Rivista Anarchica Online




Convegno a Reggio Emilia/
Di anarchismo e di rivoluzione russa ieri e oggi

Tra il 1° e il 2 dicembre si sono svolte presso l'Università di Reggio Emilia due giornate di studi dedicate agli anarchici nella rivoluzione russa. Programma fitto e interessante, pubblico piuttosto folto per essere un convegno (direi a spanne una sessantina di persone fisse e un centinaio contando quelle di passaggio), in queste poche righe vorrei buttare giù qualche impressione e riflessione personale, rimandando per una panoramica più generale al sintetico e completo report firmato dalle organizzatrici e dagli organizzatori del convegno.
Il primo giorno è stato funestato dalle assenze: purtroppo, né Roberto Balzani né Giampietro Berti né Ettore Cinnella hanno potuto presenziare (per fortuna il secondo giorno è mancato solo Massimo Ortalli). Ciò ha fatto ricadere il peso della prima sessione su Toni Senta che, direi, se l'è cavata egregiamente. Considerate queste assenze, lo schema di questa prima giornata mi sembra che si possa riassumere così: Cinnella (attraverso la lettura da parte di Toni Senta della relazione che ha inviato) ha preso in esame la complessità e la lunghezza della rivoluzione russa, Marcello Flores ha presentato gli aspetti generali degli anarchici e della rivoluzione russa, infine Giuseppe Aiello si è concentrato su un aspetto particolare (Kronstadt). Un percorso a imbuto che in prospettiva mi è sembrato nel complesso convincente come inizio.
Il secondo giorno è stato ricco di interventi diversi, che hanno spaziato (in ordine sparso) dalla Machnovicina (Misha Tsvoma) alla critica del bolscevismo di Alexander Berkman (Roberto Carocci) e al dibattito sulla rivoluzione tra lo stesso Berkman ed Emma Goldman (Pietro Adamo), dagli ultimi giorni in Russia di Kropotkin (Selva Varengo) alle donne rivoluzionarie (Lorenzo Pezzica) passando per la precoce critica alla rivoluzione russa dei più significativi esponenti dell'anarchismo italiano (Toni Senta) e per il ruolo di Berlino come centro dell'esilio anarchico russo (il sottoscritto).
Ora, come spero si sarà capito, il convegno mi pare che sia andato bene. In fin dei conti ha presentato una panoramica ampia, non limitata né geograficamente alla Russia né cronologicamente all'evento “rivoluzione d'Ottobre”. Nell'insieme è invece venuta fuori una narrazione stratificata: le riflessioni di esponenti conosciuti come per esempio Kropotkin, Berkman, Goldman, Fabbri e Malatesta non hanno messo in ombra le vicende di donne e di militanti di secondo piano (mi si passi l'espressione). È emersa quindi la dimensione internazionale della critica anarchica alla rivoluzione russa. Gli interventi non sono rimasti fermi a Mosca, ma hanno idealmente spaziato tra Francia, Italia, Germania e Stati Uniti, spingendosi dal 1917 fino alle profondità degli anni Venti, quando gli anarchici non erano che degli sconfitti che criticavano l'incriticabile - la “patria rossa del proletariato”.
