|   Errico Malatesta 
                  Azione e rivolta morale 
                  di Franco Bertolucci 
                  Gli ultimi dieci anni (1922-1932) 
                  del rivoluzionario campano, segnati dalla vittoria del fascismo 
                  e della sua trasformazione in regime dittatoriale. Il ruolo 
                  della rivista “Pensiero e Volontà” (1924-1926) 
                  con le collaborazioni di Luigi Fabbri, Carlo Molaschi e... 
                 
                   Malatesta, 
                  alla fine del 1923, invia una circolare annunciando un nuovo 
                  progetto di rivista con lo scopo di «indirizzare il pensiero 
                  e la volontà dei nostri lettori verso» non le «idee 
                  astratte» o le «aspirazioni teoriche» ma «soluzioni 
                  pratiche e contingenti dei problemi che prevedibilmente si presenteranno 
                  nelle varie fasi delle rivoluzioni che stanno per venire». 
                  La circolare, partendo dalla considerazione sullo stato della 
                  crisi del paese e dell'Europa intera e sulle condizioni delle 
                  classi subalterne, giudicando la borghesia «incapace di 
                  ristabilire un qualsiasi ordine», prefigura un «cataclisma 
                  generale», «forse nuove guerre internazionali» 
                  e la necessità per gli «oppressi» e gli «sfruttati» 
                  di salvare se stessi e con essi tutta «l'umanità». 
                  La rivista, pur essendo aperta a collaboratori e amici, è 
                  di fatto la voce di un «gruppo di compagni», un 
                  ultimo manipolo «perfettamente d'accordo sugli scopi e 
                  sui mezzi» con un indirizzo unico ben determinato. 
                  Il 1° gennaio 1924, nonostante l'Italia iniziasse a sentire 
                  gli effetti della stretta repressiva e del controllo capillare 
                  degli organi d'informazione, esce il primo numero di «Pensiero 
                  e Volontà», ultima fatica editoriale di Malatesta. 
                  La rivista, quindicinale, ripropone nel formato e nell'impaginazione 
                  il modello del «Pensiero» – al cui titolo 
                  in parte si richiama –, la rivista diretta da Fabbri e 
                  Gori uscita nell'età giolittiana. D'altronde è 
                  lo stesso Fabbri, principale collaboratore di Malatesta, a sopportare 
                  con il “maestro” il peso redazionale della rivista. 
                “Un raccapricciante fenomeno di regresso 
                  morale e politico” 
                Intorno alla redazione della rivista si stringono i principali 
                  collaboratori di Malatesta: un piccolo gruppo di “menti 
                  eccelse” – oltre a Luigi Fabbri, il giovane Camillo 
                  Berneri, Carlo Molaschi, Luigi Bertoni, l'inseparabile Giuseppe 
                  Turci, che si occupa dell'amministrazione e dall'agosto del 
                  1924 assumerà la gerenza del periodico – e qualche 
                  vecchio amico come Francesco S. Merlino. 
                  Nell'editoriale del primo numero la redazione spiega con chiarezza, 
                  e con un atto di fede, i suoi propositi e ribadisce («Pensiero 
                  e Volontà», 1° gennaio 1924): 
                 
                   Anarchici, noi restiamo anarchici malgrado tutto e tutti. 
                    Noi siamo stati vinti in quel periodo di lotta che si è 
                    chiuso colla “presa di Roma” dell'ottobre 1922. 
                    Ma non sarà una sconfitta, del resto prevedibile, che 
                    ci farà rinunciare alla lotta, né alla speranza 
                    e certezza di vincere. Non vi rinunzieremo nemmeno per cento, 
                    mille sconfitte, poiché sappiamo che nei progressi 
                    umani è stato sempre a forza di perdere che s'è 
                    finito col vincere. 
                 
