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Quante storie

intervista a Maurizio Antonioli di Franco Bertolucci

Da oltre mezzo secolo studioso del movimento operaio e socialista, soprattutto in Italia. Fine conoscitore in particolare della storia del sindacalismo rivoluzionario e di tante pagine e figure anarchiche – per esempio, di Pietro Gori. Maurizio Antonioli, a lungo docente all'Università Statale di Milano, ripercorre qui le tappe più significative del proprio impegno professionale, sempre in relazione con le vicende dell'anarchismo e una sensibilità libertaria. E ne parla con il direttore scientifico dell'Archivio Franco Serantini e delle edizioni BFS, nostro collaboratore.

Franco Bertolucci - Come nasce la tua passione per la storia?
Maurizio Antonioli - Si tratta di una passione tardiva, sviluppatasi all'Università, durante la preparazione dell'esame di Storia moderna (non dimentichiamo che la prima cattedra di Storia contemporanea venne istituita a Firenze per Giovanni Spadolini soltanto nel 1961) e dopo aver patito alcune disillusioni in Letteratura francese e in Storia dell'arte (leggasi: rifiuto dei professori degli argomenti da me proposti e rifiuto mio di lavorare su quelli proposti da loro). L'interesse maturato via via per la storia si incontrò poi con quello che coltivavo fin dagli anni del liceo per Max Stirner, un interesse tutto intellettuale che poté essere soddisfatto solo con il rinvenimento su una bancarella di una vecchia copia de L'Unico (Torino, F.lli Bocca, 2. ed., 1909), visto che non esistevano allora edizioni correnti. Riuscii quindi a farmi accettare come tesista presso il nuovo insegnamento di Storia contemporanea che, inizialmente, praticava una politica della “porta aperta”, ma fu l'incontro con Pier Carlo Masini, al Congresso internazionale anarchico di Carrara (31 agosto-3 settembre 1968), a dare uno sbocco operativo ai miei confusi progetti. Fu Masini a consigliarmi l'argomento e a indicarmi una prima sommaria bibliografia. Al congresso di Torino della Fondazione Einaudi (5-7 dicembre 1969, avevo già consegnato l'elaborato in segreteria) presenziai semplicemente come uditore in compagnia di Masini, che tenne nella circostanza una comunicazione sull'appena costituita Biblioteca Max Nettlau. Il lavoro di ricerca, durante il quale potei giovarmi esclusivamente dell'aiuto di Pier Carlo (l'unico a Milano, Bergamo e dintorni a conoscere l'argomento), mi appassionò a tal punto che rischiai di non mettere mai la parola fine alla tesi: mi si aprì insomma un mondo nuovo sul quale non esisteva praticamente nulla e su cui persistevano tenaci stereotipi storiografici per lo più sommari e liquidatori. Mi riferisco in particolare alla storia dell'individualismo anarchico e del sindacalismo rivoluzionario. Aspetti, momenti e figure che hanno sempre accompagnato il mio percorso di studi e di ricerche.

Quali sono state le tue letture giovanili che ti hanno maggiormente formato?
Come ho accennato prima, a parte il caso di Max Stirner, precocemente letto e certamente mal digerito a causa di un'ovvia mancanza di preparazione, la mia formazione è stata sostanzialmente letteraria, e in subordine artistica (nel senso della storia dell'arte). Ho insegnato tutta la vita in una Facoltà di Scienze politiche, ma mi sono sempre sentito abbastanza estraneo all'iter formativo dei miei studenti. Personalmente non ho mai studiato diritto, statistica, sociologia, ecc. E naturalmente tutto questo ha influito sul mio approccio alla storia e, ritengo, anche sul mio insegnamento. Non so se abbia senso parlare delle mie letture giovanili, ma per stare al gioco e se la cosa non annoia, partiamo dal poeta da me prediletto in assoluto, Charles Baudelaire (da cui non mi separavo mai) e sostanzialmente da tutta la letteratura francese dell'Ottocento, soprattutto Rimbaud e Mallarmé da un lato, Stendhal, Flaubert e Proust dall'altro. A Victor Hugo arrivai un po' più tardi, quando ne intuii l'importanza per la cultura socialista, e così pure a Zola e Balzac, a cui allora preferivo Maupassant. E poi, ovviamente, Tolstoi e i russi, anche più recenti, come Pasternak e Bulgakov; Thomas Man, Musil e Kafka, nonché Poe, Joyce ed T. S. Eliot, senza però sottacere l'emozione suscitatami da Orazio quando dovetti leggerlo tutto per l'esame di Letteratura Latina e dall'Orlando furioso, preparato per l'esame di italiano e diventato uno dei miei livres de chevet. Ma non sarebbe giusto dimenticare ciò che non soltanto si legge, ma si ascolta.
A parte la mia passione fin da ragazzino per la musica classica, mi piace ricordare un binomio stravagante: Wagner e Bob Dylan (come dimenticare: “and Ezra Pound and T. S. Eliot/fighting in the captain's tower” di Desolation row). Naturalmente i nomi in tutti i settori erano tantissimi, ma mi sono limitato a quelli che in quella fase mi sollecitarono di più. E soprattutto mi interessa chiarire che gli storici, salvo qualche classico studiato all'Università, non facevano parte delle mie frequentazioni intellettuali.

