Rivista Anarchica Online





Storia (1870-1926)/
Sapessi com'è strano essere anarchici a Milano

Dal coacervo delle grandi correnti risorgimentali e operaiste prende forma l'identità e l'antropologia degli anarchici. Grande città con forti connotazioni borghesi, riformiste e proletarie, socialmente e politicamente irrequieta, laboratorio culturale a vocazione mitteleuropea, la Milano “sabauda” dell'età liberale si conferma quale formidabile punto di osservazione per raccontare l'Anarchia e i suoi protagonisti, per farne rivivere miti, speranze e sogni rivoluzionari.
Fausto Buttà, storico professionale e ricercatore all'università del Western Australia, ha fino ad ora rivolto in prevalenza la sua attenzione di studioso proprio alle vicende otto-novecentesche dell'anarchismo milanese (Anarchici a Milano (1870-1926) storie e interpretazioni, Zero in Condotta, Milano 2016, pp. 368 + ill., € 20,00). Questa è infatti la sua seconda importante monografia (che segue Living Like Nomads, edita nel 2015 e dedicata al medesimo argomento). Nel nuovo libro l'autore, da vero specialista, ha saputo ben focalizzare, all'interno di un impianto narrativo convincente, non solo le “storie” ma, almeno in qualche misura, anche le “interpretazioni”, così come promette il sottotitolo.
Benché la dimensione spaziale dell'ambito complessivo di ricerca prescelto possa apparire circoscritta, tuttavia i risultati mettono in evidenza efficacia e profondità dell'approccio che è stato seguito. Si tratta di una metodologia basata sull'incrocio delle biografie, sull'inquadramento della trattazione per mappe ideologiche, sull'utilizzo – soprattutto – di una visuale davvero transnazionale. È bene sottolineare come tutto questo rispecchi l'evoluzione ultradecennale di una storiografia, quella appunto sull'anarchismo, che, superate ormai le vecchie colonne d'ercole del militantismo e del localismo, è finalmente approdata alla sua fase virtuosa. In tal senso lo stesso Buttà premette di essersi metodologicamente ispirato, per quanto riguarda l'influenza dei contesti transnazionali nella storia dei gruppi anarchici locali, ai lavori di Davide Turcato (apprezzato studioso, conosciutissimo in area anglofona, curatore fra l'altro dell'Opera omnia di Errico Malatesta, in corso di pubblicazione).
“Gli anarchici milanesi risposero ad avvenimenti traslocali producendo esperimenti pratici originali di anarchismo in azione [...] Nel rispondere col proprio attivismo a eventi locali, nazionali e internazionali, il movimento anarchico milanese dimostrava la sua determinazione a superare la propria apatia politica, causata dalla repressione e dalle lacune interne.” (p. 14).
Le fonti compulsate, davvero qualificate e ricche, coprono un ampio spettro: dal fondo Questura alle carte della Prefettura e alle sentenze penali presso l'Archivio di stato di Milano; dal Casellario politico centrale ai vari fondi PS dell'Archivio centrale dello stato; dalle testate giornalistiche coeve ai saggi e alle copiose fonti di letteratura. Il menù del libro costituisce di per sé una “mappa” in sequenza delle presenze libertarie nel capoluogo lombardo, dall'epoca postunitaria fino al consolidarsi del fascismo-regime: internazionalisti, organizzatori, individualisti, anarchici, educatori libertari, sindacalisti, antimilitaristi, rivoluzionari del dopoguerra, antifascisti. Le varie componenti appaiono ben bilanciate, mentre si ridimensiona il peso della corrente individualista che una certa vulgata avrebbe da sempre indicato come la dominante rispetto a quella malatestiana anarco-comunista.
Nell'arco temporale considerato, peraltro sufficientemente lungo, si registrano eventi e situazioni peculiari che fanno di Milano e del suo territorio un vero epicentro politico e un catalizzatore socioculturale di portata nazionale e oltre. Si pensi, ad esempio, alle cannonate di Bava Beccaris e alle revolverate di Bresci; si pensi alla scapigliatura letteraria e alle avanguardie artistiche primonovecentesche, alle riviste anarco-futuriste e individualiste che nascono in città; si pensi al peculiare sindacalismo corridoniano che vede la luce proprio nel milieu operaio meneghino; si pensi al terribile attentato al teatro Diana e ai suoi sventurati effetti.
Da sempre capitale italiana ed europea del giornalismo, nel giro di pochi anni vede susseguirsi – nel proprio ambito urbano – due direttori di quotidiani proletari di grande notorietà: il socialista Mussolini con l'«Avanti!» e l'anarchico Malatesta con «Umanità Nova». Prima ancora, nella parabola che va dal bakuninismo all'individualismo, avevano visto la luce «Gazzettino Rosa», «Il Martello», «L'Amico del Popolo», «Il Grido della Folla», «La Protesta Umana». Tra i protagonisti che popolano la Milano anarchica e libertaria (e il libro di Buttà) sono senz'altro da rammentare anche Pietro Gori, Leda Rafanelli, Giuseppe Monanni, Carlo Carrà, Filippo Corridoni, Bruno Filippi...
Condivisibile infine l'analisi dell'autore sul primo antifascismo (“lotta di sopravvivenza” più che “sogno rivoluzionario”). Nell'attentato al Diana poi si individua “una linea di separazione nella storia dell'anarchismo milanese e italiano”.
Più problematico invece si dimostra l'esame sui destini e sul futuro stesso dell'Anarchia. Buttà, nelle conclusioni (p. 316), individua – sebbene con un ragionamento forse eccessivamente semplificato e sbrigativo – le ragioni dei fallimenti e della “principale debolezza” dell'anarchismo proprio nella contraddittoria ricchezza del suo pensiero, nella sua incapacità a rimodellarsi sui nuovi parametri della modernità incombente. Ossia il Novecento, secolo per antonomasia delle masse nel quale si era palesata l'assoluta necessità di un rapporto continuo ed emozionale tra capi e soggetti subordinati, si dimostrava assolutamente inadatto a chi, in maniera quasi anacronistica, sembrava rifiutare a priori perfino l'idea stessa di leadership.