                 Nel contempo, si critica la fiducia di molti anarchici nella 
                  «spontaneità delle masse» e nel fatalismo: 
                  due atteggiamenti superficiali che insieme a «questioni 
                  tecniche di organizzazione e preparazione» hanno contribuito 
                  alla sconfitta e alla demoralizzazione dei militanti. Una situazione 
                  che per Fabbri è anche il prodotto della evoluzione politica 
                  e sociale del momento, frutto di un profondo «decadimento 
                  morale» che non ha eguali nella storia del nostro paese. 
                  L'anarchico di Fabriano, in un altro articolo sempre nello stesso 
                  numero della rivista, riferendosi direttamente al governo di 
                  Mussolini scrive che tale ministero anche se attraversa una 
                  fase instabile e «tanto faticoso è il suo trapasso 
                  a forme reazionarie meno caotiche e più solide», 
                  non sembra avere un futuro di lunga durata perché erediterà 
                  «parecchio dell'instabilità attuale». Fabbri 
                  sembra incerto nella sua analisi compressa tra il pessimismo 
                  razionale prodotto dalla sconfitta e l'ottimismo di una rinascita 
                  legato alla sua fede coerente e cristallina. Non sembra accorgersi 
                  che l'instabilità politica e sociale nata dal conflitto 
                  sta producendo un fenomeno di impronta autoritaria che manifesta 
                  nuove forme e concezioni del potere fino ad allora sconosciute. 
                  Nettlau, come Fabbri individua la radice di questa nuova «offensiva 
                  autoritaria» nella guerra mondiale – quando il «militarismo 
                  demoliva i corpi ed il nazionalismo avvelenava gli spiriti» 
                  – condivide il giudizio sulla «bancarotta morale 
                  dell'autorità» borghese, auspicando il giorno della 
                  riscossa. Malatesta, qualche mese dopo, avalla questa lettura 
                  di Fabbri del fascismo definendolo un «raccapricciante 
                  fenomeno di regresso morale e politico» («Pensiero 
                  e Volontà», 15 agosto 1924). 
                  Complessivamente, la rivista cerca di analizzare le cause della 
                  disfatta operaia e del movimento libertario di fronte al sorgere 
                  di governi autoritari e dittatoriali – non viene mai utilizzato 
                  il termine totalitario, neologismo d'altronde coniato proprio 
                  in quegli anni –, sia di natura reazionaria come quello 
                  fascista che di natura rivoluzionaria come quello comunista. 
                  Il nocciolo della questione della disfatta è individuato, 
                  come detto, nella «questione morale». Malatesta 
                  avrà modo in seguito di ritornare sulla questione etica 
                  ribadendo che l'affermazione del fascismo è dovuta in 
                  gran parte alla mancata «rivolta morale contro l'abuso 
                  della forza brutale, contro il disprezzo della libertà 
                  e la dignità umana, che sono la caratteristica del movimento 
                  fascista». 
                  Questa interpretazione del fascismo come «malattia morale» 
                  della società, avrà negli anni seguenti un'ampia 
                  diffusione tra gli intellettuali e gli storici europei di diversi 
                  orientamenti politici e culturali. Ad esempio, per il filosofo 
                  liberale Benedetto Croce il fascismo «fu uno smarrimento 
                  di coscienza, una depressione civile e una ubriacatura, prodotta 
                  dalla guerra». Va da sé però che l'interpretazione 
                  crociana si discosta di molto da quella di Malatesta. Il filosofo 
                  giudicherà il regime fascista come una momentanea e infausta 
                  parentesi dal processo di costruzione dell'Italia liberale che 
                  «aveva trovato il suo momento più alto nel compromesso 
                  giolittiano» considerato un «capolavoro politico» 
                  mentre è risaputo che Malatesta nel fascismo vede una 
                  continuità di molti di quegli elementi istituzionali, 
                  economici e culturali tipici proprio del sistema politico che 
                  si era affermato con Giolitti. 
                  Anche Carlo Rosselli, qualche anno dopo, utilizzerà questo 
                  schema interpretativo considerando il fascismo come una «malattia 
                  morale», prodotta da ataviche radici ben profonde nella 
                  storia italiana. La riflessione di Rosselli, che trae origine 
                  da quella di Gobetti e che ha qualche punto di contatto con 
                  quelle elaborate in campo libertario da Malatesta e Fabbri, 
                  vede l'affermazione del fascismo come l'esito di un processo 
                  al cui centro vi è la mancata rivoluzione liberale ottocentesca 
                  che non ha saputo affermare delle vere istituzioni democratiche 
                  e che è affogata in un sistema di governo fondato sul 
                  «paternalismo, clientelismo, trasformismo e autoritarismo». 
                  Dunque, al contrario di Croce, per i giovani intellettuali antifascisti, 
                  influenzati dalla cultura liberale e socialista e che dopo pochi 
                  anni daranno vita al movimento Giustizia e libertà, il 
                  fascismo è nato dalle contraddizioni e dalle aporie dell'Italia 
                  liberale e si è affermato grazie a un'inedita alleanza 
                  delle tradizionali burocrazie pubbliche con i ceti proprietari 
                  e con quelle avanguardie reazionarie sostenitrici di un progetto 
                  autoritario di società e di Stato. 
                  Tema questo delle radici del fascismo condiviso anche dallo 
                  stesso Fabbri che, a tale proposito, scrive («Pensiero 
                  e Volontà», 15 dicembre 1924): 
                 
                   Metafore a parte, il fascismo è il prodotto logico, 
                    l'ultimo sbocco della civiltà capitalistica che, giunta 
                    all'epilogo della sua fase discendente ritorna alla barbarie 
                    e, in certo modo, a rinnegare e divorare se stessa. Quel giornale 
                    fascista che diceva essere il fascismo non un frutto sbocciato 
                    all'improvviso dal 1919 al 22, bensì conclusione dell'ultimo 
                    ventennio della politica italiana, non aveva tutti i torti. 
                    Il fascismo c'era già nella corruzione dei partiti, 
                    nell'utilitarismo e nell'egoismo trionfanti, nei difetti delle 
                    spesse classi oppresse, in quello che allora si chiamava giolittismo 
                    ma era qualcosa di più e di peggio del sistema d'un 
                    uomo politico. 
                    La guerra è stata l'incubatrice che ha fato sviluppare 
                    più rapidamente e violentemente i germi del male; senza 
                    la guerra ci poteva essere la speranza che il male potesse 
                    esser vinto ancora in germe dalle forze novatrici e rivoluzionarie. 
                    Ma il male c'era: un male del tutto costituzionale, insito 
                    nell'ordinamento sociale che ha per base l'interesse, lo sfruttamento, 
                    l'oppressione a vantaggio di pochi e a danno del maggior numero. 
                    Il fascismo è l'ultima e più grande manifestazione 
                    di questo male. 
                 
                 Fabbri esprimerà, quindi, un certo sconforto ed esitazione 
                  nell'analisi politica – cosa che risulta comprensibilissima 
                  date le circostanze –, questa in gran parte usa gli strumenti 
                  concettuali impiegati fino ad allora – soprattutto quelli, 
                  come abbiamo visto, relativi al conflitto di classe – 
                  che ora risultano in parte non sufficienti a giustificare la 
                  sconfitta epocale del movimento operaio, socialista e libertario. 
                  La lettura di Fabbri, come è stato rilevato in campo 
                  storiografico – al di là di alcuni limiti, peraltro 
                  come già ricordato comuni ad altri esponenti della sinistra 
                  italiana dell'epoca, basti pensare all'analisi classista del 
                  fascismo di Amadeo Bordiga e dello stesso Gramsci – è 
                  stata anche condivisa da altre riflessioni più articolate 
                  effettuate alcuni anni dopo da Salvemini e Tasca. 
                  Va ricordato che, in questi anni, sia Bordiga che Gramsci ritengono 
                  che la crisi delle istituzioni monarchico/liberali con l'emergere 
                  del fenomeno del fascismo possa giovare allo smascheramento 
                  delle forze socialdemocratiche e aprire la strada alla rivoluzione. 
                  Gramsci in particolare sottolinea la risultante di classe, l'esistenza 
                  delle forze che stanno dietro le bande fasciste (la casta militare, 
                  i proprietari agrari, il capitale finanziario) e rivolge anche 
                  la sua attenzione e l'acume della sua invettiva agli aspetti 
                  sociologici e psicologici dello squadrismo come frutto di tutti 
                  i sedimenti parassitari e «barbari» della società 
                  italiana, del suo costume e malcostume, ai caratteri della ubriacatura 
                  ideologica che lo anima, tenendo sempre a fuoco l'esistenza 
                  di una disgregazione in atto dell'autorità statale, specchio 
                  di una disgregazione sociale. Di qui, l'esame del fascismo come 
                  prodotto dell'irrequietezza della piccola borghesia urbana, 
                  una delle sue componenti essenziali, non facilmente armonizzabile 
                  con l'altra che Gramsci accosta, quella «agraria antiproletaria». 
                