Quale è stato il tuo approccio allo studio del movimento operaio e del mondo degli anarchici?
In parte per il tramite della mediazione stirneriana che certamente affondava le sue radici nell'atmosfera del momento ma rispondeva sostanzialmente ad una sollecitazione che aveva a che fare più con la “mentalità” che non con la realtà e ben poco con le masse e i movimenti. Infatti il mio primo progetto di tesi era una sorta di storia dell'individualismo anarchico. Naturalmente si trattava di una ipotesi velleitaria e, allora, fuori della mia portata.
Fu merito di Masini suggerirmi la chiave giusta che, senza trascurare i miei interessi iniziali, li inseriva in un contesto che era quello del movimento operaio e sindacale alla vigilia della grande guerra. E allora ho conosciuto, di persona, Leda Rafanelli e attraverso i loro scritti (nonché i ricordi di Maria Molaschi) Carlo Molaschi e Giuseppe Monanni, Oberdan Gigli e Nella Giacomelli e così via. Ma anche Alceste De Ambris e Filippo Corridoni e di conseguenza l'Unione sindacale Italiana e la Camera del lavoro confederale di Milano, addentrandomi nelle pieghe del movimento organizzato dell'età giolittiana. Un documento tira l'altro: periodici, libri, opuscoli, carte d'archivio. E non mi sono più fermato.

Gli anni della contestazione studentesca

Esistono nella tua esperienza delle personalità che possono essere definite i tuoi maestri?
In senso molto eterodosso Masini, ma proprio perché non voleva esserlo ed era il primo a capire di essere un outsider. Il suo era in qualche modo un magistero spontaneo, che scaturiva da una inarrestabile esigenza comunicativa e da una istintiva generosità nella trasmissione delle proprie conoscenze. In realtà subito dopo la laurea mi occupai d'altro. All'epoca non avevo neppure ben chiaro che cosa fosse un professore universitario.
Ma ormai ero contagiato e mi ritrovai a studiare per conto mio all'Istituto G. G. Feltrinelli, dove ero stato di casa per la mia tesi. Erano i tempi di Giuseppe Del Bo direttore ed Elio Sellino bibliotecario. Lì incontrai Alceo Riosa, allora assistente ordinario a Roma e poi incaricato a Milano di Storia del movimento sindacale, insegnamento che in seguito fu di Stefano Merli e, dopo la sua morte, diventò mio. Fu in realtà Riosa, con cui condividevo molti interessi e a cui mi legarono una profonda amicizia e una lunga collaborazione, ad aiutarmi nel 1974 nei miei esordi universitari, grazie anche all'intervento di Camillo Brezzi, storico del movimento cattolico, anch'egli di provenienza romana, che mi prese sotto la sua ala nella Facoltà di Magistero di Arezzo. Ma, pur avendo debiti di riconoscenza nei confronti di alcune persone, a partire da quelle citate, non posso parlare di “maestri” nel senso classico del termine. Un altro storico con cui, all'epoca, ho avuto una intensa frequentazione e un proficuo scambio culturale, è stato Idomeneo Barbadoro, che non era un accademico, ma i cui lavori sulla Cgdl e sulla Federterra sono stati per me importanti strumenti di riflessione e di stimolo.