Eppure. Eppure tornando in treno in una nebbiosa e cupa serata come solo la bassa padana sa regalare, sentivo che c'era qualcosa che non andava – e non me lo spiegavo. Ero soddisfatto del convegno, gli interventi interessanti, ho dato un volto a persone che conoscevo solo attraverso uno schermo, ho detto quello che volevo dire - insomma, tutto a posto. Eppure c'era qualcosa che mi era rimasto sullo stomaco e non era quella maledetta torta di riso che con alcuni convegnisti ho mangiato a pranzo (che sullo stomaco ci è stata davvero per lunghe ore). Era qualcosa di meno materiale. Dopo alcuni giorni, quando oramai la torta di riso era bell'é digerita, ho capito.
In un recente e fondamentale volume dedicato alla storiografia dell'anarchismo in Italia, Giorgio Sacchetti osservava giustamente che è finalmente caduto il “muro di Berlino” anche nella storiografia che aveva nei decenni precedenti marginalizzato l'anarchismo. Da alcuni anni a questa parte infatti anche nel panorama accademico italiano si è cominciato a parlare di anarchici e anarchismo: ci sono sempre più tesi di laurea e di dottorato, studiosi affermati prendono in considerazione l'argomento, una nuova generazione di studiosi sta crescendo. Certo, l'Italia è ancora indietro rispetto al resto dell'Europa. Solo pochi giorni fa un'amica mi ha prestato un opuscolo pubblicato dalle edizioni dell'Università di Nimega (Olanda) dedicato... alla pratica del consenso nella costruzione decisionale di un gruppo anarchico. Una cosa del genere è ancora fantascienza da noi. Ma non mi piace nemmeno cullarmi in questo continuo masochistico paragone con l'estero – non è questo il punto.
L'elemento centrale invece mi sembra essere un altro. Secondo me, la grande maggioranza degli interventi che si sono tenuti durante il convegno (compreso il mio) oscillavano tra due dimensioni: da un lato la ricerca (e ce n'era tanta), dall'altro la testimonianza. Parlo per me: analizzando in retrospettiva la mia relazione, non c'era solo l'analisi di un network solidale, ma anche la testimonianza dell'esistenza di questo network, ancora ignorato dalla storiografia ma soprattutto – e qui è l'elemento chiave – dal dibattito pubblico. Senza farsi illusione alla Habermas, bisogna infatti notare che per la grande maggioranza delle persone l'anarchismo non evoca certo una delle più importanti correnti di pensiero dell'Otto-Novecento, capace di intuizioni geniali che poi si sono generalizzate (anche se spesso sotto un segno ideologico diverso - pensiamo al caso della critica alla rivoluzione russa) e di analisi profonde e capaci di cogliere i processi in atto.
Ed ecco la causa del mio peso sullo stomaco: sentire ancora come necessario coniugare analisi e testimonianza. Dover insomma ancora dire: ehi, non solo gli anarchici hanno fatto questo e quello, hanno sbagliato quello ma ci hanno imbroccato su questo e lo dico su queste fonti con questa metodologia. Ma dovere soprattutto dire: ehi, gli anarchici c'erano, erano militanti attivi, erano teste pensanti, erano critici lucidi e acuti. Non voglio dire, si badi, che le cose devono essere in questo modo, dico solo che, a mio parere, le cose stanno in questo modo.
Come ha efficacemente osservato un giovane studioso di anarchismo con cui ho parlato di queste righe, Oreste Veronesi, la sfida allora consiste nel fare in modo che la testimonianza anestetizzi un approccio decontestualizzante della ricerca ma al contempo non si trasformi in memorialistica volta a ribadire solamente un'identità politica. Potremo così camminare tra le macerie dei muri caduti, in un mondo senza frontiere.

