Rivista Anarchica Online




Onde gravitazionali
e granellini di sapere elementare


1.
Senza farmene accorgere, sottraggo un foglio affibbiato come “compito a casa” ad un bambino di terza elementare, me lo fotocopio e, quatto quatto, lo rimetto al suo posto. Ci sono alcuni aspetti di questo compito che, a mio parere, valgono proprio la pena – è il caso di dirlo – di un'analisi. L'esercizio è il seguente:
Depreco in genere che ai bambini – di qualsiasi età siano – venga riservata una produzione letteraria specifica, perché ritengo politicamente deleterio ch'essi, inermi, debbano subìre un sapere mistificato fatto di modelli standard e di regole da cui, più tardi, faranno una certa fatica a liberarsi – sempre che ci riescano. Tuttavia, qui, vorrei andare direttamente al cuore dell'esercizio. Che sembrerebbe suddividersi in due: una volta letta – e compresa – la poesia, “Rispondi e completa” e “Rispondi”. Già questa differenza mi lascia perplesso: l'invito a “completare” dipende dalla frase “È scritta in rima” che è sì senza il punto interrogativo, ma è anche una frase già compiuta. È vero: se prima spieghi cosa intendi per “rima”, puoi pretendere che il bambino sappia riconoscerla e cosippure, se spieghi che le modalità con cui comporre le rime sono tante, puoi pretendere che il bambino riconosca la “rima baciata”. Che la presenza della rima baciata nella storia della poesia italiana sia invero minima – che nel futuro della cultura letteraria di quel bambino la rima baciata avrà, al massimo, la funzione di un uso scherzoso e caricaturale della poesia –, questo, evidentemente, non è un argomento che preoccupa l'insegnante.
Dopo aver steso un velo pietoso sulla prima domanda – che implica una banale numerazione di qualcosa che, si spera, sia stato prima definito in modo un po' meno banale –, passiamo alle ultime cinque: Di che cosa parla la poesia? Chi è il protagonista? Da che cosa lo capisci? Quale sentimento prova nei confronti della notte? e (addirittura) Perché?
Come sempre nei nostri processi di comunicazione, parecchi sono gli impliciti. Già io contesterei l'assunto che una poesia debba “parlare” di “qualcosa” – come se dovesse, d'obbligo, scegliere un tema, unico e ben distinto da qualsiasi altro. Che, poi, debba averci anche un protagonista – come fosse un'avventura, una fiaba dai ruoli fissi e gerarchizzati (il protagonista, il comprimario, i personaggi secondari, etc.) –, uno e uno solo, e che questo sia a sua volta distinguibile da altri possibili protagonisti resta tutto da discutere. Nella poesia in questione c'è un io narrante, per esempio, ma c'è anche un orsacchiotto – e c'è una notte che, se non lasciata dietro una porta, fa paura: chi è il “protagonista”? Testo alla mano, potrebbe essere chiunque: un idraulico di cinquant'anni come un frate novantenne o un serial killer. Quando viene poi chiesto da cosa si deduce la risposta esatta alla domanda ci si guarda bene dal separare il testo della poesia dal suo paratesto, ovvero, nel caso, da ciò che, palesemente, ha il compito di illustrarla: il disegno, guarda caso, di una bambina – una femmina –, stretta felicemente al suo orsacchiotto – e qui non si può non rilevare come si stia propinando lo stereotipo della “femminuccia” come più paurosa del maschio. Non solo: la domanda “Da che cosa lo capisci?” è ambigua: può riferirsi sia al processo ipotetico-deduttivo di chi è chiamato a rispondere sommando testo e paratesto e sia al processo in virtù del quale qualcuno o qualcosa viene categorizzato come “protagonista” della poesia – un processo destinato a girare a vuoto perché l'io narrante può essere di chiunque. A maggior ragione, infine, le cose si complicano con le due domande conclusive, perché la prima delle due presuppone la risposta che è stata data in precedenza – se si prova un “sentimento” non si è un orsacchiotto di pezza, per esempio – e, dunque, chi è chiamato a rispondere scopre che tanto libero nel scegliere la risposta non è. Si scopre costretto in un percorso truccato perché prestabilito da qualcun altro. Se accetta, allora, le catene in cui si trova vincolato – e non si capisce come un bambino possa in queste condizioni sentirsi libero –, si trova di fronte ad un perché – perché la notte fa paura, perché è “fredda e scura”, perché la “porta” e la sicurezza che simboleggia, perché l'orsacchiotto, perché la lampada sul comodino – che, per venirne a capo, non basterebbe l'intera storia della psicoanalisi e dell'antropologia occidentale. Forse un po' troppo per un bambino di terza elementare.