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   1° 
                        luglio 1924 - Prima pagina di «Pensiero e Volontà» 
                        listata a lutto per l'assassinio di Giacomo Matteotti  | 
                   
                  
                “Nemici di qualsiasi governo” 
                Va altresì ricordato che mentre gli anarchici guardano 
                  e criticano il fascismo, con tutti i loro limiti, in “presa 
                  diretta” cercando di elaborare una strategia d'opposizione 
                  concreta, molti degli esponenti delle opposizioni moderate arriveranno 
                  ad una scelta e a una elaborazione della critica antifascista 
                  più tardi rispetto all'affermazione di tale movimento 
                  guidato da Mussolini. Come è stato rilevato in ambito 
                  storiografico, molti esponenti del liberalismo (come Benedetto 
                  Croce, Luigi Albertini e lo stesso Giovanni Amendola) e dei 
                  popolari, ma anche alcuni esponenti del socialismo riformista 
                  italiano, solo con la crisi di Matteotti abbracceranno in maniera 
                  convincente l'antifascismo. 
                  Le elezioni della primavera del 1924 sono un'arma in mano al 
                  governo Mussolini per allargare il proprio consenso mentre le 
                  opposizioni, divise e indebolite, hanno un atteggiamento, come 
                  ricordato, esitante e contraddittorio. Fabbri battezza profeticamente 
                  queste elezioni come le «elezioni del manganello», 
                  riprendendo alcune parole di un deputato fascista. Inoltre, 
                  qualche settimana dopo la conclusione del turno elettorale, 
                  oltre a denunciare le violenze fasciste, ribadisce attraverso 
                  una critica puntuale che solo con l'astensione le opposizioni 
                  avrebbero di fatto potuto svuotare la “vittoria” 
                  fascista, accelerando il processo di «decomposizione» 
                  del movimento e favorito il «mutamento del regime». 
                  Malatesta, nello stesso numero della rivista, riafferma chiaramente 
                  il suo punto di vista sulla questione della partecipazione del 
                  partiti di opposizioni alle elezioni («Pensiero e Volontà», 
                  1° marzo 1924): 
                 
                   non riconosceremo mai le istituzioni, prenderemo o conquisteremo 
                    le riforme possibili con lo spirito con cui si va strappando 
                    al nemico il terreno occupato per procedere sempre più 
                    avanti, e resteremo sempre nemici di qualsiasi governo, sia 
                    quello monarchico di oggi, sia quello repubblicano o bolscevico 
                    di domani. 
                 
                 Egli in questi mesi non si stanca di dare indicazioni ed elaborare 
                  riflessioni sulla situazione politica per non far perdere l'orientamento 
                  ai militanti e gruppi sparsi in Italia, che sopravvivono oramai 
                  quasi nella semi-clandestinità. È un leader politico 
                  cui il governo e i suoi “mazzieri” cercano in ogni 
                  modo di impedire di svolgere qualsiasi azione. È strettamente 
                  sorvegliato, i suoi amici, la sua famiglia sono continuamente 
                  sottoposti a misure restrittive e ad atti intimidatori. Malatesta 
                  intuisce la necessità di un cambio di marcia dopo le 
                  elezioni che ridia spazio agli anarchici e li faccia uscire 
                  dal loro isolamento.  
                  La strategia di fondo del pensatore anarchico si delinea in 
                  una visione graduale del processo rivoluzionario, durante il 
                  quale gli anarchici a seconda della situazione sociale e politica 
                  potranno spingere verso l'attuazione del proprio programma e, 
                  se le forze glielo permetteranno, di attuare un'opposizione 
                  intransigente e determinata anche in un contesto dove a primeggiare 
                  siano forze socialiste e/o repubblicane autoritarie. La volontà 
                  e l'esempio, per Malatesta, consentirebbero di mantenere un'autonomia 
                  e indipendenza al movimento senza compromettersi ma mantenendo 
                  saldi i suoi rapporti con le classi subalterne («Pensiero 
                  e Volontà», 1° marzo 1924). 
                 
                   Siamo riformatori oggi in quanto cerchiamo di creare le 
                    condizioni più favorevoli ed il personale più 
                    cosciente e più numeroso che si può per menare 
                    a bene una insurrezione di popolo; saremo riformatori domani, 
                    ad insurrezione trionfante e a libertà conquistata, 
                    in quanto cercheremo, con tutti i mezzi che la libertà 
                    consente, cioè con la propaganda, con l'esempio, con 
                    la resistenza anche violenta contro chiunque volesse coartare 
                    la nostra libertà, cercheremo, dico, di conquistare 
                    alle nostre idee un numero sempre più grande di adesioni. 
                 
                 A questo proposito Malatesta, nell'ipotesi della caduta della 
                  monarchia e del fascismo con il ripristino della democrazia, 
                  scrive («Pensiero e Volontà», 15 marzo 1924): 
                 
                   Non v'è dubbio, secondo me, che la peggiore delle 
                    democrazie è sempre preferibile, non fosse che dal 
                    punto di vista educativo, alla migliore delle dittature. Certo 
                    la democrazia, il cosiddetto governo di popolo, è una 
                    menzogna, ma la menzogna lega sempre un po' il mentitore e 
                    ne limita l'arbitrio; certo il «popolo è sovrano» 
                    è un sovrano da commedia, uno schiavo con corona e 
                    scettro da cartapesta, ma il credersi libero anche senza saperlo 
                    val sempre meglio che il sapersi schiavo ed accettare la schiavitù 
                    come cosa giusta ed inevitabile. 
                 
                 Pur ribadendo la critica libertaria sia ai sistemi dittatoriali 
                  che a quelli democratici, Malatesta sentiva la necessità 
                  di mantenere vivo un dialogo soprattutto con le giovani generazioni, 
                  anche quelle che guardavano con simpatia e sincerità 
                  agli ideali democratici liberali, e tra questi i giovani repubblicani. 
                  Fu un ulteriore tentativo di conservare un rapporto con quelle 
                  forze genuine della gioventù disposte a opporsi energicamente 
                  al fascismo, ma anche nel contempo a evitare che la bandiera 
                  “antifascista” fosse issata e difesa solo da forze 
                  moderate. Malatesta insistette su questo argomento di alleanze 
                  con altre forze politiche vicine culturalmente, precisando che 
                  questa ipotetica unità si doveva misurare con il «fatto 
                  rivoluzionario». Se fosse caduto Mussolini, il nuovo governo 
                  sarebbe stato probabilmente repubblicano, ma gli anarchici non 
                  avrebbero riconosciuto alcuna «Costituente repubblicana» 
                  («Pensiero e Volontà», 1 giugno 1924): 
                 
                   Lasceremmo farla se il popolo la vuole; potremmo anche trovarci 
                    occasionalmente ai suoi fianchi nel combattere i tentativi 
                    di restaurazione; ma domanderemo, vorremo, esigeremo completa 
                    libertà per quelli che la pensano come noi di vivere 
                    fuori della tutela e dell'oppressione statale e di propagare 
                    le loro idee colla parola e coll'esempio. 
                    Rivoluzionarii sì; ma soprattutto anarchici. 
                 