Giorgio Sacchetti


Una fiaba/
Una bimba di 7 anni, un toro marchiato 2896, un albero e altri animali

Immagineresti un mondo senza animali?

Socrate è stato filosofo nell'antica Grecia dove, per comprendere lo stato delle cose, era solito dialogare coi suoi allievi su problemi d'importanza morale.
Socrate – nel piccolo libro scritto da Margherita D'Amico (Socrate 2896, Bompiani, Milano 2016, pp. 87, € 13,00) – è un toro da riproduzione marchiato col numero 2896, che dialoga, nel breve tempo di una notte, con una bambina, un albero e altri animali. Una storia breve e poetica che inizia e finisce nel macello dove la vita del toro avrà termine. La bambina si chiama Lucilla, ha sette anni, come il toro, e si conoscono dalla nascita poiché abitano nella stessa fattoria. Lucilla, bambina dall'intelligenza speciale, comprende il silenzioso linguaggio di animali e piante che la destinano ad essere loro portavoce verso l'umanità a cui lei appartiene, le affidano il loro messaggio per la salvezza.
“(...) Voglio immaginarti vittoriosa nel ricordare all'uomo lo strumento per vivere in un cane o nella rosa nella polvere, nel vento libera il messaggio priva di timore taciterai i perché ti parlo senza rumore e tu parlerai per me.”
Un libro sull'evidente violenta assurdità di ciò che sta accadendo, a causa del comportamento umano, che mi ha immediatamente riportato alle immagini di un Pulcinella vestito di bianco che cammina, cammina attraverso la campagna, alla ricerca di una collocazione per un piccolo bufalo che si porta appresso. Sono immagini di Bella e perduta il bellissimo film di Pietro Marcello che documenta la storia del pastore Tommaso Cestrone il quale per anni, fino alla morte, dedicò la sua esistenza alla salvaguardia dell'abbandonata Reggia di Carditello, in quella, una volta meravigliosa, provincia di Caserta oggi tristemente nota come “terra dei fuochi” per via della devastazione che la distrugge.
Tommaso Cestrone recuperava anche i piccoli bufali – maschi e quindi non utili per la produzione di latte – abbandonati con le zampe legate in mezzo alla boscaglia e li teneva nella stalle della reggia. Il film, seguendo il procedere fantastico delle fiabe, racconta che dopo la sua morte fu affidato a un pulcinella il compito di trovare alloggio per il bufalotto Sarchiapone la cui voce fuori campo accompagna chi sta guardando il film.
Se Bella e perduta si riferisce al nostro paese – quella patria di cui canta l'inno di Mameli e sulla quale si è abbattuta la malasorte –, gli stessi aggettivi potrebbero riguardare l'intero pianeta che la medesima sorte subisce. La possibilità di aiuto, se non di salvezza, nel libro come nel film, è affidata a chi è in grado di comunicare all'anima; non a caso una bambina e un pulcinella, figure simboliche che fanno da tramite tra noi e l'invisibile.
Il libretto in questione non raggiunge certo la levatura del film, ma sicuramente ci sono affinità: come facessero entrambi riferimento a una favola di Esopo o Fedro; ad esempio, hanno in comune la poetica degli animali parlanti e saggi, ed entrambi sottendono il pensiero che i guai nei quali ci troviamo vengono da una malattia dell'anima che tutti patiamo, ma che ancora può, o potrebbe, essere curata. Da parte di animali e piante a una figura bambina è affidata la luminosa chiave capace di mutare il destino dell'umanità e del pianeta.
Come tutte le fiabe si legge senza soste e delle fiabe possiede l'efficacia lieve; pur denunciando le stesse cose di animalisti, antispecisti ed ecologisti lo fa senza pressioni invadenti, lascia il segno senza farsi accorgere, ed è un grande pregio.

Silvia Papi


Note autobiografiche/
I vicoli di Ragusa, i ricordi, l'umanità, l'impegno anarchico