David Bernardini




Francia/
Lotte ecologiste. Vittoria a Notre-Dames-des-Landes

Gli oppositori hanno vinto una battaglia ambientalista durata più di cinquant'anni (cfr. “A” 407, maggio 2016, “Con le scorie sotto i piedi”) e paragonabile a quella di Larzac. La lotta di Larzac fu un movimento di disobbedienza civile, contro il progetto di ampliamento di un campo militare nella piana di Larzac, che durò dal 1971 al 1981.
La decisione annunciata dal governo francese di abbandonare il progetto di aeroporto a Notre-Dame-des-Landes, magnifica area rurale a circa quindici chilometri a nord di Nantes, è una vittoria e un enorme sollievo per le decine di migliaia di ecologisti presenti a ogni raduno anti-aeroporto. È innanzitutto una vittoria sulla Vinci, tra le più grandi e rapaci multinazionali francesi, che da decenni cementifica e distrugge senza sosta la natura del pianeta1.
Una vittoria sul lobbismo e su chi ci sguazza dentro, come gli amministratori locali e nazionali appartenenti alla stessa famiglia del grande patronato.
Il nuovo governo non si farà pregare per versare i 350 milioni di euro di risarcimento alla Vinci. Il contratto fu stipulato nel 2010, dopo che il costruttore vinse l'appalto per un contratto statale di concessione, concezione e costruzione dell'aeroporto del Grande Ovest, per un totale di più di 500 milioni di euro, e la durata prevista era fino al 2065.
Una vittoria sul capitalismo, perché nei circa settanta alloggi illegali, di una bellezza «anarchitettonica» mozzafiato, l'autogestione e il mutuo soccorso sono riusciti a sostituire l'ideologia mercantile.
Una vittoria sull'organizzazione di tipo statale. La ZAD – in origine «zona di sistemazione differita», poi «zona da difendere» o «zona di autonomia definitiva» – non è certo diventata dall'oggi al domani un «paradiso» terrestre anarchico, tuttavia, le decisioni sono state prese in assemblea, senza forze dell'ordine, né tribunali.
Una vittoria, infine, contro il disfattismo dilagante e l'«a che pro?». I cittadini legalisti, gli agricoltori storici e gli zadisti hanno, infatti, dimostrato che, nonostante le differenze e seppur con qualche divergenza, è possibile unirsi e far fronte comune.
Questo è un traguardo incoraggiante anche per gli altri siti in Francia in cui si consumano scontri diretti e che registrano a loro volta occupazioni illegali (delle ZAD per intenderci): è il caso di Bure, dove si vogliono smaltire i rifiuti nucleari più radioattivi del paese, oppure di Strasburgo, dove la costruzione del grande raccordo anulare ovest è affidato, guarda caso, alla Vinci, oppure, di Roybon e della sua storia di Center Parcs, e così di molti altri. La “convergenza delle lotte” è avvenuta, ora deve farsi anche a livello sociale.
Tuttavia, anche se gli ecologisti hanno vinto la battaglia, non dobbiamo dimenticare che, in compenso, gli aeroporti di Rennes e Nantes saranno ampliati, che la Vinci otterrà un indennizzo, e che di sicuro le saranno affidati altri cantieri lucrosi.
L'attuale governo francese, il cui ministro dell'ambiente Nicolas Hulot vara di continuo misure anti-ecologiche2, continuerà la sua marcia in avanti grazie a riforme ultraliberali. Insomma, il capitalismo e il suo stato stanno bene.

Francia, Notre-Dame-des-Landes - Un momento della mobilitazione

Una frequentatrice assidua della ZAD commentava così: «Certo la Vinci ha perso, ma questo non vuol dire che gli “zadisti” abbiano vinto, perché adesso è il capitalismo verde a farsi strada. Le tante persone che negli anni si sono trasferite nella ZAD per proteggerla, ormai subiscono una doppia pressione. Innanzitutto, una pressione esterna, per far evacuare la zona, anche con espulsioni. La polizia sta già cominciando a manifestarsi nei dintorni della ZAD, e non tarderà a piombare sugli “occupanti abusivi”, mettendo in atto tutte le misure necessarie per “ripulire” quella che, agli occhi della cittadinanza, deve smettere di essere una “zona franca”. I controlli si abbatteranno principalmente su i più precari, che hanno mezzi di trasporto e documenti non proprio in regola e, a forza di multe e ritiri della patente, alcuni potrebbero, addirittura, essere processati. Tutti saranno esortati a migrare altrove sotto minaccia di un pestaggio generale in primavera.
Ma c'è anche una pressione interna, perché una parte del movimento (...) vorrebbe che gli abitanti trovassero una sistemazione in case vere e proprie e pagassero l'affitto, le bollette, le tasse, e che le capanne fossero distrutte... in pratica che l'occupazione cessasse e la zona si legalizzasse. Poi, forse, potrebbe diventare un territorio pilota per l'agricoltura eco-responsabile, e via dicendo. Il cerchio sarà chiuso.»
In altre parole, a Notre-Dame-des-Landes, per molti militanti la lotta era «contro l'aeroporto e il mondo che rappresentava».
«Quel mondo» però non è morto.

Sébastien Bonetti

traduzione di Gaia Cangioli

  1. Leggere “Les dix casseroles de Vinci, bétonneur de Notre-Dame-des-Landes” sul sito Reporterre.
  2. Il nucleare non sarà abbandonato nel prossimo futuro, i rifiuti radioattivi sono sotterrati di preferenza a Bure, l'agricoltura biologica e le energie rinnovabili rimangono in secondo piano, sul divieto dei pesticidi è stata fatta marcia indietro, ecc.