                 Malatesta confida nella natura umana, nella volontà 
                  rivoluzionaria e nel principio pedagogico dell'esempio con il 
                  quale la nuova società fondata sulla libertà si 
                  affermerà in contrapposizione al vecchio mondo autoritario. 
                  Compito degli anarchici, per Malatesta, è dunque quello 
                  di difendere ed estendere tutte le libertà, e nella fase 
                  transitoria dal vecchio regime alla nuova società, dove 
                  le varianti politiche e sociali potranno essere molte, gli anarchici 
                  dovranno dunque restare tali «prima, durante e dopo la 
                  rivoluzione» mantenendo al massimo le proprie capacità 
                  di influenza morale e politica sulle classi subalterne. Lungi 
                  dall'orizzonte dell'anarchismo ogni ipotesi che contempli l'imposizione 
                  di una scelta autoritaria, confidando nello spontaneismo delle 
                  classi subalterne liberate dalle catene della schiavitù, 
                  l'anarchia si affermerà gradualmente nella misura in 
                  cui le idee di libertà e di eguaglianza diventeranno 
                  un patrimonio comune. Va altresì ricordato che anche 
                  Berneri, con il suo approccio critico, cercò di superare 
                  l'immobilismo teorico di gran parte del movimento. Alla fine 
                  degli anni Venti, e durante tutti i primi anni Trenta, tentò 
                  di svecchiare l'apparato teorico del movimento alla ricerca 
                  di possibili alleati per un'eventuale insurrezione antifascista 
                  in Italia, soprattutto avviando un confronto con gli ambienti 
                  più aperti dei circoli dell'antifascismo democratico 
                  come i giellisti e/o certe frazioni di socialisti e repubblicani. 
                  In questo senso vanno letti i suoi contributi riguardanti la 
                  questione dell'atteggiamento degli anarchici sul problema elettorale, 
                  così come quello delle alleanze e le riflessioni sui 
                  problemi della transizione da una società borghese a 
                  quella rivoluzionaria. 
                
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Copertina del primo numero di «Pensiero e Volontà», 1° gennaio 1924  | 
                   
                  
                “Con il governo fascista, non si 
                  tratta” 
                Ma non tutti sono d'accordo con la posizione di Malatesta e 
                  dei suoi più stretti collaboratori della redazione, come 
                  Luigi Fabbri. Ad esempio Carlo Molaschi propone un'alleanza 
                  politica con i repubblicani di sinistra e anche altre forze, 
                  al fine di convergere «intorno ad una bandiera che agitasse 
                  l'idea federalista». Malatesta risponde a Molaschi confermando 
                  la propria posizione e contestando l'idea che uno Stato federalista 
                  sia meno autoritario di un Stato liberale o dittatoriale e sulla 
                  necessità e l'urgenza di una lotta contro il fascismo 
                  unendosi «con tutti quelli che vogliono agire, senza andar 
                  cercando delle affinità che non esistono». Il pericolo, 
                  per Malatesta, e che a forza di cercare affinità con 
                  gli altri si cessi alla fine di essere anarchici. 
                  Su questi argomenti tornerà ancora, con l'idea che «pensare, 
                  studiare, prepararsi» sia la condicio sine qua 
                  non per affrontare un tema così delicato e difficile 
                  per gli anarchici. Per Malatesta («Pensiero e Volontà», 
                  1° ottobre 1925) gli anarchici non possono fare da soli 
                  la rivoluzione ma è necessario unirsi a 
                 
                   [...] tutte le forze progressiste esistenti, con tutti i 
                    partiti d'avanguardia ed attirare nel movimento, sommuovere, 
                    interessare le grandi masse, lasciando che la rivoluzione 
                    della quale noi saremo un fattore fra gli altri, produca quello 
                    che può produrre. 
                 
                 La successiva drammatica vicenda del rapimento e dell'uccisione 
                  del deputato socialista Giacomo Matteotti, che aveva denunciato 
                  in parlamento con determinazione le aggressioni fasciste durante 
                  la campagna elettorale dell'aprile definendo il fascismo come 
                  il principale strumento politico e militare degli agrari padani 
                  contro i diritti dei lavoratori della terra, colpisce profondamente 
                  l'opinione pubblica e le forze politiche di opposizione, e per 
                  un breve lasso di qualche settimana il governo Mussolini sembra 
                  sul punto di cadere. Per gli anarchici e per lo stesso Malatesta 
                  si apre forse l'ultima occasione per poter invertire la rotta 
                  della storia. 
                  «Pensiero e Volontà» apre il numero del 1° 
                  luglio 1924 listato a lutto e con un articolo non firmato, ma 
                  di Malatesta, dal titolo L'assassinio di Giacomo Matteotti 
                  di cui vale la pena di riportarne il testo: 
                 