C'è chi scrive per diletto, chi lo fa per vanità, alcuni per soldi. Sembrerebbe che Gurrieri non scriva per nessuno di questi motivi. Lo fa piuttosto perché ci sono cose che hanno bisogno di essere raccontate, messe su carta, stampate, trasmesse. Infaticabilmente su Sicilia Libertaria, parsimoniosamente nei pochi (non pochissimi) libri pubblicati tra i quali ultimo arriva questo Le verdi praterie. Passato e presente (Sicilia Punto L edizioni, Ragusa, 2017, pp. 124, € 8,00) un titolo ostico che fa pensare a un romanzo sul selvaggio west che invece non c'entra niente.
Come sottolinea l'autore non si tratta di una vera autobiografia – anche perché far stare tutta l'intensa vita di Pippo Gurrieri in poco più di cento pagine sarebbe stata impresa davvero ardua – ma “una raccolta di ricordi, discontinui, incompleti, non sempre lineari”. Premessa eccessivamente cauta in quanto il risultato è invece una narrazione tutt'altro che irregolare ma dotata, al contrario, di una solida coerenza interna, risultato di idee chiarissime e di uno stile asciutto ed essenziale ma niente affatto arido. Anzi, siccome la storia c'è – le storie ci sono – la sobrietà della scrittura permette di percepire forte e limpido il dipanarsi di un trascorso che parte dai vicoli di Ragusa e arriva dall'altra parte dell'Italia, sulle montagne piemontesi, a mezzo metro dalla Francia. E poi ritorna giù, dove sta Tunisi, solo un po' più a destra.
Avete presente un nostalgico? Quelli che “com'erano belli quegli anni là che eravamo tutti rivoluzionari e capelloni”? Nulla di più distante da quello che si trova ne Le verdi praterie, dove molto spazio è dedicato alla Ragusa dei primi anni sessanta vista dagli occhi di un bambino, viva, accogliente, piena di scoperte alle quali dedicarsi ma anche povera e aspra (la storia del gatto che cacava nel posto sbagliato non ve la racconto per non rovinarvi la lettura - per non spoilerare, direbbero i giovani d'oggi). Retorica non pervenuta, senso dell'umorismo brillante e spassosa autoironia sempre dietro l'angolo rendono la lettura lieve e appassionante anche quando gli argomenti trattati sono macigni - come gli incidenti sul lavoro.
È una storia personale, certo, ma anche collettiva, generazionale e a suo modo epica e condivisa. Chi ha avuto la sorte di nascere e crescere in paesi o cittadine del sud non potrà evitare di trovare somiglianze o diversità e di sentire che in fondo ciò che ti lega alle tue radici e magari ti spinge altrove è roba fatta della stessa materia. Nel graduale e continuo espandersi di quel mondo che da uno “spicchio di quartiere” si proiettava verso l'universo esterno c'è un guadagnare e un rimetterci. L'allontanamento dalla chiesa, l'attivismo per il partito comunista del quale il padre Angelo era elemento di spicco a Ragusa, assieme ai piccoli miracoli del '68 come la proiezione gratuita di Helga, un film commissionato dal ministero della salute tedesco capace di svelare reconditi misteri della riproduzione umana, sembrano tutti passi verso l'incontro fatale con i due hippy francesi, veri anarchici sessantottini.
Al Gurrieri sedicenne toccò di fare da traduttore, “solo che quelle parole che mi entravano nelle orecchie poi non ne uscivano facilmente”, e infine andavano accompagnati da Leggio che gli consigliò un libro sull'anarchismo di Daniel Guerin – “e la frittata fu fatta”. Al contempo, individualmente e socialmente, andavano avanti il lavoro, lo sviluppo economico, l'emigrazione – ma non quella da fame della generazione precedente, si andava via per aver vinto un concorso, quello di Gurrieri nelle ferrovie (attività orgogliosamente rivendicata, nonostante a qualcuno non piaccia). Si acquistava indipendenza, chissà, forse libertà, si facevano via via più lontani gli anni in cui la carne era preziosa e arrivavano quelli delle lotte per il miglioramento delle condizioni lavorative.
L'altra faccia della medaglia era la perdita progressiva di quel “microcosmo di umanità” che viveva di scambi, di solidarietà, di litigi, dove non c'erano schermi ai quali stare incollati, ma gente in carne e ossa che condivideva il quotidiano. Un mondo ormai scomparso o quasi, che Pippo Gurrieri fa rivivere con amore e senza sentimentalismi attraverso il mezzo che gli è più congeniale, capace di farci sentire gli odori e i rumori di via Pezza e di tutto ciò che cospirò affinché il bambino che nella banda dei Garibaldini era l'unico soldato semplice diventasse quel rivoluzionario maniaco di libri che tutti conoscono (o dovrebbero conoscere), incessantemente all'opera per riuscire a fare, come fece con lui Franco Leggio, molte altre frittate.

Giuseppe Aiello


Ferlinghetti e gli altri/
Gente che voleva abolir le frontiere

24 ore Cultura ha recentemente pubblicato, di Matteo Guarnaccia, Hippy Revolution – storie e avventure della Summer of love, 1967 – 2017 (Milano 2017, pp. 158, 19,90). Il Saggiatore ha pubblicato, a sua volta, di Lawrence Ferlinghetti, Scrivendo sulla strada – Diari di viaggio e di letteratura (Milano 2017, pp. 464, 42,00) All'autore del primo libro, e grande esperto di Beat Generation & dintorni, abbiamo chiesto 5.000 battute spazi compresi, libere in tutti i sensi. E Matteo ci ha inviato questo testo.