Ricordando Claudia Vio/
Una compagna unica, come le sue edizioni

Il 14 gennaio è improvvisamente mancata all'età di 63 anni Claudia Vio. Insegnante, scrittrice, attiva militante negli anni '70 del gruppo anarchico Nestor Mackhno di Venezia-Marghera e collaboratrice di questa rivista.
Avevo conosciuto Claudia Vio nei primi mesi del 1970 a Venezia in quella specie di appartamento al piano terra nel quartiere popolare di S. Piero di Castello, ai lembi estremi di Venezia, affittato come sede anarchica. Il locale era quasi senza pavimento, tanto era corroso dall'acqua che lo inondava ad ogni, anche se minima, acqua alta. Non c'era né elettricità né acqua potabile. Qualche candela qua e là rischiarava gli occhi spiritati di Nico (Berti) che ci spiegava, con teatrale gestualità, la differenza tra il gigante Bakunin e il “piccolo” Marx.
Eravamo quasi tutti studenti assorbiti e affascinati da quell'atmosfera carbonara che solo Nico sapeva creare. Eravamo molto giovani ma Claudia lo era di più. Aveva allora, circa 16 anni, studentessa al liceo classico Franchetti di Mestre. Curiosa, attenta, intelligente. Parlava lei, di famiglia veneziana, soltanto italiano.

Claudia Vio

È stato un amore politico a prima vista. Avevamo creato in quegl'anni con alcuni compagni una specie di Comune, Claudia quando poteva si spostava da noi. Manifesti, volantini ciclostilati, discussioni interminabili, manifestazioni e ancora riunioni, assemblee e ancora volantini... Così erano le nostre giornate militanti, fatte di amicizia e lotta politica. Claudia si allontanò dal gruppo e dall'attività militante anarchica su posizioni femministe e forse anche per stanchezza. Eravamo nel 1977. Gli scontri ideologici all'epoca erano fortissimi, spesso totalizzanti e umanamente devastanti...
Ho rivisto Claudia molti anni dopo al “Salone del Libro di Pace” promosso da Giovanni Benzoni. Presentavano, lei e la sua amica, compagna inseparabile fin dai tempi del liceo, Antonella Barina, le loro case editrici autogestite: Claudia aveva fondato l'“Unica Edizioni” dove pubblicava i suoi scritti. Sul tema dell'Autoeditoria autogestita è rinata una collaborazione e una amicizia all'interno dell'Ateneo degli Imperfetti. L'abbiamo rivista per l'ultima volta, sorridente, felice di essere tra noi (da mesi doveva occuparsi a tempo pieno della madre ammalata) il 16 dicembre scorso in occasione dell'incontro “Arte e Anarchia a Venezia negli anni '60”.

Elis Fraccaro




Ricordando Donato Romito/
Una lunga “presenza civile”

Il 13 gennaio ci ha lasciati Donato Romito, anarchico, storico di movimento, didatta ed organizzatore politico. Per noi che lo abbiamo conosciuto come coordinatore dei dibattiti ai meeting anticlericali... per noi ancora molto giovani, un esempio di stile. Donato sapeva infatti coniugare la metodica ostinazione nel ritenere l'appartenenza “di classe” essenziale nella visione politica, alla passione per la visibilità anche culturale del movimento anarchico, passione che unita ai saperi e alle energie di noi tutti ha dato vita ad uno dei più importanti esperimenti libertari del nostro Paese. Esperimento che lui stesso, ironicamente riferendosi a CL, aveva proposto di chiamare “meeting”.
Lo troviamo attivo nell'anarchismo pugliese e poi marchigiano e protagonista del processo di unificazione che fa nascere nel 1986 la Federazione dei Comunisti Anarchici (ora Alternativa Libertaria), di cui è stato in passato ed era attualmente segretario nazionale. Maestro di scuola primaria dal 1976, a livello locale è stato uno dei promotori della nascita dell'ALLP (Associazione Lavoratrici Lavoratori Pesaresi) nel 1994, partecipa poi a tante altre attività culturali cittadine improntate a “fare rete”, una per tutte la redazione del giornale multiculturale Pesaro Nuovo Mondo.
Alla fine degli anni '90 Donato entra nel sindacalismo di base ed apre a Pesaro insieme ad altri insegnanti la sede della federazione provinciale dell'Unicobas. Svolge inoltre attività di formatore per la didattica della storia prima per il Movimento di Cooperazione educativa e poi per CLIO '92.1

