviluppare teorie e pratiche antagoniste, denunciare i crimini delle istituzioni statali e religiose; questi sono gli scopi che la stampa libertaria deve e dovrebbe sviluppare” (da Anarchopedia).

Ore 20.00: pizzata di autofinanziamento

E-mail: rotta334@inventati.org
https://www.facebook.com/events/2054105461285459/
https://utopiagenova.noblogs.org/post/2018/05/14/domenica-1-luglio-ore-16-la-stampa-libertaria-oggi/