Rivista Anarchica Online


Biennale di Venezia

Morta l'arte, morta, a Venezia

di Franco Buncuga


Al nostro inviato la Biennale di Arte Contemporanea 2017 non è piaciuta. E qui spiega perché.
Tanto che alla fine imbocca una porticina e se ne va sbuffando.


Così mi viene ironicamente di ribaltare il titolo, Viva Arte viva, scelto da Christine Macel per l'edizione di quest'anno della Biennale di Arte Contemporanea di Venezia. Già alla presentazione stampa di questa 57a edizione nel settembre scorso, tutti siamo rimasti un po' sconcertati dal titolo scelto dalla curatrice. Veramente un titolo spiazzante, che rimanda per assonanza alla pubblicità di una linea benessere, un assorbente o una crema anti-rughe.
Dopo 22 anni dell'edizione controversa di Jean Clair, un altro curatore francese, questa volta una donna, che per spirito rinnovato di grandeur – mai sopito e ben incarnato nel nuovo leader bonapartista d'oltralpe Macron – non lesina lodi al suo predecessore, capofila del movimento anti-moderno e reazionario all'interno del mondo dell'arte. Piero Dorazio, il grande astrattista italiano, causticamente definì l'edizione di Jean Clair “una mostra estremamente reazionaria, un'azione della controriforma” giudizio all'epoca condiviso da molti. E il segno di questo legame si vede. L'edizione di Macel privilegia percorsi individuali, preferendo i singoli artisti alle tendenze, ai gruppi o i movimenti, orientandosi verso scenari domestici, o percorsi rassicuranti e 'edificanti'. “L'arte ci costruisce ed edifica” afferma Macel e aggiunge: “Essa è il luogo per eccellenza della riflessione, dell'espressione individuale e della libertà, così come degli interrogativi fondamentali. [...] La mostra si propone così come una esperienza che disegna un movimento di estroversione, dall'io verso l'altro, verso lo spazio comune e le dimensioni meno definibili, aprendo così alla possibilità di un neoumanesimo.” Quali caratteri debba assumere questo neoumanesimo non mi sembra ben chiaro, passeggiando per i padiglioni della Biennale.

Un cartello della mostra di Pablo Echaurren, alla Scala Contarini del Bovolo,
che ironicamente ribalta il titolo della famosa opera di Duchamp “Nu descendant un
escalier” (Nudo che scende una scala) in “Nous descendants un escalier” (Noi che
scendiamo una scala). Operazione che Duchamp stesso avrebbe sicuramente apprezzato

L'arte come consolazione e creatività

Christine Macel non intende avere un tema conduttore unico, come hanno fatto i curatori 'forti' delle scorse edizioni, iniziando dal più forte di tutti, Harald Szeeman fino ai recenti Francesco Bonami o Massimiliano Gioni e all'ultimo Okwui Enwezor che aveva installato al centro dell'Esposizione un palco in cui si leggeva senza sosta in modo liturgico il Capitale di Karl Marx. Da un'edizione confezionata in un pacchetto super-politico ad un'edizione dalla quale la politica vuole essere totalmente assente e la mano del curatore la più leggera ed invisibile possibile: che parlino gli artisti con le loro opere! Oppure chiaccherino, seduti comodamente a tavoli conviviali organizzati ad hoc dalla curatrice, con i loro spettatori: scopo del progetto Tavola Aperta, pranzi settimanali organizzati con i singoli artisti disponibili. Attraverso il progetto Pratiche d'Artista, brevi video a cura dei partecipanti, i curiosi potranno anche vedere l'artista all'opera e l'ambiente in cui avviene la creazione.
L'arte intesa dunque come consolazione e creatività e, come cita coltamente nella presentazione la curatrice, soprattutto come un tentativo di un recupero dell'otium nei confronti del negotium, del tempo dilatato del piacere e del riposo contro gli impegni assillanti dell'attività frenetica di lavoro a cui ci costringe la nostra società.
L'otium. E fino qui ci va bene vedere nella prima sala della mostra l'artista croato Mladen Stilinovi, recentemente scomparso, ritratto nel 1978 mentre dorme nel suo letto e poi in una panca durante un'esposizione nel 2011. Perfetto il titolo: Artist at Work. Oblomov, il pigro protagonista del racconto geniale dello scrittore Ivan Aleksandrovi Gonarov, si sa, è uno dei modelli più attraenti nel mondo slavo. Mio idolo. Non a caso ho sempre coerentemente sostenuto davanti ai miei studenti che “la differenza tra un buon grafico e un artista è il fatto che un artista è al lavoro 24 ore su 24, anche quando dorme.”
Ma forse la Macel non ha compreso bene che l'otium per i latini non era lo sprofondarsi oblomovianamente su di un divano, ma dedicarsi prevalentemente ad interessi intellettuali e ad altre attività piacevoli, sicuramente amate, per libera scelta e diletto personale ma attraverso un forte impegno e una rigida auto-disciplina creativa. Il senso di svago e superficialità politically correct che aleggia nell'allestimento di Christine Macel non riproduce affatto il rigore intellettuale e di ricerca che l'otium dei nostri antenati esigeva.