Cosa hanno significato per te gli anni della contestazione studentesca 1968-69?
Naturalmente hanno significato molto, come credo per tutti. Non ritengo tuttavia sia interessante parlarne. In certi periodi ci fu la corsa ad “iscriversi all'albo” dei sessantottini (come quelli che durante il regime fascista facevano a gara nel procurarsi un attestato di partecipazione alla Marcia su Roma), in altri a prenderne le distanze. Ricordo nel '94 una gentile signora fare propaganda per Berlusconi vantando i suoi trascorsi sessantotteschi, allora frutto di una sedicente verve giovanile che aveva necessariamente ceduto il passo alle scelte dell'età matura. A volte ho l'impressione che molti dei miei coetanei – me compreso – fossero come Fabrizio Del Dongo a Waterloo. C'erano ma non riuscirono a vedere nulla che in qualche modo potesse servire da criterio interpretativo dei ricordi. Il che è abbastanza normale. Di solito i testimoni non riescono mai a ricostruire la storia.
Per quanto mi riguarda determinati ricordi fanno parte della mia vita e non riesco a vederli come un oggetto di studio, come invece stanno facendo alcuni colleghi. Non studio mai ciò che ha a che vedere con il mio coté privato. Mi interessano invece “le vite degli altri”, possibilmente lontane nel tempo. Certamente gli anni Sessanta, a partire da precisi eventi politici (crisi di Cuba, Vietnam, Cecoslovacchia) alle battaglie per i diritti civili, ai fenomeni di costume (dall'abbigliamento alle capigliature), alla musica, alla cultura alta e bassa costituirono un condensato straordinario di elementi di mobilisation spesso spontanea a tutti i livelli. Ma non amo l'enfasi reducista di alcuni. Forse il '68 è stato il novello “anno dei portenti” di carducciana memoria, come lo definiva l'«Espresso» qualche anno fa. A tale proposito lascio fare ad altri. Que reste-t-il de ces beaux jours?, canterebbe Charles Trenet. Si vedrà.

Quegli anni di fermenti sono stati però poi segnati dalla lunga stagione terroristica a partire da Piazza Fontana e dalla morte di Pinelli. Come hai vissuto da “cittadino” e da “storico” questi momenti così tragici per il nostro Paese?
Come “storico” non li ho vissuti, per i motivi ai quali ho accennato prima. Inoltre ero ancora agli inizi. Però non è escluso che il dedicarmi a temi sindacali, da un lato al sindacalismo d'azione diretta poi sfociato nell'Usi, dall'altro alla nascita della Fiom, il più importante sindacato industriale italiano prefascista, abbia avuto a che fare, al di là delle contingenze, con una urgenza personale di vedere in forme organizzative del movimento operaio reale, e non in superfetazioni partitiche, i perni di un processo rivendicativo collettivo, di ritrovare in quelle strutture il senso della continuità storica, indipendentemente dai dissensi, dalle frizioni, dalle rotture.
Il mio punto di riferimento era sostanzialmente il modello di Pelloutier che, tuttavia, ho sempre cercato, e spero di esserci riuscito, di non usare mai in modo strumentale nei miei lavori. Non mi piace la storia a tesi precostituite. A differenza degli anni Sessanta, tuttavia, verso i quali mi concedo qualche nostalgia, non riesco a pensare al decennio seguente, a partire da piazza Fontana, come ai “beaux jours”, se non per ragioni del tutto private. “Lo schianto” della dinamite può essere “redentore” solo “nel fosco fin del secolo morente” nei versi di Luigi Molinari (non a caso poi convertito all'educazionismo e diventato alfiere della “scuola moderna”) ma non alla fine degli anni Sessanta. E poi gli “spettri macàbri del momento estremo” erano altri. Ma non è il mio terreno. Per usare i versi di un'altra (ben più recente) canzone, poteva andarmi bene “distruggere la gabbia”. Ma non il “mitra lucidato”, la “morte della scuola”, il “rifiuto del lavoro” e così via.