Nel turbolento lasso di tempo compreso tra la guerra di Corea e quella del Vietnam, gli anni della “perdita dell'innocenza”, una serie di sottili libretti stampati da una piccola casa editrice di San Francisco, contribuirono, in maniera decisiva, ad alimentare i dubbi e le visioni di una generazione di giovani ribelli che si era svegliata di soprassalto dal sogno americano.
La lettura di quei piccoli austeri gioielli cartacei, rigorosamente in bianco e nero, faceva parte del curriculum di ogni sovversivo e sognatore del periodo. La casa editrice si chiamava - in omaggio al famoso film di Charlie Chaplin - City Lights, ed i suoi “uffici” si trovavano nell'omonima libreria del quartiere bohemien di North Beach, San Francisco, tra vecchi bar italo-americani.
Le scricchiolanti assi del pavimento del City Lights Bookstore - diventato una sorta di avamposto del dissenso - erano incessantemente consumate da poeti, curiosi e poliziotti allarmati dall'offerta di opere “proibite”. Beatnick e altre creature arruffate, cercavano sollievo e carburante psichico rovistando nel catalogo della City Lights che offriva ospitalità a Céline e a Buddha, a Ghandi e Lautremont, ma il cui piatto forte erano le opere degli esponenti della beat generation, di cui l'editore-proprietario, un ex militare della marina, un brillante poeta di origine italiana Lawrence Ferlinghetti, era sodale e amico.
La famosa foto di gruppo degli artisti e poeti beat e proto-hippie, scattata da Larry Keenan nel 1965, davanti alla libreria che lo ritrae - vestito con una djellaba marocchina - nell'atto di proteggere tutti sotto un ombrello, è una perfetta rappresentazione simbolica del ruolo da lui svolto in quella comunità artistica e esistenziale.
Nel 1957, la pubblicazione dello “scandaloso” e amabilmente osceno Howl di Allen Ginsberg, trasformò il coraggioso editore in un bersaglio della legge. Lui venne arrestato e trattato come un delinquente, l'opera sequestrata e il processo che seguì segnò la storia della giurisprudenza statunitense in merito al concetto di libertà di espressione.

Luoghi ed eventi della San Francisco Beat. Disegno di Matteo
Guarnaccia dal suo libro Hippy Revolution

La libreria City Lights a North Beach nei primi anni '60.
Disegno di Matteo Guarnaccia dal suo libro Hippy Revolution

Oggi Ferlinghetti è un pimpante e affascinante signore di novantotto anni, un artista dagli occhi che ridono, che non ha ancora appeso al chiodo la sua voglia di “sovvertire il paradigma della realtà dominante”, di abbandonare quella guerriglia poetica che i beat intrapresero per salvare “quel mandorlo fiorito e quell'orrore per la guerra che albergano in ogni cuore d'uomo”. È uno degli ultimi superstiti di quel gruppetto di disadattati, di amici strampalati, beati e sbattuti - Allen Ginsberg, Gregory Corso, William Burroughs, Jack Cassady, Gary Snyder, Peter Orlovsky - che alla fine della Seconda guerra mondiale, guizzando selvaggiamente controcorrente, si era messo in testa di celebrare la vita, sfidando l'american way of life armato solo di poesia e faccia tosta. Una confraternita letteraria che si è inventata uno stile di vita leggendario capace di stregare le menti di milioni di persone, divenuta senza volerlo, portabandiera della ribellione contro la segregazione razziale, il militarismo rampante, i diritti civili negati alle minoranze etniche e sessuali, la caccia alle streghe maccartista, la devastazione della natura, la scelta tra il morire di noia o di olocausto nucleare.
Gente che voleva abolire le frontiere, i controlli, la distanza tra gli esseri umani. Ferlinghetti lavora ancora dalla sua libreria, contro il clima di paranoia e sospetto che inquina i rapporti quotidiani e che, oggi come negli anni Cinquanta, è in larga parte da addebitarsi alla politica dell'amministrazione guidata dal “Grande Padre Bianco che sta nella Casa Bianca”. L'arsenale poetico di Ferlinghetti, si poggia non solo sulla parola scritta ma anche sulla forza disarmante della sua produzione grafica e pittorica.

Chi non si ricorda degli appunti visivi che costellavano le sue opere della City Lights, come “Her” o “The Mexican Nights”? Schizzi asciutti che rimandano agli stilemi della tecnica pittorica zen, così amata da tutti gli scrittori della beat generation. Ideogrammi allusivi, che vibrano ancora del gesto che li ha composti e che fanno inevitabilmente venire alla mente i grandi tazebao della rivoluzione culturale cinese (anche se la sua rivoluzione culturale è stata sicuramente più gioiosa e pacifica). Fluidi ideogrammi alati, eloquenti come vessilli barbarici issati dopo un'aspra battaglia. Odorano di preistoria e luci al neon; posseggono la forza destabilizzante dei saluti lasciati col rossetto da amanti clandestini sullo specchio di un motel anonimo.
L'inesausta energia emotiva del poeta, ancora oggi ci spinge, con ferma gentilezza, a seguire Basho e Coltrane a spasso per Coney Island. La sua poesia generosa ha contribuito a posticipare la fine del mondo – anche se solo per il tempo di un'altra lettura e di un altro scarabocchio in barba ad ogni assurda interdizione. E ogni giorno, sorridendo con gli occhi, Lawrence Ferlinghetti continua a tenere accese le luci della città.