Già morta eppur cammina (la Biennale)

Altro che Viva Arte Viva, l'edizione di quest'anno è un mortorio che ricorda, nel titolo ribaltato, il cupio dissolvi di Gustav von Aschenbach, il protagonista del romanzo La Morte a Venezia di Thomas Mann che coperto di belletto e di nero che cola dai capelli muore in una città in cui imperversa un'epidemia di colera ma che testardamente – e per ragioni di bottega, per non perdere i turisti – rifiuta di riconoscersi inesorabilmente infetta.
Metafora calzante di questa Biennale di Venezia che lentamente invade la città e ora si espande con i suoi tentacoli sulla terraferma, a Mestre e nel territorio circostante. Iniziativa che è già morta eppur cammina e che, nonostante critiche negative sempre più numerose e qualificate, continua a battere record di presenze: più 23% nei primi mesi rispetto all'edizione precedente. Come all'apertura di ogni nuovo super centro commerciale, sempre più grande, sempre più visitatori, sempre più immondizia in esposizione. Funziona. Non chiedetemi perché.
Le prime persone note che ho incontrato alla vernice della Biennale in sala stampa sono state un amico architetto che riprendeva un breve video di critica di Fulvio Abbate, animatore di Teledurruti, che, con una splendida maglietta bianca con l'immagine di un Anarchik bombarolo, alquanto disgustato definiva l'esposizione: “un grumo di luoghi comuni”, un'Ikea delle avanguardie storiche del secolo scorso, “transfigurate in scansie di stoffe per calze Gallo”.
Se invece di leggere queste mie righe – che alla fine in maniera più prolissa dicono la stessa cosa – volete un parere più sintetico e definitivo, ascoltate le indicazioni critiche sommarie, ma efficaci, di Teledurruti sul suo canale Youtube. Il conduttore di quell'emittente può ricorrere a volgarità e turpiloquio che “A” rivista, per stile e statuto, non intende ospitare.
Saprà salvarsi il malato terminale? Ci vorrebbe un miracolo.
Eppure non molte edizioni fa la Biennale era ben vitale, criticabile ma vitale; oggi mostra un encefalogramma piatto ed è arduo rintracciare nelle sezioni curate dalla Macel qualche scintilla di curiosità. Christine Macel rifiuta di assumere un tema generale, un filo conduttore, e organizza il percorso espositivo in Trans-Padiglioni, sorta di padiglioni trans-nazionali nei quali raggruppa gli artisti per affinità ed assonanze, due nel Padiglione Centrale e i restanti sette dall'Arsenale fino al Giardino delle Vergini: il Padiglione degli Artisti e dei Libri, il Padiglione delle gioie e delle Paure, Il Padiglione dello Spazio Comune, il Padiglione della Terra, il Padiglione delle Tradizioni, il Padiglione degli Sciamani, il Padiglione Dionisiaco, il Padiglione dei Colori e il Padiglione del Tempo e dell'Infinito.

Phyllida Barlow, Le “palle di Natale”
dell'installazione Folly al padiglione inglese

Dategli le brioche!