L'importanza dell'opera di Pier Carlo Masini

Una nuova generazione di storici si è formata a cavallo degli anni Sessanta e Settanta puoi dirmi come si è distinta rispetto a quella che l'ha preceduta e in particolare a quella che aveva creato nei decenni Quaranta e Sessanta un nuovo ciclo di studi storici legati alla storia del movimento operaio? Una storiografia all'epoca caratterizzata da un legame molto forte con l'azione dei partiti della sinistra (comunista e socialista).
A metà degli anni Sessanta, i miei coetanei ed io ci siano trovati davanti ad una via già tracciata dalla generazione precedente, quella uscita dalla guerra: riviste, bibliografie, saggi e volumi, istituzioni, tutto un insieme di esperienze volte ad esplorare e a valorizzare quello che veniva definito, con un termine che voleva essere riassuntivo e globale, il “movimento operaio”, anche se l'espressione – e lo si vide negli anni Cinquanta – non aveva lo stesso significato per tutti. Vorrei, a questo punto, per meglio illustrare la questione, fare riferimento ad un'opera ormai classica della storiografia, con la quale un po' tutti allora ci siamo misurati: Il movimento operaio attraverso i suoi congressi di Gastone Manacorda (Roma, Rinascita, 1953), In questo lavoro, nel quale vengono ripercorse le tappe istituzionali delle organizzazioni, il movimento operaio viene visto, all'origine, come un coacervo di tendenze che, attraverso un serrato confronto di posizioni lungo la seconda metà dell'Ottocento, si viene, per così dire, depurando fino a raggiungere, con la fondazione del Partito dei lavoratori italiani (poi Partito socialista), il suo approdo finale. O meglio il suo reale punto d'avvio, come se il movimento operaio, identificato nel nuovo partito, si fosse strutturato attraverso una sorta di selezione con l'abbandono delle scorie e la recisione dei rami secchi.
Questa impostazione, accentuata in studi di altri autori non sempre acuti come Manacorda, ha spesso indotto implicitamente a considerare l'evoluzione del movimento operaio come il progressivo passaggio dal meno al più, dall'indistinto al distinto, in una lunga catena di cicli che, nell'accezione più scolastica, venivano visti come una successione per gradi, in una sorta di inarrestabile crescendo: dalle società di mutuo soccorso alle leghe di resistenza, alle Camere del lavoro, alla Cgdl, e così via, oppure dalla Prima Internazionale, al partito di Costa, al Psi, ecc. Indubbiamente c'erano motivi per farlo. Non ultimo il fatto che questo schema interpretativo era stato accolto da intere generazioni di militanti che di quelle vicende erano stati protagonisti.
Tuttavia, continuando per questa strada, non solo si perdevano di vista i cosiddetti “rami secchi”, che spesso erano ben più vitali di quanto non si fosse portati a credere, ma interi “mondi” e “culture” che non rientravano nel quadro prefissato. E non mi riferisco soltanto all'universo libertario, certamente minoritario ma non per questo meno vivo, ma a tutto il movimento operaio di matrice cattolica, di cui non mi sono mai occupato ma la cui esistenza non può essere sottaciuta, nonché il mutualismo laico non socialista. Ed era soprattutto evidente che il processo non si sarebbe fermato al 1892, cioè ad un Partito socialista che, nel pluralismo delle tendenze, avrebbe potuto costituire una sorta di casa comune, magari un po' rissosa, ma era finalizzato a legittimare l'ultima creazione politica, il Partito comunista, definitivo interprete del ruolo politico del proletariato. Emblematica a questo proposito fu la querelle attorno alla rivista «Movimento operaio», che Gianni Bosio aveva fondato nel 1949 e dalla quale venne estromesso, ad opera di Giangiacomo Feltrinelli, nel 1953.
Ma, sul finire degli anni Sessanta, la situazione era in qualche modo cambiata: nuove curiosità, nuove sensibilità ed un esprit nouveau si erano fatti largo. È indicativo il fatto che il primo volume della Storia degli anarchici italiani di Masini, uscito da Rizzoli nel 1969, abbia suscitato un interesse mai riscontrato da tale argomento fino ad allora. Certo, il merito di Masini fu quello di scrivere un'opera che aveva un particolare appeal: ben scritta, ben strutturata, ben documentata. Non la solita sintesi più o meno divulgativa. Ma un editore come Rizzoli, che aveva il polso del mercato, doveva essersi mosso per soddisfare precise esigenze dei potenziali lettori. Ed anche il convegno torinese della Fondazione Einaudi, Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo, tenutosi pochi giorni prima dell'esplosione della bomba alla Banca dell'Agricoltura in Piazza Fontana, dimostrava come lo stesso mondo degli studi storici, dopo il maggio francese, avesse sentito il bisogno di interrogarsi sul tema.
Agli inizi degli anni Settanta, in quella particolare temperie, cominciai ad approfondire i miei studi sul sindacalismo d'azione diretta e fui invitato al Convegno di Piombino sul sindacalismo rivoluzionario (28-30 giugno 1974). Come è noto fino ad allora i contributi storiografici sul sindacalismo non erano stati né numerosi né consistenti e avevano sempre teso a valutare il fenomeno sindacalista in rapporto a qualcosa d'altro: il Partito socialista per quanto riguardava la fase iniziale (che venne poi complessivamente analizzata da Riosa nel suo volume del 1976: Il sindacalismo rivoluzionario in Italia e la lotta politica nel Partito socialista dell'età giolittiana, Bari, De Donato), il fascismo per il suo supposto esito finale. Tutt'al più un certo interesse avevano suscitato le posizioni interventiste di una parte del gruppo dirigente dell'Usi, ma l'esperienza dell'organizzazione, sia durante la fase della sua faticosa gestazione sia nel corso della sua vicenda vera e propria, era stata decisamente trascurata.
Indipendentemente dalle valutazioni più o meno critiche, dal riconoscimento o dai giudizi liquidatori, il sindacalismo d'azione diretta era un'immagine debole, i cui collegamenti con la realtà del movimento operaio apparivano episodici (fatta eccezione per il caso di Parma) o comunque frutto di situazioni particolari quando non della meteorica apparizione di qualche imbonitore sindacalista. Se maggiore attenzione era stata dedicata al sindacalismo teorico come variante del revisionismo (basti pensare al classico studio di Enzo Santarelli, La revisione del marxismo in Italia: studi di critica storica, Milano, Feltrinelli, 1964), ben scarso rilievo era stato dato al sindacalismo pratico degli organizzatori. Parma rimaneva l'“oasi” sindacalista, una sorta di coltura in vitro, lo sciopero generale del 1908 il grande esperimento fallito.
Il problema centrale non era comunque semplicemente rovesciare la prospettiva, rivalutare ciò che veniva prima criticato o trascurato. Una simile ottica sarebbe stata sempre all'interno di una visione storiograficamente povera, di parte nell'accezione deteriore del termine. In primo luogo bisognava andare alle fonti, numerose e ricche, cosa che quasi nessuno aveva fatto. C'era chi era riuscito a scrivere di sindacalismo senza aver mai consultato «L'Internazionale» (1908-1923), per non parlare di «Guerra di classe» (1915-1922). Secondariamente, era necessario sprovincializzare il sindacalismo inserendolo nel quadro internazionale e collegandolo ad esperienze analoghe di altri paesi, delle quali non si conosceva quasi nulla.
Non a caso in quegli anni si iniziarono a studiare gli Industrial workers of the world (IWW) statunitensi. Il convegno di Piombino e quello successivo di Ferrara (2-4 giugno 1977) modificarono radicalmente la situazione. Si trattò di un mutamento che non aveva direttamente a che fare con l'identità politica dei diversi studiosi. La redazione della rivista «Ricerche storiche», diretta da Ivano Tognarini, che organizzò il convegno di Piombino, era costituita in larga misura da giovani studiosi legati al Partito comunista. Questo non impedì loro di allestire un convegno aperto e, in seguito, di cooptarmi nella redazione stessa. Così dicasi anche per il convegno di Ferrara, organizzato da Alessandro Roveri. Ma era cambiato, e non solo nei giovani, il modo di porsi davanti a certi problemi. Non era più il tempo dell'Ungheria, quando Di Vittorio aveva dovuto rimangiarsi il primitivo appoggio agli insorti.
Dopo la primavera di Praga, la situazione non era più la stessa. Più che dare risposte, ci si ponevano delle domande. “Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un'occhiata a ciò che si nasconde dietro”, leggiamo, non a caso, ne L'insostenibile leggerezza dell'essere. È comunque significativo che Ernesto Ragionieri nella Storia d'Italia Einaudi (vol. IV, tomo 3°), uscito nel 1976, si sentisse in dovere di scrivere: “Solo di recente la storiografia ha cominciato ad approfondire e articolare il giudizio gramsciano sulla base prevalentemente contadina e meridionale del sindacalismo rivoluzionario”. E di rilevare, in una nota, che il convegno di Piombino aveva dato interessanti indicazioni di ricerca, citando gli interventi di Procacci, Barbadoro e del sottoscritto. Poca cosa, se vogliamo, e sempre facendo riferimento a Gramsci, di cui si doveva evidentemente “approfondire e articolare”, certo non criticare – come mi sembrava di aver fatto – il giudizio. Un piccolo passo, un piccolo foro nella diga che andò via via allargandosi.
Nei primi anni Settanta inoltre, nel clima di quello che venne definito pansindacalismo, videro la luce i primi lavori significativi sulla Cgdl di Adolfo Pepe e Idomeneo Barbadoro nonché Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale di Stefano Merli. Si aprì una stagione che produsse risultati diversi nella qualità e negli orientamenti ma nella quale il movimento sindacale diventò senza dubbio uno dei protagonisti (basti pensare ai numerosi studi su federazioni e camere del lavoro). Il che attenuò in modo significativo non tanto un legame con i partiti a livello individuale, ma il peso che tale legame poteva avere nell'interpretazione storiografica.