                   Il nostro ultimo numero era già in macchina quando 
                    si seppe dell'assassinio di Giacomo Matteotti, e perciò 
                    non potemmo parlarne. 
                    Ma quelle sono cose che non si scordano: e noi siamo oggi, 
                    come lo eravamo ieri e come lo saremo domani, tutti compresi 
                    di sdegno e di orrore per l'atroce delitto. 
                    Vada alla famiglia del martire l'espressione del nostro dolore, 
                    e vada ai suoi amici e compagni di fede l'assicurazione che 
                    le differenze d'idee che ci dividono non attenuano per nulla 
                    la nostra simpatia pel luttuoso avvenimento. 
                    Purtroppo il martirio inflitto al Matteotti da vili sicari 
                    di più vili mandanti non è il solo, e forse 
                    non il peggiore, dei delitti di cui si è macchiato 
                    il fascismo. Roccastrada, Torino, Spezia, Reggio Emilia, Pisa... 
                    tutta una litania di stragi! Cento e mille città e 
                    borgate d'Italia han visto le gesti di questa masnada di delinquenti, 
                    che colla protezione attiva o passiva del governo, ha devastato, 
                    tiranneggiato, ucciso, senza ritegno alcuno, a sfogo di brutale 
                    malvagità, in servizio di loschi interessi, per avidità 
                    di denaro e di bassi piaceri. 
                    E noi pensiamo, non senza un senso di vergogna quale uomini 
                    e quale italiani, a questo fatto terribile di un paese di 
                    40 milioni, con una storia ricca di glorie e di eroismi, che 
                    in pieno secolo ventesimo si è sottoposto per lunghi 
                    e lunghi mesi ad un simile regime. 
                    Ma il delitto Matteotti, sia per la posizione ed i meriti 
                    dell'uomo, sia per le circostanze ed il momento in cui è 
                    avvenuto, ha commosso profondamente l'animo popolare e può 
                    essere la goccia che fa traboccare il vaso ricolmo. E lo sarà, 
                    se solamente le opposizioni sapranno isolare il governo negandosi 
                    ad ogni contatto, ad ogni concorso positivo e negativo. 
                    Col governo fascista non si tratta. 
                    Non è questione di politica, ma di morale! 
                 
                 Dopo però il primo periodo di disorientamento, il governo 
                  di Mussolini decide di dare un'ulteriore svolta restrittiva 
                  alle libertà in genere e in specifico alla libertà 
                  di stampa. Per stroncare la vigorosa campagna antifascista scatenata 
                  da questo ennesimo assassinio, che commuove tutto il popolo 
                  italiano e ha una profonda risonanza all'estero, Mussolini, 
                  nella seduta dell'8 luglio 1924, fa deliberare dal suo Consiglio 
                  dei Ministri l'applicazione piena e immediata del decreto sulla 
                  stampa del 1923. Le norme di attuazione, contenute in un nuovo 
                  decreto che porta la data del 10 luglio 1924, estendono la facoltà 
                  di sequestro dei giornali anche nei casi di pubblicazione di 
                  notizie false e tendenziose per i quali le disposizioni del 
                  1923 prevedevano la sola diffida. 
                “Stupide misure di polizia” 
                «Pensiero e Volontà», proprio nel numero 
                  del 15 luglio, giorno di pubblicazione del decreto restrittivo 
                  sulla libertà di stampa, apre la rivista con un articolo 
                  di Malatesta dal titolo Libertà!: 
                 
                   Un decreto «regio», che viola le leggi costituzionali, 
                    ha soppresso quel po' di libertà di stampa che c'era, 
                    sottomettendo tutta la stampa periodica all'arbitrio dei prefetti. 
                    Noi non ce ne meravigliamo. La legge è fatta sempre 
                    per il vantaggio dei dominatori, i quali regolarmente se ne 
                    infischiano quando per avventura essa non risponde ai loro 
                    interessi. 
                    Naturalmente «i legalitari» continueranno ad aver 
                    fiducia nelle leggi e ad invocarne di nuove. Ma noi sappiamo 
                    per vecchia esperienza che cosa pensare della libertà 
                    «garantita dalla legge». 
                    Osserveremo solamente che queste stupide misure di polizia 
                    sono sintomo di paura, ed hanno sempre proceduto di poco la 
                    caduta di un regime – e perciò ce ne rallegriamo. 
                 
                 La rivista avrà ancora qualche occasione per far sentire 
                  la voce e il pensiero dei libertari italiani poi, nel successivo 
                  anno e mezzo, bersagliata dai sequestri ordinati dalle autorità 
                  sarà di fatto costretta, come scrive Malatesta, a parlare 
                  del futuro e di letteratura varia. 
                  Nel frattempo, è ancora Fabbri che interviene con un 
                  articolo in cui denuncia il fenomeno della recrudescenza della 
                  violenza fascista che, diminuita dopo il periodo elettorale 
                  con l'assassinio di Matteotti, ha ripreso ora con maggiore virulenza 
                  («Pensiero e Volontà», 15 settembre 1924): 
                 
                   Prendiamo le mosse da quell'orribile 10 giugno dell'assassinio 
                    di Matteotti, da cui s'inizia la ripresa violenta del fascismo, 
                    e notiamo che da quel giorno fino al 31 agosto u.s. i fascisti 
                    uccisero ben 16 persone e cosiddetti sovversivi. [...] Abbiamo 
                    contato 185 località ed episodi di bastonature e ferimenti, 
                    numero certo inferiore al vero; se si pensa, inoltre, che 
                    di rado ogni volta si batte una persona sola (nel Polesine 
                    ultimamente se ne picchiavano a decine per volta) si arriva 
                    a sommare a più centinaia, a migliaia anzi, gli italiani 
                    sottoposti in appena ottanta giorni, ad una così odiosa, 
                    degradante e provocatrice violenza. 
                 
                 Negli ultimi mesi del 1924, la rivista cerca di contribuire 
                  in tutti i modi al dibattito sull'involuzione della situazione 
                  italiana per individuare gli spazi di manovra del movimento 
                  libertario. Molaschi, nel numero di settembre, pubblica un interessante 
                  articolo sulla penetrazione del fascismo nelle campagne italiane, 
                  dove il suo consenso coatto è ampio. Per Molaschi, la 
                  politica agraria del fascismo ha lo scopo da una parte di contestare 
                  ai popolari l'egemonia politica dell'universo agricolo italiano, 
                  e dall'altra di arruolare con facilità la gioventù 
                  contadina disillusa dalla politica liberale e infastidita dalla 
                  propaganda massimalista delle forze di sinistra. 
                  La questione dell'auspicata caduta del governo fascista e sulle 
                  prospettive politiche che tale evento potrebbe aprire porta 
                  di nuovo l'attenzione sul rapporto mezzi-fini e sull'uso della 
                  violenza rivoluzionaria. A questo proposito Malatesta scrive 
                  («Pensiero e Volontà, 15 settembre 1924): 
                 
                   Moralmente, è evidente che lo spirito di odio e di 
                    vendetta, che sta alla base di tutta la organizzazione autoritaria 
                    della società non saprebbe generare l'amore e l'armonia 
                    e quindi non può essere anarchico. 
                    Politicamente è chiaro che non è possibile abolire 
                    il governo, abolire il gendarme, se la pacifica convivenza 
                    non diventa regola generale. Violenze e vendette ne avverranno 
                    certamente visto l'odio intenso che i fascisti han suscitato 
                    contro di loro; ma se esse dovessero durare troppo, andare 
                    oltre deplorevoli ma inevitabili casi isolati e diventare 
                    cosa sistematica valuta ed incoraggiata dai rivoluzionari, 
                    la massa del popolo che ha bisogno innanzi tutto di vivere 
                    e lavorare in pace, domanderebbe subito un governo forte ed 
                    appoggerebbe il primo soldataccio che saprebbe dare la pace 
                    togliendo la libertà. 
                    E d'altra parte, noi stessi, se volessimo mettere in pratica 
                    quei truci propositi e non pigliarne invece di darne, saremmo 
                    costretti ad organizzarci militarmente, vale a dire a creare 
                    un governo. 
                 