L'impressione generale dopo un primo sguardo all'allestimento della Macel è quella di essere capitati nel capannone di una qualche Fiera del tessuto: ovunque filati, tappeti più o meno etnici, tendine, ricami astrusi, corsi di cucito e di oggetti fai-da-te per volenterose dame di carità (alla Biennale questa attività di beneficenza si chiama partecipazione del pubblico), scaffali da supermercato gremiti di scarpe usate come vasi da fiori, carrelli, indumenti intimi.
Il primo Trans-P, quello degli Artisti e dei Libri, ospita il “progetto Green light – An artistic workshop di Olafur Eliasson. Studio artistico e luogo di apprendistato che propone la fabbricazione di lampade modulari, Green light consiste in un'opera collaborativa concepita innanzitutto per i migranti e i rifugiati che oggi vivono a Venezia o in Veneto, nonché per gli studenti e per il pubblico.” Ho lasciato le parole testuali usate dalla curatrice perché io non ho parole. Mi sembra che la super-star di questa mostra Eliasson abbia una volta di più dato senso alla famosa frase attribuita a Maria Antonietta: “Il popolo non ha pane? Dategli le brioche!” In questo caso lampade verdi, molto carine prodotte da “un'impresa artistica, politica, etica ed estetica” come sottolinea orgogliosa Macel.
L'à propes fat sù 'n macel! si direbbe da noi.
A partire dal Padiglione dello Spazio comune è tutto un trionfo di fili e tessuti, intervallato da danze rituali e riti sciamanici, altro elemento chiave dell'esposizione. La sintesi perfetta si raggiunge nell'esposizione di tessuti sciamanici indossati da veri sciamani che vengono a recitare se stessi nel Padiglione degli Sciamani. Macel ha il coraggio di citare Duchamp e Beuys parlando di riscoperta della dimensione sciamanica, forse dimentica Artaud e tanti altri Surrealisti e non, e soprattutto dimentica che è passato un secolo e che oggi queste riscoperte rischiano di diventare ridicole. L'artista Mara Lai usa filo e tessuto e svolge un nastro blu dal suo villaggio alla montagna, Anna Halprin, ispirata da uno sciamano, gira il mondo con la sua Planetary Dance che coniuga danza e spiritualità; David Medalla, novella Penelope, invita i visitatori a ricucire all'infinito la sua opera A Stitch in a Time; Lee Mingwei rattoppa vestiti strappati per “cucire un mondo in comune”, Yorgos Sapountzis costrusce tende colorate per creare rifugi in cui riunirsi, e così via, un po' dappertutto in questo allestimento “molto femminile” come alcuni critici coraggiosi hanno osato definirlo. Nel Padiglione Dionisiaco tra mutandine, camicie da notte e intimo femminile vario, arriva al culmine un “inno al sesso femminile e all'estasi (che) anima anche l'installazione barocca ispirata al teatro burlesco di Pauline Curnier Jardin, Grotta Profunda Approfondita, in cui l'artista propone di penetrare, letteralmente, in una vagina. Un primo video presenta le avventure di Bernadette Soubirous che, dopo l'apparizione divina, scopre l'estasi suprema durante un baccanale orgasmico.” Vi risparmio il resto della descrizione dell'installazione e del padiglione, che certo non risveglia la mia estasi dionisiaca ma neppure è degno di un sorriso o di una qual critica. Banale.

Un bel X (Hicks)