Il senso di una “storia militante”

Tu hai dedicato, tra i molteplici studi, molta attenzione a due filoni della storia politica e sociale italiana ambedue però compresi nell'arco in particolare dell'età giolittiana (1900-1914): il primo riguardante la storia sindacale – nello specifico quella del sindacalismo d'azione diretta –, in particolare la genesi degli organismi sindacali (Camere del lavoro, sindacati di categoria etc.); la seconda quella relativa alla cultura, all'immagine, ai simboli del sovversivismo e in particolare dell'anarchismo. Puoi dirmi il motivo di tali interessi?
Gli interessi individuali non sempre sono facilmente spiegabili in modo razionale. Negli ultimi anni di insegnamento, soprattutto quando passai a Mediazione linguistica, mi dedicai molto alla Storia dell'Irlanda e tenevo lezioni costantemente accompagnate da musica politica irlandese. Ma forse un motivo della mia predilezione per la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento sta nel fatto che in quella fase si consuma – questo è un mio parere del tutto personale - tutta la speranza di mutamento possibile, si raggiunge in qualche modo l'apice di un ottimismo foriero di grandi cambiamenti. E lo si vede in tutti i campi: politica, arte, letteratura, musica, scienza. In effetti, i cambiamenti ci furono, epocali: la “grande guerra”, la rivoluzione russa, i fascismi. Ma furono di segno opposto. “Il sonno della ragione genera mostri”.
Detto ciò si può intuire cosa io pensi della rivoluzione russa. Ma è un discorso troppo lungo. Ricordiamoci solo cosa scrisse Malatesta su rivoluzione, “forche e galera”, nel 1925 in «Pensiero e volontà». Quanto alla seconda parte della domanda, sono molto affascinato dalle immagini e dai simboli e dai vari mezzi mediante i quali si può trasmettere un pensiero (un comizio, una canzone, una bandiera, un corteo e così via). Ho cominciato ad occuparmene studiando negli anni Ottanta le origini e lo sviluppo del Primo maggio e, parallelamente, l'immagine di Pietro Gori. E sono anche i lavori a cui sono più affezionato.