2.
In una serata televisiva dell'aprile scorso, incautamente, mi è capitato di assistere alla trasmissione del moralista pontificante ottimismo dell'attuale società perbene e moderatamente colta, Massimo Gramellini – trasmissione in cui, giulebbando sulle “eccellenze italiane”, costui intervistava l'eroina della scienza di turno, l'astrofisica (o su di lì) Marica Branchesi. A quanto pare, costei avrebbe meriti particolari in ordine al nostro sapere circa le “onde gravitazionali” e, infatti, dopo aver adempiuto ai compiti propagandistici di regime, Gramellini le chiede di spiegare a lui e agli spettatori – come se spiegasse a un “bambino di tre anni” (bontà sua quella di eleggere il proprio pubblico a questo soglio intellettuale autoparametrandoselo) – cosa sono queste “onde gravitazionali”. Disinvolta quanto può esserlo chi alla stessa domanda ha risposto qualche migliaio di volte, lei risponde con l'analogia del sasso buttato nello stagno e conclude in un amen dicendo che le “onde gravitazionali” sono le “increspature” nello “spazio-tempo”. Al che Gramellini sorride felice e, ringraziando, dice di aver capito “perfino” lui. Troppo buono per il “perfino”, ma troppo tutto per la mia pazienza.

3.
In fisica, le “onde gravitazionali” vengono definite effettivamente come “perturbazioni” dello “spazio-tempo” e, a seconda dei punti di vista, se ne fa risalire l'origine alla collisione di due “buchi neri” o ad altri fenomeni cosmici. Per quanto concettualmente possono anche essere ricondotte alla teoria della relatività di Einstein, resta il fatto che, nello spiegarne l'esistenza, oggi si ricorre ancora a metafore: le “onde” e i loro “fronti” – come le “increspature” – sono metafore applicate a elementi cui assegniamo fisicità – l'acqua del mare e l'acqua dello stagno dopo che abbiamo buttato il sasso, per esempio –, ma l'assegnazione di fisicità a qualcosa che designiamo come “spazio-tempo” è un'impresa piuttosto rischiosa. È sufficiente leggere Kant per sapere che assegnare fisicità allo “spazio” ed al “tempo” considerati separatamente è già difficile – figuriamoci a questo ibrido denominato “spazio-tempo”. Che questo linguaggio – cui corrisponde perlopiù un formulario matematizzante – possa dire qualcosa ai fisici è anche possibile – fermo restando che la storia della fisica è piena zeppa di concetti cui i fisici hanno dovuto rinunciare perché rivelatisi metafore –, ma che questo linguaggio possa dire qualcosa a Gramellini ed ai “bambini di tre anni” invocati a testimoni innocenti ne dubito.

4.
In entrambi i casi – in terza elementare e nelle eccellenze della scienza contemporanea –, si fa affidamento su una comunicazione incomprensibile che viene spacciata per facilissima; si trasmettono parole che, come assegni a vuoto, prima o poi si riveleranno prive di significato o, meglio, ancora in attesa di trovarlo, questo significato. Ciascuno a suo modo – bambini e non più bambini –, sono tutti condannati a vivere scissi da un sapere che, nella consapevolezza o nell'inconsapevolezza di chi lo detiene o più semplicemente dice di detenerlo, è stato loro sottratto. Già qui s'instaura un'asimmetria sociale che determina una subordinazione irreversibile – come se l'imperatore della fiaba e i suoi lacché avessero compreso il punto debole del loro sistema di potere e, prendendo gli opportuni provvedimenti, avessero predisposto le cose in modo che non ci sia più alcun bambino capace di vedere – e di dire – che il re è nudo.

Felice Accame