L'apoteosi culmina all'Arsenale, nel Padiglione dei Colori: tessuti, colori, tappeti, tende e filati e, per terminare in crescendo, l'intera parete finale dedicata all'opera di Sheila Hicks, autocelebrata erede ed allieva di Josef Albers, grande genio del Bauhaus di cui ha seguito i corsi a Yale. In realtà era più vicina alla sensibilità della moglie di Albers, esperta in fibre e filati, che la indirizzò verso una ricerca sui tessuti precolombiani. Hicks, spiega Christine Macel, “a Venezia crea un'immensa installazione in fibre colorate, un Baoli che designa in India un luogo di ritrovo. Le sue balle colorate e la sua tappezzeria diventano un'opera che conclude il viale centrale delle Corderie ed al contempo un luogo di riposo, che va oltre la contrapposizione tra arte e design tessile in un'opera sgargiante.”
Balle colorate, esatto, tutto qui! Giganti gomitoli colorati per gattoni felici accatastati addosso a un muro e fibre sparse qua e là della simpatica artista che ho avuto il piacere di conoscere ad un esposizione nella galleria Minini a Brescia. La simpatica e raffinata signora Hicks, dopo aver fatto un viaggio in Perù, molti decenni fa, per la sua tesi di laurea sui tessuti incaici, non ha più avuto bisogno di pensare a nient'altro tutta la vita (otium?). Se avesse fatto una tesi sul tombolo di Burano ci starebbe ancora spacciando merletti giganti ad ogni esposizione.
Nella vita di Sheila Hicks si snoda un “filo cosciente” (traduzione del suo thread conscious) che la conduce sino al labirinto delle Corderie di oggi. Filo che inizia a dipanarsi sino dalla sua prima età quando sua madre le insegnò a cucire e la nonna a tessere e ricamare e passando per i suggerimenti della moglie di Albers e di un suo impiego in Europa presso una ditta tessile arriva sino alla sua più matura attività artistica. Seguendo il suo “filo conscio” l'artista ha avuto il buon senso di sposare un ricco allevatore e poi il buon gusto di fuggire in Europa dove ha vissuto con un artista surrealista che l'ha introdotta nel mondo delle avanguardie. Ciò che differenzia la Hicks dai rigidi e rigorosi schemi astratti dei suoi maestri delle avanguardie è la maggiore morbidezza e l'uso dei domestic mediums, materiali di uso domestico, forse ispirata dalla materia che alle femminucce si insegnava a scuola ai miei tempi col titolo di “economia domestica”. Beh, tutto è arte no?
La Hicks ha avuto anche il buon senso, poi, di farsi fare nel 1974 un bellissimo e ricco catalogo da Levi Strauss, non l'antropologo Claude, ma Monique, sua terza moglie, esperta di tessuti e famosa per il suo testo fondamentale sulla storia del Cashmere, che la celebrò lodando la sua “arte tessile”. Storie di mogli, di amici, di salotti giusti – buoni, anzi buonissimi – come quello di Massimo Minini dove ho avuto il piacere di incontrarla.
Sì, l'arte sarà anche dolcezza e consolazione, ma è soprattutto lotta con sé stessi e il mondo, non solo morbidi cuscini su cui accoccolarsi. Sarò un po' misogino, sì, ma perché una donna se fa l'artista deve essere morbida, dolce, tutta casa e famiglia e srotolare gomitoli, tendine, “beli tapeti”, fili, filamenti, filati, gomitoli per gatti e un esposizione d'arte divenire luogo dove fare bella mostra di sé e rivelarsi felici ricamatrici da corso di dopolavoro o dei mitici negozi Singer?
Donna non è solo la casalinga annoiata che in attesa del marito ricama o al massimo fa shopping o un corso di dottrine orientali.