Ma la storia non è un succedaneo della fede

Tu sei stato uno storico “accademico” che non ha rinunciato al confronto anche con i ricercatori indipendenti e il mondo “militante” del movimento libertario. Puoi dirmi in due battute come sei riuscito a coniugare un rapporto che altri hanno risolto in maniera drastica rinunciando all'una o all'altra?
Ti faccio presente che militanti per così dire “classici”, seppur molto diversi tra loro, come Gino Cerrito e Nico Berti ci sono riusciti benissimo. Il problema era semmai avere degli sponsor forti (Gino ebbe Giorgio Spini) che né Nico né io abbiamo avuto. Con il passar del tempo tuttavia entrambi ci siamo procurati degli estimatori. Se ciò che scrivi viene, non dico condiviso, ma apprezzato sotto il profilo qualitativo e ne vengono riconosciute le caratteristiche scientifiche, in una parola vieni accettato nella categoria degli storici professionisti, molta strada è già fatta. Dipende ovviamente anche come ci si pone nei confronti dell'istituzione. Se l'obiettivo dichiarato è quello di distruggere l'università, è molto probabile che non avrai molte chances.
Per quanto mi riguarda, sono stato direttore di dipartimento, presidente di corso di laurea e, sempre eletto dai colleghi, anche consigliere d'amministrazione di un Ateneo grande come la Statale di Milano e non ho avuto problemi. Certo, non ho mai detto di volere abolire le tasse universitarie. Il nostro compito era di cercare di farle pagare a chi poteva permetterselo. Le università, intese come comunità di studiosi e non enti burocratico-amministrativi, fin dai loro albori hanno sempre utilizzato la cooptazione. Non penso che sia facile cambiarle e, del resto, non credo che esistano criteri oggettivi di valutazione. In campo storico gli ambiti di studio sono tali e tanti che è inevitabile che ciascuno di noi ne conosca bene alcuni e si disinteressi di altri. Anni fa contavano di più le appartenenze politico-ideologiche, ma c'erano fortunatamente anche le eccezioni. Ora sembra importante far parte di società di storici, partecipare alle assemblee e ai convegni, assumersi qualche incarico, farsi conoscere insomma di persona e non solo attraverso i propri studi. Quando, alcuni anni or sono, vennero introdotte le abilitazioni qualcuno pensò che fosse arrivato il suo momento. Ma poi scoprì che l'abilitazione non garantiva nulla e che la tanto sospirata chiamata non sarebbe mai arrivata. Ci sono ottimi associati che non sono diventati mai ordinari (magari per questioni di età o di bilancio) e altrettanto validi studiosi “indipendenti” che per le più svariate (e non sempre nobili) ragioni non hanno trovato posto in Università. Dimenticavo. Un po' di fortuna non guasta.
Quanto al “mondo militante”, bisogna capire che cosa si aspetta da uno storico. Se si aspetta celebrazioni e conforto per le proprie scelte, sentirsi dire che ha ragione e che un giorno le sue tesi trionferanno, ha sbagliato indirizzo. Uno storico agisce sul passato e non può, né dovrebbe, dare conferme, può però restituire dignità e senso a determinati percorsi e persone e soprattutto scoprire quei rivoli di vita, di pensiero, di azione che una lettura spesso riduttiva e strumentale elimina spietatamente. Mi piace riportare qualche riga dello sterminato romanzo di Vasilj Grossman. Vita e destino (ambientato durante la battaglia di Stalingrado): “Quando si rivolge al passato, la mente umana usa sempre un setaccio dai fori molto piccoli per filtrare il grumo degli eventi, e getta sempre via le sofferenze dei soldati, il loro sconforto, la loro nostalgia”. Ebbene, soldati o meno, cerchiamo di usare un setaccio dai fori molto grandi e strappare al tempo, come ha scritto Adriano Prosperi, le sue vittime.