Donato Romito

Donato è sempre stato un preciso ed entusiasta traduttore e corrispondente delle riviste anarchiche e libertarie nel mondo. Nel 2001 ha pubblicato per i “Quaderni di Alternativa Libertaria” il saggio “La Quinta Guerra Mondiale”2, a cui seguirà nel 2003 “The Italian base unions”, per il mensile “North American Anarchist”, un saggio sul sindacalismo di base in Italia3.
Nel 2010 diviene responsabile del Centro di Documentazione “Franco Salomone” aperto a Fano, per il quale cura la pubblicazione tra il 2011 ed il 2013 del libro su Franco Salomone, di quelli sulla sinistra libertaria a Bari negli anni '70 e sui Gruppi Anarchici di Azione Proletaria-GAAP. Nel 2012 ha partecipato all'incontro anarchico internazionale di St. Imier nel suo 140° anniversario, in cui rappresenta la FdCA nella terza conferenza europea4 e nella prima conferenza intercontinentale della rete Anarkismo5.
Donato ci lascia l'esempio della sua presenza “civile”, intesa come capacità di essere presente nel vivere politico quotidiano non per il gusto del conflitto, non per visibilità personale ma con la capacità di creare dibattito, dissenso, prospettive più solide, nei tempi e negli spazi, dei ritagli di storia ed arte nei quali un certo pregiudizio ha sempre tentato di relegare gli anarchici.

Francesca Palazzi Arduini

  1. Sulla scuola ha scritto per A: “La chiesa dentro lo stato”, nr. 238/1997 e “Privati di scuola”, nr. 250/1998.
  2. http://www.fdca.it/antimilitarismo/quintaguerramond.htm.
  3. http://www.fdca.it/sindacale/cobas.htm.
  4. Di questo incontro ha scritto su A nr.377/2013, “Senza fughe in avanti, né indietro”.
  5. www.anarkismo.net.



Quel 13 maggio '68 a Marsiglia/
Un ricordo e una poesia

Danilo Mannucci è stato un militante comunista livornese, attivo negli Arditi del Popolo e poi lungamente confinato, vicino agli anarchici. Suo figlio racconta qui un piccolo spaccato del Sessantotto, vissuto in Francia dove abitava e abita, lì emigrato al seguito del padre. E ritrova una poesia scritta dal padre in quelle giornate di lotta dura.

In questo 2018 ricorre il cinquantesimo anniversario degli avvenimenti del maggio '68, vicende che ho vissuto in Francia quando avevo 23 anni, partecipando attivamente nelle file della CGT1. A quei tempi lavoravo come saldatore presso una ditta impegnata nella costruzione di una centrale termica di Gardanne. Si sono svolti in quel periodo una serie di scioperi generali selvaggi, nonché manifestazioni, avvenute durante il maggio/giugno. La classe operaia francese prese allora consapevolezza del suo continuo sfruttamento, rivoltandosi contro l'autoritarismo, scoprendo che una cultura consumista si era ormai insediata nei costumi senza che si prendesse davvero coscienza di tutte le sue implicazioni né degli squilibri mondiali che provocava, e sbalordì il mondo con un ampio sovvertimento ancora mai visto nella dopoguerra.