Matteo Guarnaccia


Joan Puig Elias/
L'educatore dimenticato

Se Francisco Ferrer i Guàrdia è personaggio universalmente noto (non foss'altro che per la sua tragica morte) un educatore libertario del calibro di Joan Puig Elías era fino ad oggi praticamente sconosciuto persino negli ambienti libertari, in Italia e non solo.
A colmare questo vuoto è giunta oggi la documentata ricerca di Valeria Giacomoni, Joan Puig Elías: Anarquismo, pedagogía y coherencia (Descontrol, Barcelona, 2016 pp. 265, € 10,00).
L'autrice ricorda di essere stata stimolata a questa ricerca da Abel Paz (Diego Camacho), che di Puig Elías era stato allievo entusiasta alla “Escuela Natura” del Clot, un rione di Barcellona, e che si meravigliava che nessuno, fino ad allora, si fosse occupato della sua figura.
Dal libro apprendiamo che “una delle caratteristiche fondamentali di Puig Elías” era proprio quella di voler mantenere un basso profilo personale, di “pasar desapercebido” (passare inosservato), “questa volontà di non richiamare l'attenzione, di non fare grandi proclami, di non fare direttamente propaganda ideologica ma di considerare l'anarchismo come un modo di vivere e cercare di trasmetterlo con l'esempio, con la coerenza, giorno per giorno” (p. 51)
Proprio la credibilità conquistata sul campo fanno sì che dopo la rivoluzione del luglio 1936 gli venga affidata la direzione del CENU (Consell de l'Escola Nova Unificada) che estende la pedagogia libertaria a tutte le scuole catalane. La stima universale verso di lui non viene meno neppure dopo i sanguinosi scontri, provocati dagli stalinisti, del maggio 1937.
Sintomatico un episodio emerso durante la presentazione del libro alla libreria La Rosa de Foc di Barcellona (20 aprile 2017).
Uno dei presenti ha ricordato che suo padre, maestro in pensione e “liberale di destra”, allo scoppio della guerra civile aveva ripreso a lavorare collaborando con entusiasmo al progetto pedagogico di Puig Elías, e anche negli anni seguenti dichiarava (pur non avendo modificato la propria fede politica) che “se si fosse presentata un'altra rivoluzione del genere vi avrebbe senz'altro partecipato”.
Puig Elías è stato un maestro prima di tutto. Sconvolto dalla condanna di Ferrer, decide ancora bambino di dedicare la propria vita all'insegnamento, ma dal libro emerge anche l'originalità della sua proposta pedagogica, che, se parte da Ferrer, va ben oltre attribuendo un ruolo basilare, oltre che alla “razionalità”, anche all'aspetto socio-affettivo, alla centralità del bambino, all'educazione a diretto contatto con la Natura. Si passa così dalla “Escuela Moderna” alla “Escuela Natura”.
La storia del maestro anarchico diventa però storia corale del movimento libertario, che l'autrice ricostruisce passo passo, perchè dalla ricerca emerge l'assoluta internità di Puig Elías alla CNT, dalla sua adesione ancora giovinetto, alla rivoluzione, all'esilio, ricoprendo sempre incarichi organizzativi (anche di rilievo).
Emerge anche la maturità della CNT che, fin dall'inizio del secolo, aveva compreso la centralità del tema educativo per forgiare una società rivoluzionaria.
La stessa scuola del Clot di Barcellona (divenuta dopo il 1921, sotto la direzione di Puig Elías, “Escuela Natura”) era una creazione della CNT del quartiere, ospitata in locali confinanti con la sede sindacale. Dai ricordi degli allievi emergono importanti squarci delle lotte di quegli anni: le discussioni tra i figli dei carcerati politici, l'espediente utilizzato dagli insegnanti di tenere chiusa la scuola in occasione di moti rivoluzionari con il pretesto che fosse un giorno “festivo”, l'arrivo a scuola dei figli degli scioperanti di Saragozza ospitati dalle famiglie operaie di Barcellona (1934), il continuo andirivieni di compagni che devono parlare col maestro, Federica Montseny che giunge improvvisamente a scuola a chiamare Puig Elías: García Oliver è stato arrestato con un carico di bombe (1933) e si teme per la sua vita...
Il 19 luglio 1936 Puig Elías, membro del Comité revolucionario del Clot, partecipa attivamente alla lotta sulle barricate. Sono Durruti ed Ascaso a convincere lui e gli altri insegnanti a lasciare il fucile per dedicarsi ad un'opera ancora più importante: l'educazione delle giovani generazioni.
Qui inizia la storia del Consell de l'Escola Nova Unificada (a cui il libro dedica ampio spazio), composto da insegnanti e pedagogisti dei sindacati della CNT (libertari), UGT (socialisti) e della Generalitat (il governo autonomo catalano) che - sotto la direzione di Puig Elías - riorganizza completamente la scuola catalana.
A chi lo critica per i compromessi con organi statali risponde orgogliosamente che, grazie alla CENU, la pedagogia anarchica è diventata la base di tutto il sistema scolastico. Le polemiche sulla scelta “ministeriale” della CNT inducono comunque numerose scuole razionaliste a non aderire alla CENU.
I risultati conseguiti in pochi mesi sono impressionanti: 60.000 bambini in più scolarizzati, 151 edifici espropriati ed adibiti a scuole, insegnamento iniziale nella lingua materna (catalana o castigliana che fosse), formazione di un nuovo corpo di insegnanti, creazione di colonie scolastiche (per educare i bambini al contatto con la natura ma anche per sottrarli ai bombardamenti).
Puig Elías è infaticabile, è dovunque, sembra essere passato dal “pasar desapercibido” al “ponerse en primera lìnea” (p. 146). Ma dal giugno 1937 l'involuzione della situazione politica è evidente, col prevalere dei comunisti la “guerra antifascista” prende il sopravvento sulla rivoluzione. Anche la nomina di Puig Elías a Sottosegretario all'Istruzione Pubblica nel governo della repubblica (aprile 1938) sembra a chi legge una sorta di “promuovere per rimuovere”.
Con la vittoria di Franco iniziano i lunghi anni dell'esilio. L'autrice ripercorre le vicende dei 30 bambini della colonia scolastica “Mon nou” (Mondo nuovo) animata da Emilia Roca (anche attraverso il carteggio tra la Roca ed Emma Goldman) prima nei Pirenei a 3000 m. di altitudine, poi nell'esilio francese. Anche in Francia Puig Elías è infaticabile, dopo aver partecipato alla Resistenza nel battaglione “Libertad”, composto da anarchici spagnoli, ricopre ancora importanti incarichi organizzativi nella CNT.
Dal 1952 si trasferisce a Porto Alegre, in Brasile, dove suo figlio Floreal progetta di creare una Comune. Sono anni durissimi punteggiati dalle difficoltà economiche e dalla persecuzione della chiesa che riesce ad impedire a Puig Elías di esercitare l'insegnamento, infine dalla malattia. Questo non impedisce al maestro anarchico di proseguire nell'impegno pubblicando, due anni prima di morire, il suo unico libro: El hombre, el medio y la sociedad. Los factores determinantes de la conducta del individuo, Porto Alegre, Grafica Editóra Vértice, 1970.
Con la speranza di vedere presto una versione italiana del libro di Valeria Giacomoni concludiamo queste note ricordando il giudizio di Emma Goldman sulla rivoluzione spagnola: “La vostra rivoluzione distruggerà per sempre [l'idea] che anarchismo voglia dire caos” (p. 204).