Ma per te ha senso oggi una “storia militante”?
Francamente no. Anch'io quando ero giovane (nel breve periodo in cui fui nella redazione di «Primo maggio»), ho avuto qualche velleità del genere. Fortunatamente mi è passata subito. Il richiamo alla storia militante mi fa venire in mente quando, nella polemica interna a «Movimento operaio», qualcuno sostenne che la rivista doveva diventare uno “strumento della lotta di classe” (1951). Sia chiaro, non voglio banalizzare nulla né esprimere valutazioni astraendo dal contesto e sottovalutando l'impegno etico-politico di molti storici che, all'epoca, erano convinti di marciare verso il sol dell'avvenire (nel caso specifico ho sempre avuto molto stima per l'autore di quelle dichiarazioni). Ma se, nella temperie politico-culturale dell'epoca, è possibile capire il senso di tali posizioni, pur non condividendole per ragioni di principio, dopo si sarebbe dovuto evitare lo stesso errore. Non si tratta di negare allo storico libertà di scelta e di azione, impegno si diceva quando era di moda l'intellettuale engagé. Oppure di costruirsi una identità culturale e sociale, privata e pubblica, anche attraverso l'elaborazione dei risultati della ricerca. Semplicemente, di indurlo a sfuggire alla tentazione di relegare la ricerca storica ad un ruolo ancillare a fini che, per nobili che siano, non ne sono lo scopo. Il dato interessante è come una simile questione emerga quasi sempre a proposito della storia contemporanea, cioè di quel periodo che sembra più utilizzabile ad obiettivi direttamente politici. Sappiamo benissimo che tutto può servire ad uso della propria visione del mondo, soprattutto se totalizzante, perfino i cavalieri teutonici da un lato o Spartaco dall'altro.
Ma è difficile trovare chi discuta con passione sulle ragioni di Cesare o su quelle di Bruto e Cassio. Eppure si studia, questo sì con passione, anche la storia antica e perfino la preistoria. E si tratta a volte di passioni forti perché hanno il respiro dei secoli o dei millenni. Poi, magari, alcuni potrebbero sospettare che si ritorni a scrivere, in questi giorni, dei “faraoni neri” del Sudan (anche se Meroe fu dichiarata dall'Unesco patrimonio dell'umanità già nel 2011) per motivi non solo culturali, ma sull'onda di problematiche che nulla hanno a che vedere con la 25a dinastia faraonica.
Divagazioni a parte, l'importante per me sono le domande che noi poniamo e che devono ampliare e approfondire le nostre conoscenze. Come poi ciascuno di noi userà tali conoscenze è un aspetto che attiene alle nostre scelte di vita, non alla storia. Non ritengo che la storia debba essere un succedaneo della fede.

Quali sono stati per te i momenti più emozionanti del tuo lavoro di storico?
Anche se è sempre emozionante trovare qualche inedito, soprattutto corrispondenza, o documenti che possono dare una svolta al tuo lavoro, le vere e proprie emozioni sono rare. Quelle che ricordo con particolare vivezza sono legate alla figura di Pietro Gori. Ad esempio, quando mi imbattei per caso, a Gubbio, in una epigrafe a lui dedicata sulla facciata di un palazzetto già sede di una Società operaia. Oppure, vent'anni fa, nella piazzetta di S. Ilario, all'Elba, quando incontrai un vecchio che mi indicò, su mia precisa domanda, la casa di Gori. In realtà, ad emozionare sempre è la conoscenza, l'imbattersi in qualcosa che ti porterai dentro e che contribuirà a dare un senso alla tua vita.

