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 Linguaggio e potere Arrival (D. Villeneuve, 2016) è una strana storia, 
                  che si aggancia deliberatamente al filone di narrazioni utopiche 
                  capaci di scegliere una strada diametralmente opposta al mercato 
                  e di perlustrare un territorio più complicato e meno 
                  esplorato, con una cifra meditativa che, lo si sa, non è 
                  mai stata il modo migliore per aver successo. Nel descrivere 
                  un primo contatto tra alieni e umani, il film introduce la questione 
                  del linguaggio come collante che tiene insieme una comunità, 
                  ma anche come arma imperialistica molto efficace. A un certo 
                  punto, nella vicenda, la linguista Louise Banks racconta al 
                  colonnello Weber, scettico sulla necessità di instaurare 
                  un ponte comunicativo con gli alieni, la storia di come il capitano 
                  James Cook nel 1775, approdando alla costa australiana, avesse 
                  incontrato un gruppo di aborigeni e, intravvedendo un canguro, 
                  lo avesse indicato. Gli aborigeni avevano risposto: “Kangaroo”. 
                  La parola era stata interpretata come una designazione dell'animale, 
                  quando invece significava “Non capisco”. Un malinteso 
                  avrebbe determinato la scelta di un termine preciso, caricandolo 
                  di un senso che non era quello originario. Alla lettera, essa 
                  aveva cioè creato un mondo.Nei contatti con popolazioni altre, nel rapporto tra occidente 
                  e quel che occidente non è, la relazione linguistica 
                  tra due culture è spesso stata usata, più che 
                  come strumento di comprensione, come pratica imperialista, metodo 
                  per imporre una visione del mondo. Alla fine dell'Ottocento, 
                  Leopoldo II, capitanando l'impresa economica di colonizzazione 
                  del Congo, faceva sottoporre ai capitribù contratti scritti 
                  in una lingua per loro incomprensibile e strutturati in modo 
                  tale da ottenere il consenso dei nativi a farsi schiavi. Come 
                  sia finita, lo si sa. Quel che è più complicato 
                  capire è come questa pratica sia sopravvissuta alla storia 
                  e sia ancora oggi del tutto operante.
 
 La strategia degli occidentali In un romanzo del 2008, anch'esso genericamente catalogabile 
                  come distopico, Will Self descrive il processo di colonizzazione 
                  e ricolonizzzazione di un'isola esotica della quale non viene 
                  detto il nome (Una sfortunata mattina di mezza estate). 
                  Apparentemente, la popolazione indigena dell'isola sarebbe stata 
                  sterminata dalla prima ondata imperialista, per poi essere “ricreata”, 
                  alla lettera, dalla seconda ondata: i nuovi colonizzatori avrebbero 
                  cioè ricostruito la popolazione indigena, rimodellandone 
                  usi, costumi, sistema normativo e, soprattutto, lingua. La storia di Self è un grottesco, illuminante apologo, 
                  semplificato ma per questo utile, sui processi di colonizzazione. 
                  Esso comincia, e trova la sua arma più potente, nel linguaggio, 
                  utilizzato dai nuovi colonizzatori non come la semplice istituzione, 
                  meccanica e funzionale, di un rapporto tra le parole e le cose, 
                  ma come ricostruzione tutt'altro che neutrale di una cultura 
                  che nei fatti e nella storia reale delle comunità indigene 
                  descritte da Self proprio non esisteva.
 A pensarci bene, il processo non è tanto diverso a quel 
                  che accade oggi nei CIE (Centri di identificazione ed espulsione) 
                  sparpagliati lungo le coste settentrionali del Mediterraneo. 
                  Raccolti in mare o approdati fortunosamente sulla terraferma, 
                  i migranti vengono immediatamente “denominati”, 
                  cioè infilati in una casella riconoscibile: sono richiedenti 
                  asilo, migranti economici, rifugiati, soggetti vulnerabili, 
                  minori non accompagnati… Le definizioni in sé 
                  appaiono al tempo stesso neutre e rassicuranti. Crediamo di 
                  capire – come il colonnello Cook – e questa comprensione 
                  ha due effetti: ci fa sentire intelligenti e civilizzati e ci 
                  permette di coltivare l'illusione di essere al tempo stesso 
                  “buoni” e più forti. Il fatto è che 
                  nessuna definizione è davvero corrispondente alla realtà: 
                  ne fornisce solo una rappresentazione, che, come sempre, è 
                  funzionale al mantenimento di una relazione gerarchica, nella 
                  quale c'è qualcuno che è “padrone del linguaggio” 
                  (e attraverso esso esercita il suo potere) e qualcuno che, invece, 
                  lo subisce.
 Così ogni etichetta designa una categoria di migrante, 
                  e a ogni categoria corrisponde un sistema normativo, che viene 
                  esercitato a prescindere dall'adeguatezza dell'etichetta nel 
                  riassumere la storia personale, la cultura, la natura della 
                  comunità di provenienza. La strategia funziona benissimo 
                  per noi occidentali, un po' meno per la risoluzione dei mille, 
                  inimmaginabili problemi di chi migra.
 
 Un dubbio utile E torno alla letteratura e all'arte, che sono lo strumento migliore per riflettere sulla natura paradossale del linguaggio: esso serve per dar senso al mondo, ma questo senso è impregnato di potere, e dipende in modo determinante da chi esercita la sua autorità su chi. In Little Bee (Chris Cleave, 2008), la protagonista è una ragazzina nigeriana che comincia a raccontare la sua storia mentre è chiusa in un CIE inglese, dove ha passato alcuni anni. Little Bee adesso sa l'inglese, e dunque può rivolgersi direttamente alla regina d'Inghilterra per perorare la sua causa. Il fatto è che il suo inglese è riconoscibile. Non è “l'inglese della regina” e dunque è una lingua che la etichetta immediatamente come “non appartenente”. Il senso delle sue parole è confuso, i significati non passano e possono essere fraintesi, la comunicazione mantiene una relazione gerarchica che è, per Little Bee, l'origine di tutti i suoi guai. Lo diciamo sempre: se vengono da noi, devono imparare la nostra lingua e adeguarsi alle nostre regole. Ma se davvero non avessimo compreso? Se “Kangaroo” non significasse “canguro”? È un dubbio utile, specialmente oggi, e l'arte è la patria del dubbio.
 Così forse è importante tornare ad Arrival e al dialogo dal quale sono partita. Alla fine della conversazione, Louise Banks rivela che la sua storia è completamente inventata. Ma è una buona storia, perché dimostra qualcosa di vero: il linguaggio è potere. La rappresentazione è un'attribuzione di senso. E di questo senso noi facciamo, in ogni momento, individualmente e collettivamente, lo strumento per costruire il mondo. Se bene o male, dipende da noi.
 Nicoletta Vallorani |