Danilo Mannucci

In Francia, nel 1968, la miscela esplosiva era composta da motivazioni diverse, come il dissenso verso l'establishment, contro la morale borghese, il capitalismo e la guerra in Vietnam, nello spirito libertario di Cohn-Bendit sintetizzato nello slogan “Vietato vietare”. Il Sessantotto rappresentò il più importante movimento sociale rivoluzionario della storia di Francia del secolo XX che coinvolse gli operai delle fabbriche e gli studenti, costringendo il generalissimo De Gaulle a scendere a patti: scioperi, occupazioni e autogestioni delle fabbriche e delle università andarono avanti per il tutto il mese di maggio.
Tali eventi non erano stati previsti dagli “strateghi” del capitale né in Francia né altrove, neppure dagli stalinisti e dai leader riformisti e non parliamo della cosiddetta sinistra rivoluzionaria o di quelli che si autoproclamavano marxisti. Unica eccezione: i situazionisti che furono l'anima della rivolta. Quel movimento si era sviluppato lungo tutto il corso degli  anni sessanta, in particolare dopo la pubblicazione dell'opuscolo La miseria nell'ambiente studentesco francese scritto nel 1966 dal tunisino Mustapha Khayati, e poi diffuso in tutte le grandi università europee. Quell'opuscolo trovò nel  maggio '68, a Parigi, il momento più alto di affermazione, laddove si incontrarono il desiderio di cambiamento dei giovani francesi e le teorie in senso rivoluzionario dei situazionisti.
Impressionante fu la risposta alla feroce repressione poliziesca della notte dal 10 al 11 maggio a Parigi. Ero a Marsiglia quel 13 maggio 1968, con i compagni della ditta dove lavoravo. Le campane della cattedrale de Notre-Dame-de-la-Garde risuonarono alle ore 10 per lo sciopero generale. Il viale Léon-Gambetta (nella parte alta del celebro corso La Canebière) era nero di gente, e da ogni parte arrivavano ancora persone a piedi, dato che corriere, treni e tramvia erano in sciopero. La totalità dei sindacati operai e studenteschi - sostenute dal Partito comunista e dalla Federazione della sinistra democratica e socialista - era presente. Il corteo imponente, popolare, fisicamente rumoroso con studenti, operai e Gaston Deferre – sindaco socialista di Marsiglia – in testa, fece il tragitto fino al Palazzo di giustizia gridando “abbasso la repressione, rilasciate i nostri compagni”, “amnistia totale”, “De Gaulle assassino”, “Studenti solidali con i lavoratori”, e cantando L'Internazionale. A Parigi, dopo la retromarcia del governo, 24 studenti furono liberati.
È uno dei tanti ricordi che ho del maggio '68, al quale voglio aggiungere che in conseguenza dello sciopero, la ditta per la quale lavoravo perse l'appalto da parte delle Miniere di carbone fossile di Provenza per “non osservanza dei termini di attività”, e fin da giugno, con 35 compagni, mi sono trovato disoccupato per circa 10 mesi.
Danilo Mannucci (Livorno,1899 – Gardanne,1971), mio padre, ex ragazzo del '99 ed ex ardito del popolo, sindacalista della CGTU tra il 1923 e il 1936 in Francia, e poi fondatore nel dicembre 1943 della ricostituita Camera del Lavoro di Salerno – affiliata alla CGL “rossa” – seguiva con passione questi scioperi. Aveva 69 anni e il suo stato di salute non gli permetteva di spostarsi nei cortei. Quando tornai da Marsiglia, mi chiese il resoconto dettagliato della manifestazione. «Pitti, – così mi chiamava – peccato che non ho 20 anni di meno. Sarei venuto con te. Ricordati, se il mondo operaio non vuole più essere sfruttato dal capitale, è nelle vie e nelle piazze che deve andare» mi disse in conclusione. Aveva un'attenzione particolare per Daniel Cohn-Bendit che tutti chiamavano ”Dany le Rouge” e si ricordava che negli scioperi delle miniere di Provenza che lui aveva organizzato tra 1930 e 1935 pure lui era stato soprannominato ”Dany le Rouge”.
Militante della Federazione giovanile socialista italiana all'età di 16 anni, poi comunista dopo la fondazione del PCd'I a Livorno nel 1921, nel '44 entrò in contrasto aperto con il “Partito nuovo” di Togliatti e con lo stalinismo, aderendo nel 1947 al gruppo anarchico salernitano “Vicenzo Perrone” e scrisse dalla Francia, dopo il nostro esilio volontario del 1949, alcuni articoli per Umanità Nova, giornale al quale fu abbonato fino alla sua morte nel 1971.
Conservo una bozza manoscritta, ritrovata per caso, di un poesia nel quale mio padre esprimeva il suo risentimento per quegli eventi del maggio '68. Il compagno Marco Rossi l'ha sistemata in modo chiaro rispettando perfettamente lo stile di mio padre. Di cuore lo ringrazio per la sua attenzione, ed è con gran piacere che ve la offro.
Dalla Francia, un saluto libertario.