Mauro De Agostini


L'album “Mare nero”/
Alessio Lega, un narratore di storie in musica

Mare Nero” è l'ottava uscita discografica del cantautore pugliese Alessio Lega, la terza 'd'autore': sono quasi tutte canzoni sue, fatta eccezione per “Fiore di Gaza” di Paolo Pietrangeli e “Hanno ammazzato il Mario in bicicletta” di Dario Fo  e Fiorenzo Carpi; due cover niente affatto slegate dal filo che tiene insieme gli altri brani di questa opera. Ci viene spiegato che non si tratta di un Concept Album, ma di un disco fatto con canzoni a cui non si era riusciti ancora a dare un abito sonoro adeguato per un'incisione, oppure con brani rimasti fuori da precedenti lavori discografici e con pezzi che per loro natura erano nati per restar “solitari”.
Lega ci tiene proprio a ribadirlo: si tratta di “avanzi”, come quelli del pranzo della domenica, rielaborati in una nuova pietanza da una mamma, o magari, perché no, da un qualche chef di grido; in effetti l'uomo ha sempre dato molta importanza al cibo, ma in un altro tempo e in un altro spazio mangiare era un rito sociale e significava sopravvivenza. In questo tempo e nel nostro quotidiano, mangiare è diventato molto di più: ovunque guardiamo, ci scopriamo circondati da carboidrati proteine e vitamine, siamo minacciati dai sali minerali che ci guardano dalle vetrine, siamo ottenebrati dai profumi dei forni e delle rosticcerie, come i canti delle sirene ottenebravano Odisseo... e purtroppo non abbiamo l'accortezza di legarci all'albero di una vela. Per questa volta allora potremmo provare a trovare una similitudine nuova. La migliore – quella più vicina in fondo all'anima di Alessio Lega – o almeno così ci appare – è quella della coperta. Una di quelle fatte a mano con gli avanzi dei gomitoli con cui venivano realizzate maglie, centrini, tendine, centrotavola, calzini, berretti per la notte. Di quelle coperte di tutti i colori, fatte a quadrettoni, a rombi, ad ovali. Proprio quelle che faceva la nonna.
“Mare nero” è un po' come quelle coperte calde, con cui ci si avvolge in certi pomeriggi d'inverno: l'effetto è quello delle madeleine proustiane, perché subito affiorano ricordi, storie e possibilità. E infatti Alessio Lega è un narratore di storie in musica; è un moderno cantastorie in piena regola e quella è proprio la sua dimensione migliore, nella quale riesce ad esprimere il meglio del suo pensiero e del suo cuore; quando Lega si esprime in forma canzone sa trovare la parola, che senza risultare minacciosa o pretenziosa o arrogante o definitiva, appare, molto semplicemente, vera. Di quella verità che sa di umanità, di giustizia, di condivisione e di solidarietà. E che sa anche di leggerezza, di quella particolare leggerezza delle cose serie e con la quale non sempre è facile trovare la misura.
Ogni persona creativa conosce l'elemento indispensabile per la sua personale forma di espressione. Con gli anni Lega ha affinato il suo e ogni volta diviene sempre più consapevole – è evidente – che può osare ed essere sfacciato, come il giullare che sbeffeggia il potente. Un giullare che non è stato invitato a Corte, naturalmente, e che non ci vuole nemmeno andare. Un giullare che il potere lo ammonisce e lo minaccia sotto le finestre, cantando ad altissima voce.
C'è molto popolo dentro questo disco e anche molta ricerca. E c'è anche un'ottima direzione artistica, quella di Rocco Marchi e Francesca Baccolini; l'insieme – come in quella coperta di cui parlavamo prima – è un collage di suoni diversi e di rimandi musicali da tutte le parti del mondo.
Partiamo da “Mare Nero” perché è il brano più facile: è infatti un “modernissimo inno antico” all'anarchia e chi scrive si chiede fino a che punto Lega non si sia un po' divertito a giocare con il facile rimando canzonettistico e mogoliano che questo titolo porta immediatamente alla mente. Sappiamo bene però che questo pezzo - scritto molti anni fa (quasi venti) - è un cavallo di battaglia dei suoi concerti ed è importante che abbia finalmente trovato, non tanto la veste sonora per il disco, quanto il coraggio di metterci finalmente un punto (Verba volant Scripta manent).
Come pirata che solca il Mare Nero, al quale beninteso appartiene, il giullare cantastorie anarchico viaggia nel tempo e nello spazio, avvicinando storie di oggi, storie di ieri e anche storie dell'altroieri e di domani. La prima è personale, ma riguarda anche tutti noi; c'è sempre infatti una “Angelica matta” che si incontra al momento opportuno, quando il cuore e la vita sono affaticati e cercano salvazione; c'è gratitudine e amore in questo pezzo, raccontati con pudore e levità.
Ma è solo un inizio, perché l'ambiente sonoro del secondo brano “Povero Diavolo” muta all'improvviso e si incupisce, nell'incontro di chi Angelica non l'ha ancora incontrata o forse l'ha perduta all'inseguimento di risposte: è la storia inquieta di ogni artista, di ogni giullare, di ogni matto; in fondo, forse, è proprio la storia di Angelica.
O la storia di quell'amore finito a suon di marcetta raccontato in “Non sarai più sola”.
Ma ecco che il giullare abbandona i panni del clown triste e scende in strada a raccontare storie, quelle di sangue e prevaricazione che hanno colpito la povera gente, gli umili, i diseredati, quelli che mettono insieme coperte con gli avanzi dei gomitoli. Una storia poco nota: quella dell'uccisione a Lecce di tre manifestanti disarmati davanti alla Chiesa di Santa Croce. Era il 25 settembre del 1945. La guerra era finita. I lavoratori però cercavano di combattere per i loro diritti.
Lecce è la città natale di Alessio Lega, Milano quella d'adozione. In “Stazione Centrale” l'anima da contestatore del cantautore pugliese si svela totalmente, senza compromessi: la trasformazione della Stazione di Milano (come del resto di quasi tutte quelle delle grandi città) in un enorme centro commerciale nasconde in realtà il muoversi ostinato del pendolare, del lavoratore, della gente oscura travolta da una civiltà malata. L'andamento musicale accompagna in un crescendo di angoscia (quasi disperazione) l'immagine. È uno dei pezzi più potenti del disco. Più attuali. E se forse razionalmente la realtà è meno drammatica e più complessa, il dubbio arriva alle viscere.
Da Milano ci si trasferisce in Val Susa, la terra ormai nota solo per le vicende della Tav; La Val Susa diventa “Maddalena”, prigioniera; il giullare le fa una serenata, mentre il racconto si sposta dal passato lontano a quello appena recente; l'incedere è quello delle serenate o delle ninne nanne.
Non cantavano invece gli zingari quando venivano trucidati e gassati dai nazisti. Lo fa allora Lega nella ballata dal profumo balcanico “Porrajmos”; non cantavano nemmeno i vecchi le donne e i bambini gassati dagli Italiani andati ad occupare le terre e a fare guerra, come viene raccontato in “Ambaradan”. Perché si sa, noi gli africani li aiutiamo a casa loro.
Il disco si chiude con “Zolletta”, dedicata ad Enzo Baldoni, e con una gustosa “petizione” a favore dell'adozione di bambini da parte delle coppie omosessuali.
L'idea di fondo che rimane all'ascolto è che questo album sia molto amato da Lega: lo si capisce perché quella coperta di avanzi di gomitolo alla fine – e a sorpresa – si scopre essere un autoritratto, filato grazie anche all'apporto di musicisti di alto livello, quali Guido Baldoni, i produttori Rocco Marchi e Francesca Baccolini, Enzo Cimini, Rocco Rosignoli, Roberto Zamagna e Gigi Biolcati.
Ce li immaginiamo tutti vestiti come nelle bande di paese, sotto le finestre della bella Maddalena, prigioniera delle trivelle, di Angelica, prigioniera della sua pazzia, dei lavoratori, prigionieri dei padroni, del Povero Diavolo, prigioniero di se stesso. E non siamo preoccupati perché, fino a che qualcuno canterà, nessuno sarà mai davvero prigioniero.