La storia ha un futuro in una società che ha poca memoria di se stessa come quella attuale?
Penso che la storia avrà sempre un futuro perché ognuno di noi ha una storia, per piccola che sia, anche le “vite minuscole” (per riprendere Pierre Michon) per le quali ho ultimamente molto interesse. Si studia la storia anche di popoli “senza storia”, così chiamati perché di essi non possediamo nulla o quasi. Non so poi se la nostra società sia senza memoria. O meglio, penso che tutte le società in genere siano senza memoria se con questo ci riferiamo alla memoria collettiva, espressione molto difficile da definire, perché invece i singoli ricordano bene le proprie esperienze. La generazione dei miei genitori è stata irrimediabilmente segnata dalla guerra (chi l'ha fatta e chi l'ha subita). Loro e i loro coetanei non dimenticarono mai quei giorni. Attualmente c'è un'esigenza profonda di sentirsi ricordati, mista ad uno sfrenato esibizionismo, se sempre più persone sentono il bisogno di raccontarsi attraverso i social, di far sapere agli “amici” che cosa hanno fatto, dove sono stati, che cosa hanno visto, perfino che cosa hanno mangiato. Anche la televisione porta sempre più alla luce aspetti della vita quotidiana. Tutto questo, se suscita spesso in me una spontanea ripulsa, mi induce tuttavia a pensare che la pubblicizzazione delle vicende personali darà modo agli storici del futuro di lavorare sul tessuto sociale – o su una parte di esso – con molti più mezzi. Produciamo oggi una tale quantità di documenti (perfino troppi) che ci sarà l'imbarazzo della scelta. Cambierà – e sta già cambiando – il mestiere di storico, soprattutto di chi si occupa della stretta contemporaneità. Quando ho iniziato la mia tesi, cinquant'anni fa, si studiava praticamente solo nelle biblioteche e negli archivi visionando carte. La riproducibilità del documento era quasi nulla, pessime fotocopie, microfilm scadenti e costosi. E poi i soggetti studiati comunicavano quasi esclusivamente per lettera, scrivevano sui giornali, dei comizi o dei dibattiti parlamentari si avevano solo resoconti scritti. Molti non comunicavano affatto e possiamo saperne qualcosa solo se altri ne hanno scritto o hanno interessato, per qualche motivo, la polizia. La quantità di fonti era inferiore, seppur molto dispersa.
Per inseguire certe tracce bisognava girare l'Italia. Oggi, con un computer si fanno miracoli. Ma le fonti si sono enormemente moltiplicate e non è facile tenerle sotto controllo. A parte i personaggi pubblici, la narrazione della quotidianità oggi è fatta di “vite minuscole”. Il che non è detto sia negativo.
Come scriveva Saša a Michel, ne Il club degli incorreggibili ottimisti, “Soltanto la memoria è bella. Il resto è polvere e vento”.

Franco Bertolucci

Maurizio Antonioli (Milano, 1945) è tutt'oggi uno dei maggiori storici a livello internazionale che ha dedicato e si dedica con passione alla storia dell'anarchismo e del movimento operaio. Ha insegnato per oltre tre decadi Storia contemporanea e Storia del movimento sindacale presso l'Università Statale di Milano e diverse migliaia di studenti si sono formati attraverso i suoi corsi. Ha partecipato a convegni “storici” importanti come Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo (Torino 5-7 dicembre 1969) organizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi e cinque anni più tardi fa la sua prima comparsa a un convegno come relatore: Sindacalismo rivoluzionario in Italia nel periodo della Seconda internazionale (Piombino 28-30 giugno 1974). Ha collaborato a progetti scientifici internazionali e a varie riviste come «Primo Maggio», «Storia e politica», «Ricerche storiche», «Economia e lavoro», «Mondo operaio», ed è stato tra i fondatori e tra i principali animatori della «Rivista storica dell'anarchismo» (1994-2004).
È direttore scientifico della Fondazione Anna Kuliscioff e membro del comitato scientifico della Fondazione Di Vittorio, dell'Archivio del lavoro della CGIL di Milano, oltre che della Biblioteca F. Serantini.
Autore di numerosi libri è stato condirettore del Dizionario biografico degli anarchici italiani. Tra i suoi principali lavori ricordiamo alcuni che hanno segnato il suo percorso di studioso e ricercatore: La Fiom dalle origini al fascismo, 1901-1924, [con B. Bezza] (1978); Sindacato e progresso. La Fiom tra immagine e realtà, (1983); Azione diretta e organizzazione operaia. Sindacalismo rivoluzionario e anarchismo tra la fine dell'Ottocento e il fascismo, (1990); Armando Borghi e l'Unione sindacale italiana (1990); Pietro Gori. Il cavaliere errante dell'anarchia (1995), Il sindacalismo italiano dalle origini al fascismo (1997); Il Sol dell'avvenire. L'anarchismo in Italia dalle origini alla Prima guerra mondiale [con P.C. Masini, 1999]; Lavoratori e istituzioni sindacali: alle origini delle rappresentanze operaie (2002); Riformisti e rivoluzionari. La Camera del lavoro di Milano dalle origini alla grande guerra, [con J. Torre Santos], (2006); Sentinelle perdute. Gli anarchici, la morte, la guerra (2009); Figli dell'officina. Anarchismo, sindacalismo e movimento operaio tra Ottocento e Novecento (2012); Per una storia del sindacato in Europa (2012). È stato tra i curatori dei volumi Contro la Chiesa. I moti pro Ferrer del 1909 in Italia (2009) e Nostra patria è il mondo intero. Pietro Gori nel movimento operaio italiano e internazionale (2012). L'ultima sua opera uscita nei mesi scorsi è Un'ardua e gioconda utopia, simboli e miti degli anarchici tra '800 e '900 (2017).

Foto di Roberto Gimmi