                 In un successivo articolo scritto alla fine del settembre 
                  del 1924, Il terrore rivoluzionario, che porta un sottotitolo 
                  allusivo alla situazione vissuta (“In vista di un avvenire, 
                  che potrebbe anche essere prossimo”), scrive («Pensiero 
                  e Volontà», 1° ottobre 1924): 
                 
                  Il fascismo ha accolto molti delinquenti e così ha, 
                    fino ad un certo punto, purificato preventivamente l'ambiente 
                    in cui si svolgerà la rivoluzione; ma non bisogna credere 
                    che tutti i Dumini e tutti i Cesarino Rossi siano fascisti. 
                    Vi sono di quelli che per una ragione qualsiasi non han voluto 
                    o non han potuto diventare fascisti; ma sono disposti a fare 
                    in nome della «rivoluzione» quello che i fascisti 
                    fanno in nome della «patria». E d'altronde, come 
                    gli scherani di tutti i regimi sono stati sempre pronti a 
                    mettersi al servizio dei nuovi regimi e diventare i più 
                    zelanti strumenti, così i fascisti di oggi si affretteranno 
                    domani a dichiararsi anarchici, o comunisti o quel che si 
                    voglia, pur di continuare a fare i prepotenti e sfogare i 
                    loro istinti malvagi. 
                 
                 Malatesta conclude con una frase serafica nella quale riafferma 
                  la sua coerenza fra i mezzi e i fini e l'opposizione al “bene 
                  per forza”, che sono cardini del pensiero di Malatesta 
                  di sempre: «Se per vincere si dovesse elevare la forca 
                  nelle piazze, io preferirei perdere». 
                  Nel numero successivo della rivista, firma il suo articolo forse 
                  più importante dal punto di vista politico di quel periodo, 
                  in cui illustra la sua visione complessiva non solo sul ruolo 
                  degli anarchici nella crisi attraversata, ma sulla condizione 
                  del fascismo e dell'opposizione – che prende in quelle 
                  settimane il nome di «secessione dell'Aventino» 
                  –, così come si è venuta a delineare dopo 
                  il delitto Matteotti. 
                  Malatesta prende spunto da un articolo del quotidiano fascista 
                  «Il Popolo d'Italia» che, commentando la convocazione 
                  di una prossima riunione del gruppo degli “Aventiniani”, 
                  ipotizza una nuova alleanza politica raffigurandola come un 
                  «anello», che raccolga tutte le forze antifasciste 
                  dal liberale Albertini all'anarchico Malatesta. 
                  Per il rivoluzionario campano tale ipotesi in realtà 
                  mostra l'isolamento in cui versano il governo di Mussolini e 
                  il fascismo, in generale, fortemente osteggiati da gran parte 
                  del paese, e dall'altra però pone il problema di una 
                  necessaria chiarificazione per ciò che si intende per 
                  opposizione politica. 
                  Malatesta che ha ben chiara la differenza tra il conservatore 
                  liberale Albertini e il fascista Mussolini, tratteggia i lineamenti 
                  politici della scuola autoritaria liberale e le sue differenza 
                  dagli «scherani» nero camiciati. 
                  Il giudizio sui fascisti non si discosta dai precedenti («Pensiero 
                  e Volontà», 15 ottobre 1924): 
                 
                  I fascisti invece, salvo le debite eccezioni individuali, 
                    poiché anche tra loro vi sono, come dappertutto gl'ingenui 
                    ed i ciechi, i fascisti sono soldati di ventura arruolati 
                    dall'alta borghesia per arrestare la montante marea proletaria, 
                    i quali quando si sentirono forti abbastanza s'imposero, come 
                    fu sempre costume dei mercenarii, a coloro stessi che li pagavano 
                    ed intendevano adoperarli come semplici temporanei strumenti. 
                    Fedigrafi di tutti i partiti, traditori sempre pronti al tradimento, 
                    spostati che la visione di un po' di denaro ubbriaca, gente 
                    abituata ad esser comandata cui non parve vero di comandare 
                    a sua volta e di vendicarsi sopra i deboli delle umiliazioni 
                    subite dai forti, violenti per temperamento, non frenati da 
                    nessuno scrupolo morale e da nessuna esigenza intellettuale, 
                    incoraggiati dalla complicità delle autorità 
                    che assicurava loro la preponderanza materiale e l'impunità, 
                    assillati nello stesso tempo dalla paura di cadere da un giorno 
                    all'altro e di dover pagare il fio dei loro delitti, essi 
                    si sono buttati sulle terre d'Italia come un esercito invasore, 
                    come una banda di briganti ed ha calpestato non solo ogni 
                    specie di libertà, fino quella di passeggiare tranquillamente 
                    per le strade del proprio paese o restare indisturbato nella 
                    propria casa, ma hanno offeso la dignità, violato ogni 
                    più elementare senso di umanità, hanno rinnovato 
                    in Italia i peggiori costumi morali e politici delle più 
                    nere epoche della nostra storia. 
                 