Elisabetta Malantrucco


Ecologia/
Le proposte di Murray Bookchin e John Zerzan

Anarchia verde. Murray Bookchin e John Zerzan a confronto (di Marco Piracci, BePress, Lecce 2015, pp. 150, € 11,00) è un testo che oseremmo definire necessario; necessario perché, senza nulla perdere in quanto a profondità analitica, mostra con estrema chiarezza e semplicità le divergenze ma anche le complementarità intellettuali delle due figure maggiormente influenti nel panorama libertario contemporaneo.
Il testo di Marco Piracci si snoda partendo da una panoramica biografica dei due teorici, premessa fondamentale per comprenderne i rispettivi campi d'azione, per poi passare ad un approfondimento di tematiche quali la tecnologia e le società primitive che si collocano alla base delle differenti proposte politiche.
Ma proprio le proposte politiche rivestono un'importanza non indifferente in un momento storico nel quale il capitale opera in maniera pressoché incontrastata per riprodurre se stesso ed accrescersi, portandosi dietro disastri ecologici, povertà, diffuso senso di precarietà e disagi psichici.
Le proposte di Bookchin e Zerzan partono sostanzialmente da una diversa considerazione dello spazio. Il primo, come evidenzia molto bene Piracci, punta ad un suo rimodellamento tramite una radicale decentralizzazione. Così Piracci:

“Bookchin è convinto che il recupero dell'idea di democrazia partecipativa si concentri sulla rinascita delle assemblee cittadine, sia a livello municipale nei piccoli comuni, sia a livello di vicinato e di quartiere nelle città più estese.”1

È uno spazio vivo e dinamico quello concepito da Bookchin, uno spazio in grado di rivestire un ruolo decisivo all'interno di un processo rivoluzionario proprio in quanto premessa di un differente tipo di socializzazione e di politica:

“La municipalità è la sola area geografica entro cui può avvenire un confronto intellettuale ed emotivo.”2

Ciò che l'anarchico di New York City intravede tra le maglie sempre più stringenti e soffocanti delle metropoli contemporanee è la possibilità di invertire la rotta autodistruttiva che le società umane hanno intrapreso.