Altre cose

Per fortuna non tutta la Biennale si risolve nella parte affidata a un curatore; spesso i padiglioni nazionali e le attività collaterali sparse in Venezia salvano l'anbaradan. Quest'anno, con una certa difficoltà, vista la stupidità di alcuni eventi. In testa l'immensa insulsa provocatoriamente costosa mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable del vecchio imbalsamatore Damien Hirst che occupa Palazzo Grassi e la Punta della Dogana e fortemente voluta dal miliardario della moda François Pinault. Hirst dopo aver visto crollare il valore dei suoi squali, vitelli, caproni o altri animali sezionati e imbalsamati sotto vetro che marciscono tra esalazioni pestilenziali per la rabbia impotente degli stupidi collezionisti, rilancia tutto con enormi sculture di bronzo falso-ellenistiche che spudoratamente continua a dichiarare resti di un antico naufragio nel Mediterraneo. Opere ancora più ingombranti e costose di prima. Assolutamente da non vedere, basta un'occhiata su internet per farsi due risate.
Mentre è assolutamente da vedere la raffinata esposizione di Pablo Echaurren Du Champ Magnétique nella appena restaurata Scala Contarini del Bovolo, la più bella scala del mondo. Nei locali adiacenti alla scala sono esposti lavori di Echaurren che interpretano le opere di Duchamp e nella loggia che sormonta la torre, innanzi ad uno spettacolo mozzafiato di Venezia, un orinatoio duchampiano, una fontana decorata alla maniera potente ed evocativa di Echaurren.
Tornando ai Giardini, il padiglione inglese – timore forse della brexit? – è quello che si allinea meglio con il tema scelto dalla curatrice e si presenta sin da lontano invaso da belle grandi “palle colorate”, che la stessa artista Phyllida Barlow definisce “le mie belle colorate palle di natale”, all'interno finte rovine classiche ed architetture fatte con stracci, gommapiuma e assi di recupero, tutto coloratissimo! L'installazione si chiama Folly, termine che in inglese oltre allo stato di eccitazione mentale contraddistingue anche una decorazione architettonica stravagante. Belli anche i soliti padiglioni, quello cinese, russo, francese e tedesco, che quest'anno vince meritatamente il premio della giuria. Sotto la media la Corea e deludente il Giappone. Sorprese anche in molti piccoli padiglioni nazionali, uno per tutti quello della Lituania, compatto nell'esposizione What can go wrong, dell'artista Mikelis Fisers curato da Inga Steimane, che tra dipinti, disegni e installazioni ci trasporta in un nero mondo magico notturno e spaventoso, per Fisers “l'artista contemporaneo sceglie l'esoterismo” come indispensabile forma di espressione e comunicazione. Da vedere.

Sarah Revoltella distrugge le armi in ceramica
durante la performance Io combatto

Scappo in traghetto...

Sulla riva del bacino dell'Arsenale in attesa del traghetto ho approfittato per ottenere un freesa, un free visa, un visto gratuito e universale per viaggiare in tutto il mondo emesso da un improbabile ufficio doganale allestito da reali immigrati nordafricani che godono provvisoriamente di un visto turistico mensile: si tratta della performance 'Absence of Paths', della curatrice Lina Lazaar della delegazione tunisina che vuole ironicamente sottolineare la tragedia della migrazione auspicando un mondo senza frontiere. Un momento di sollievo dalla banalità circostante, subito ristabilita dalla ridicola processione che avviene accanto dove l'artista nigeriano Jelili Atiku appare su un cavallo bianco nel giardino delle Vergini, seguito da una processione di leggiadre – e un po' annoiate e paesane – figuranti vestite con lunghi abiti rosa da principesse arrivate un po' impacciate con numerose barche. Il sogno tutto femminile e piccolo borghese del principe azzurro si rinnova! Il sogno di ogni brava fanciulla da marito!
Scappo in traghetto verso gli edifici da poco restaurati alle Tese dell'Arsenale Nord per assistere ad una delle performance più interessanti anche se minori: Io combatto, una performance diffusa di Sarah Revoltella interpretata in diretta oltre che dalla protagonista nello stesso momento, il 12 maggio alle ore 17.30 da altri collaboratori a New York, Mosca, Karachi, Istambul, Parigi, progetto assolutamente no profit possibile grazie alla collaborazione ed alla condivisione di tutti i suoi partecipanti.
La performance prevede che l'artista descriva caratteristiche e modi di utilizzo di una serie di differenti armi da fuoco disposte a terra, dopo averle sollevate e mostrate al pubblico per poi frantumarle in mille frammenti. Dietro alla performer, i video delle altre azioni similari eseguite in contemporanea negli altri paesi moltiplicano l'effetto dirompente. Sono riproduzioni realistiche di armi di ceramica, sculture iperrealiste, fragili, inoffensive e belle. Rimangono solo frammenti e macerie evocative. L'ultima azione della performer consiste nella raccolta minuziosa di tutti i frammenti che verranno poi interrati nel prato adiacente in fronte alla laguna, tracce simboliche di morte e distruzione che, grazie all'arte, potrebbero rinascere a nuova vita come semi di altro.
Finita la performance fuggo finalmente dalle Tese da una porticina adiacente al prato e me ne vado verso la mitica Celestia.
Cara Biennale, quest'anno, per la prima volta, non mi rivedrai tornare a curiosare.

Franco Buncuga