Giuseppe Mannucci

Caschi bianchi e scudi neri
Ed ho visto gli uomini
i mastini
biechi strumenti di una tirannide
ancor più sanguinaria
nell'imminenza della caduta.
Ho visto, gli eroi dai caschi bianchi,
martirizzare una gioventù
che non apparteneva che a lei sola.
A una gioventù che impavida
gridava lanciando le pietre
tolte al selciato
e che cantava
il nuovo ideale rivoluzionario rigenerato.
Ho visto questi giovani
questi studenti fanciulli
che resistevano
in una difesa eroica
dall'alto delle fumanti barricate
nello sventolio
di bandiere rosse
e di bandiere nere.
Ho visto dei francesi, che pur erano padri,
imbestialirsi contro altri francesi
che erano dei figli.
Ho visto questi francesi
caschi bianchi nei camion grigi
esseri umani, spinti avanti
contro una gioventù
che clama un diritto. Ed ho pianto!
Ho pianto per gli studenti fanciulli
che cadevano sotto il bastone
per rialzarsi e continuare a combattere
e cadere ancora.
Ed ho pianto per questi uomini
per gli incoscienti
che andavano avanti contro i figli
con la testa piena di idee sballate
senza accorgersi che lottavano
per un potere ormai defunto
che insanguinava le strade
nella sua agonia.
Ed ho pianto, per questi studenti fanciulli
che cadendo sotto le cariche bestiali
indicavano agli altri, agli assenti,
la via da seguire.

Danilo Mannucci

1. Confédération Générale du Travail, cioè Confederazione Generale del Lavoro di tendenza “rossa” simile alla CGdL italiana prima che diventasse la CGIL.




Portoferraio/
Cancellare Pietro Gori? Noi non ci stiamo

A fine gennaio la giunta comunale di Portoferraio ha deciso di dedicare all'ex-sindaco Ageno la piazza antistante il municipio che, dal 1946, ospita la lapide dell'artista Arturo Dazzi dedicata a Pietro Gori.

Nato a Messina nel 1865, perché il padre – generale – era stato lì trasferito, Gori è stato uno degli anarchici più noti, e nelle terre toscane quasi “venerato” per il suo limpido impegno sociale, come difensore dei più deboli e dei ribelli – lui che era avvocato – nonché conferenziere e anche “cantautore” (si sarebbe detto oggi). Da “Addio Lugano Bella” in poi, tante canzoni ottocentesche sono arrivate a noi ancora cariche di pathos, spesso cantate in piazza non solo dagli anarchici. Gori morì 46enne, di tisi, proprio a Portoferraio e i suoi funerali, con la bara su un treno da Piombino a Rosignano (la sua vera “patria” - ma per lui “nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà”) furono una partecipatissima manifestazione di popolo.
Nel mezzo, tra Messina e Portoferraio, una vita militante tutta dedita all'Ideale, libri, processi nei quali fu imputato, condannato, difensore, poesie, opere teatrali, conferenze, viaggi di propaganda in Nord e Sud America, Europa, Egitto, direzione di riviste, la frattura nel 1892 a Genova con i socialisti che scelsero la via parlamentare.
Un rapporto forte con l'Elba, in cui visse gli ultimi anni, tormentati nella salute, della sua vita. Con la sua ultima conferenza pubblica, nel 1909, proprio a Portoferraio, per ricordare il “martire del libero pensiero” Francisco Ferrer y Guardia, pedagogista anarchico fucilato a Barcellona.

Portoferraio (Isola d'Elba), 3 febbraio 2018 - Un momento
della pacifica protesta di un gruppo di cittadini elbani e di anarchici toscani.
Foto: Federazione Anarchica Livornese

Una ventina di persone hanno partecipato alla cerimonia ufficiale delle autorità, con cui è stata cambiata la denominazione della piazza. Ben distinti, un'ottantina i cittadini elbani che si sono uniti a un gruppo di anarchici e libertari, provenienti anche da Empoli, Volterra, Pisa, Livorno e altre località per l'immediata risposta di protesta e di denuncia. Al termine della cerimonia istituzionale, dal settore critico si sono levati i canti sociali del Gori.
Il tutto ha avuto grande risalto a livello locale, in particolare sulla stampa locale. Due tempestive prese di posizione della Biblioteca “Franco Serantini” di Pisa – sottoscritta da storici e scrittori – e della Federazione Anarchica Livornese hanno denunciato la squallida operazione di cancellazione della Memoria.
Può sembrare una piccola cosa a fronte di tutto quanto succede, ma il peggioramento della situazione generale e del clima politico-sociale (basta pensare a Macerata e alle tante Macerate in giro per l'Italia) si vede anche da queste piccole “cancellazioni” della memoria. Che tanto piccole non sono e che vogliono sradicare un passato che ci parla di speranze e di un possibile mondo migliore. Di anarchia.

Paolo Finzi