                Malatesta continua a spiegare che le differenze morali e intellettuali 
                  tra “costituzionalisti” e fascisti, politicamente 
                  parlando, cioè considerati dal punto di vista della loro 
                  azione sociale» li pongono sullo stesso piano, quello 
                  di «difensori del privilegio e di tutte le turpitudini 
                  che ne derivano». 
                  Conclude infine con una considerazione politica che nasce dalla 
                  necessità di battere il fascismo a fianco di chiunque, 
                  senza «entrare in nessuna specie di anello coi costituzionali, 
                  mirando sempre agli scopi nostri» avendo ben presente 
                  che: 
                 
                  [...] la riconquista di quelle magre libertà che già 
                    si erano guadagnate, libertà di parlare, stampare, 
                    riunirsi, associarsi, gioverebbe certo alla causa del progresso 
                    e darebbe mezzo di conquiste maggiori. [...] Ma badino bene 
                    i proletari ed i rivoluzionari. Quelli che andranno al potere 
                    dopo Mussolini, saranno probabilmente quelli stessi che crearono 
                    ed alimentarono il Fascismo [...] 
                    Se proletari e rivoluzionari non sapranno farsi valere, se 
                    non saranno uniti, energici, e disposti alla lotta ed al sacrificio, 
                    non si avrebbe né la restituzione delle libertà 
                    elementari né l'amnistia; e la borghesia continuerebbe 
                    a dominare ed a prepararsi per una nuova guerra ed un nuovo 
                    fascismo. 
                 
                La posizione di Malatesta, è quella di un internazionalista 
                  anarchico convinto della necessità di una svolta rivoluzionaria 
                  anche di fronte a un governo liberale; sono le stesse posizioni 
                  di Fabbri che scrive contemporaneamente («Pensiero e Volontà», 
                  15 ottobre 1924): 
                 
                  Del resto la pressione sulla classe operaia è determinata 
                    anche dalla crisi economica tremenda ereditata dalla guerra, 
                    di cui la borghesia, risultata materialmente più forte, 
                    vuol far pagare tutte le spese al proletariato. Finché 
                    il potere rimane in mano alla borghesia, e la crisi perdura, 
                    è utopistico sperare che un cambiamento di ministero, 
                    il succedere di un partito capitalistico ad un altro, possa 
                    far allentare quella pressione. Se anche un rimpasto ministeriale 
                    riuscisse a far mettere il manganello in soffitta, non per 
                    questo i lavoratori – a meno che da essi non si sprigioni 
                    una forza autonoma nuova – avranno riacquistata la libertà 
                    di movimento necessaria a far valere di più il proprio 
                    lavoro. 
                 
                L'anarchico di Fabriano conclude dicendo che non bisogna abbandonarsi 
                  al pessimismo, che la speranza è riposta solo e solamente 
                  nella capacità di autonomia e indipendenza del proletariato 
                  e che cercare alleanza con i partiti liberali borghesi significherebbe 
                  riconsegnare i proletari nelle mani del potere e delle sue catene. 
                  Al contrario, solo la fiducia «in se stesso, ed in se 
                  stesso soltanto, potrà dare al popolo la forza di rialzarsi 
                  e conquistare la vera libertà». 
                
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Ultimo numero di «Pensiero e Volontà», 
                  10 ottobre 1926  | 
                   
                  
                22 luglio 1932 verso mezzogiorno 
                La successiva ripresa delle attività squadristiche in 
                  tutte le città, compresa la capitale, si inquadra anche 
                  in una contrapposizione tra le diverse fazioni del fascismo, 
                  tese ognuna a cercare di confermare la propria egemonia. Come 
                  detto, anche Roma non è esente da accogliere tali imprese, 
                  tanto che alla fine del gennaio del 1925 lo stesso Malatesta 
                  in una lettera a Fabbri ne racconta un episodio legato al proprio 
                  quartiere: 
                
                   In questi giorni, o meglio queste notti passate, delle bande 
                    di ragazzacci in camicia nera hanno scorrazzato il quartiere 
                    sbraitando e minacciando: niente di grave. Cantavano una specie 
                    di canzone col ritornello: «Bisogna uccidere Baldazzi, 
                    Banci, Lucchetti e Malatesta». Ma io passo spesso innanzi 
                    alla loro sede, traverso i loro gruppi e nessuno mi dice niente. 
                    È avvenuto che quando ne ho incontrato qualcuno da 
                    solo, mi ha fatto il saluto militare! Non alla romana! [...] 
                    Ieri nella giornata, dopo l'uccisione di Casalini, dei camion 
                    di fascisti giravano per il quartiere gridando: Stasera 
                    il Trionfale sarà un lago di sangue. 
                 
                 Va altresì ricordato che, in questo periodo, Malatesta 
                  è colpito da un grave attacco di emottisi bronco-polmonare 
                  che lo costringe drasticamente a ridurre i suoi impegni, anche 
                  se cerca di rimettersi al lavoro nonostante il medico gli imponga 
                  di riposarsi e di «star fermo, non parlare, non leggere, 
                  non scrivere ecc.». 
                  Nonostante la protesta e l'opposizione di tutte le pubblicazioni 
                  antifasciste, Mussolini – con il noto discorso del 3 gennaio 
                  1925 – impone ai prefetti un giro di vite nei confronti 
                  della stampa con l'applicazione rigida dei provvedimenti di 
                  controllo. Questa iniziativa porta alla soppressione e alla 
                  sospensione di moltissimi giornali dell'opposizione; tra questi 
                  ovviamente la stampa libertaria e «Pensiero e Volontà», 
                  che è, come già ricordato, bersagliato dai sequestri. 
                   
                  Malatesta, ancora nell'aprile 1926, scrive a Osvaldo Maraviglia 
                  spiegando come «Pensiero e Volontà» sia una 
                  parte fondamentale della rete libertaria ancora in piedi e strumento 
                  di orientamento ideologico, manifestando ancora la speranza 
                  per un cambiamento della situazione politica: 
                
                La rivista continua tra mille difficoltà. Tra i sequestri 
                  ed il boicottaggio che ci fa la posta arriva nelle mani dei 
                  compagni e degli abbonati ... quando può. Noi ci teniamo 
                  a farla vivere anche se non possiamo dire quel che vorremmo, 
                  perché serve come mezzo di collegamento e copre altri 
                  lavori più importanti. E poi sarà bene, quando 
                  le cose cambieranno, tener pronti ed avviati degli organi capaci 
                  di far sentire la nostra voce e di dare al movimento un indirizzo 
                  il più possibile rivoluzionario ed anarchico. 
                 
                  Ma l'opera di soppressione delle ultime parvenze di libertà 
                  e di legalità si compie nell'autunno 1926, dopo gli attentati 
                  di Lucetti (11 settembre) – Malatesta nell'occasione sarà 
                  fermato dalla polizia e trattenuto in carcere per circa 12 giorni 
                  – e Zamboni a Bologna (31 ottobre) che fornisce a Mussolini 
                  l'occasione di porre fine a ogni forma residua di democrazia. 
                  Il 1° novembre i prefetti sospendono tutti i giornali di 
                  opposizione, senza distinzione di sorta. 
                  Il Consiglio dei Ministri del 5 novembre delibera, fra l'altro, 
                  la revoca della gerenza, e quindi la pratica soppressione di 
                  tutti i giornali antifascisti. Il Testo Unico delle leggi di 
                  pubblica sicurezza, reso pubblico il giorno successivo, stabilisce 
                  il divieto di pubblicazione per tutti gli scritti, stampati, 
                  ecc. «contrari all'ordine nazionale dello Stato e lesivi 
                  della dignità e del prestigio nazionale e delle autorità». 
                  Infine, il 26 novembre vengono emanati i provvedimenti per la 
                  difesa dello Stato che istituiscono il Tribunale speciale e 
                  ristabiliscono la pena di morte. Tra il febbraio del 1927 e 
                  l'estate del 1943, il Tribunale speciale processerà 5.619 
                  imputati condannandone 4.596. Gli anni totali di prigione inflitti 
                  saranno 27.735, 42 le condanne a morte, di cui 31 eseguite, 
                  3 gli ergastoli. 
                  Malatesta, negli ultimi anni di vita, sopporta con dignità 
                  e senza piegarsi l'isolamento e il marcato controllo poliziesco 
                  che non gli permette alcun movimento.  
                  Stessa situazione poco tempo dopo, un Malatesta non sottomesso, 
                  non corrotto dallo spirito della sconfitta, convinto della necessità 
                  di mantenere in vita un'opposizione libertaria al fascismo scrive 
                  a Virgilia D'Andrea (3 aprile 1930) denunciando il suo stato 
                  d'isolamento: 
                
                  No, mia cara Virgilia, io non sento il bisogno di tranquillità; 
                  soffro invece perché sono obbligato a restar tranquillo. 
                  Non posso far nulla o quasi; ma almeno vorrei sapere quello 
                  che avviene e quello che fanno gli altri sia per naturale interesse 
                  alle cose nostre, sia per non trovarmi poi quando la situazione 
                  sarà cambiata, come uno che è caduto dalle nuvole. 
                  Oggi stesso, malgrado tutto, potrei, con uno pseudonimo se non 
                  col mio nome, collaborare coi nostri giornali, se fossi al corrente 
                  delle cose che in questo momento interessano i compagni, delle 
                  correnti d'idee che agitano il nostro campo. Ma così 
                  senza leggere i giornali, senza ricevere lettere che mi dicano 
                  qualche cosa oltre il domandarmi notizie della mia salute ed 
                  assicurarmi dell'affetto dei compagni, che cosa potrei scrivere 
                  d'interessante? Manca la materia e la voglia. 
                 
                  Ancora pochi mesi prima di morire Malatesta scrive a Borghi 
                  (7 marzo 1932): 
                
                  Io sono più che mai isolato. È con grande difficoltà 
                  che riesco a lunghi intervalli a vedere qualcuno. Il poco, pochissimo 
                  che so lo apprendo da qualche giornale o ritaglio di giornale, 
                  che capita nelle mie mani, e dalla corrispondenza epistolare, 
                  la quale del resto è, come sai, severamente sorvegliata 
                  e controllata. Avviene così che alle volte so qualche 
                  cosa che accade in America o in Australia ed ignoro quello che 
                  accade a mezzo chilometro da casa mia. 
                  [...] Ho la testa piena di progetti, direi di visioni avveniristiche 
                  e mi tormento per l'impotenza in cui sono: e, quel ch'è 
                  peggio, incomincio a temere che mi mancheranno il tempo e la 
                  forza per fare almeno un poco di quello che vorrei. Gli anni 
                  passano, il corpo s'indebolisce, la salute vacilla... e forse 
                  non potrò meritare l'affetto che i compagni hanno per 
                  me. Ma lasciamo andare: viene la primavera, la mia salute rifiorirà, 
                  si dissiperanno le idee lugubri che in questo momento mi si 
                  affacciano alla mente ed io riacquisterò il mio abituale 
                  ottimismo. 
                 
                  Malatesta muore a Roma, a causa di una broncopolmonite, il 22 
                  luglio 1932 intorno al mezzodì, i suoi funerali si svolgono 
                  il giorno successivo con un percorso prestabilito dalle autorità 
                  per impedire ogni omaggio al vecchio combattente. 
                  Undici anni dopo, nel luglio del 1943, il regime di Mussolini 
                  collassa in seguito all'esito fallimentare della guerra imposta 
                  agli italiani e dall'ondata di agitazioni e scioperi che nella 
                  primavera hanno investito tutta l'Italia settentrionale, aprendo 
                  un varco incolmabile tra il “popolo” – tanto 
                  osannato dal regime – e il fascismo. Inizia la tragica 
                  parabola della Repubblica di Salò: ultimo atto di quel 
                  movimento nato nella fucina della Prima guerra mondiale e che 
                  aveva fatto dell'esaltazione della violenza rigeneratrice un 
                  tratto caratteristico della sua politica. 
                  Il fascismo cade vittima della sua stessa violenza che tanto 
                  aveva seminato per l'Italia e l'Europa dopo aver fatto – 
                  come scrive Malatesta – strazio «della libertà, 
                  della vita, della dignità di essere umani» («Solidarietà», 
                  n.u. 23 febbraio 1923) 
                
                  Perciò la riscossa che aspettiamo ed invochiamo deve 
                  essere prima di tutto una riscossa morale: la rivalorizzazione 
                  della libertà e delle dignità umane. Deve essere 
                  la condanna del fascismo non solo come fatto politico ed economico, 
                  ma anche e soprattutto come fenomeno di criminalità, 
                  come l'esplosione di un bubbone purulento che era andato formandosi 
                  e maturando nel corpo ammalato dell'organismo sociale. 
                 
                Franco Bertolucci 
                 L'articolo è un estratto dal saggio Malatesta, 
                  azione e rivolta morale contro il fascismo: 1922-1932 
                  compreso nel volume Errico Malatesta un anarchico nella 
                  Roma liberale e fascista, a cura di Roberto Carocci, Pisa, 
                  BFS edizioni, 2018. Il libro raccoglie gli atti del convegno 
                  di studi organizzato dall'Associazione d'idee “I refrattari” 
                  tenutosi a Roma il 28 maggio 2016. 
                   
                  Il disegno di inizio pagina è di Fabio Santin. 
              
			   |