Non è però tutto da buttare quello che fin qui è stato realizzato. Bookchin stesso afferma come la città rappresenti quella premessa spaziale per un diverso concetto di humanitas, una humanitas finalmente universale. E l'evoluzione verso un'umanità più “organica” non può che coinvolgere anche il modo in cui l'umano, concepito come animale tra gli animali pur se con qualche vizietto idealistico3 – vizietto idealistico che Steven Best sottolinea puntualmente nel suo Liberazione totale4 –, si rapporta alla natura. La comunità finalmente ritrovata è un'eco-comunità perfettamente integrata e interagente con lo spazio che abita, ed essendo, questo, soggetto dell'evoluzione naturale, la comunità stessa intesa come società umana organica si reinserisce armoniosamente all'interno del processo evolutivo.
Se Bookchin quindi concepisce lo spazio civilizzato come soggetto di un possibile rimodellamento, Zerzan fa partire la sua proposta politica da un momento diverso e solo apparentemente antitetico:

“Zerzan è convinto che occorra innanzitutto intraprendere un processo di liberazione individuale dai pervasivi meccanismi del controllo sociale. Convinto che il potere si fondi sull'incapacità dei singoli di ribellarsi ai suoi dettami, l'anarchico statunitense sostiene che il primo passo verso la liberazione debba essere compiuto dalla singola persona.”5

Per Zerzan è quindi il corpo che occupa lo spazio e che lo determina a dover essere “rimodellato”. Lo stile di vita del singolo è, ad oggi, intrinsecamente distruttivo e soltanto la consapevolezza di questo fattore garantisce una minima possibilità di ribellione. Lo spazio urbano è perciò messo momentaneamente da parte in favore della difesa degli ultimi spazi naturali che l'industrializzazione non ha ancora inghiottito. Piracci riporta la cronaca di un evento emblematico, simbolo del processo di liberazione cui mira Zerzan:

“Ad esempio, nel territorio di Eugene nell'Oregon, dove vive Zerzan, alla metà degli anni Novanta si verificò un incontro tra persone unite dal desiderio di proteggere la natura. La riuscita azione di difesa della foresta di Warner Creek attrasse una folla di giovani disposti a lasciare le proprie città per andare a vivere in un villaggio dove le case erano costruite sugli alberi.”6

La difesa dello spazio incontaminato è fonte di un nuovo senso di appartenenza nei confronti della natura. Soltanto a partire da qui può svilupparsi un movimento collettivo di difesa e liberazione degli spazi urbani, come la difesa del sito archeologico nata dall'alleanza tra gli attivisti di Earth First! e la comunità degli indiani Mendota7. Nonostante il pensiero dei due teorici affondi le radici in premesse differenti, non per questo i due punti di vista sarebbero inconciliabili nel corso di un ipotetico processo di liberazione.

Piracci stesso mostra come, ad esempio, Zerzan sostenga “l'idea di coltura nei perimetri urbani che è un altro aspetto della transizione in termini pratici”8; coltura che necessariamente dovrebbe rifarsi ai dettami della permacultura la quale “riproduce sé stessa senza consumare i terreni”9 e che si trova perfettamente in linea con l'idea di Bookchin di un nuovo sodalizio evolutivo tra umano e natura fondato sul rispetto, la difesa e la valorizzazione dei cicli biologici ed inserito in un contesto in cui la distanza tra città e campagna si è assottigliata.
È perciò nella pratica che le due impostazioni, pur puntando ad obbiettivi divergenti, possono arrivare ad intrecciarsi e a costituire una forza antagonista realmente scomoda per il capitale e le sue dinamiche collaterali: l'individuo ha la possibilità di liberarsi e di modificare il proprio stile di vita arrivando ad incidere sullo spazio circostante tramite la difesa e il rimodellamento dello stesso ma è anche vero che le possibilità di liberazione individuale crescono laddove lo spazio ricade sotto il potere di autodeterminazione delle popolazioni che lo abitano e che quindi già operano processi rivolti ad una sua ridefinizione in senso ecologico e direttamente democratico.
“Anarchia verde” è perciò un testo di fondamentale importanza sia per quanto riguarda l'approfondimento del pensiero di due influenti personalità, sia per ottenere utili e fresche indicazioni pratiche che integrino, nella lotta allo Stato, al capitale e a tutte le forme istituzionalizzate del delirio antropocentrico, le lotte ecologiste in difesa degli spazi ancora vergini e la “ricostruzione” creativa e a forte impatto sociale di quelli oramai irrimediabilmente deturpati.

Danilo Gatto

  1. Cfr. M. Piracci, Anarchia verde. Murray Bookchin e John Zerzan a confronto, Edizioni Bepress, 2016, p.89
  2. Ibidem, p.94
  3. Cfr. M. Bookchin, L'ecologia della libertà, Elèuthera, Milano, 2010, p.488. In particolare Bookchin afferma: “Finchè l'umanità è stata libera di esprimere la soggettività della natura e i significati che sono in essa latenti, la natura stessa ha rivelato tramite l'umanità la propria voce, la propria soggettività, la propria fecondità.” In tal modo Bookchin non fa che ribadire l'assunto (specista) secondo il quale l'umano rappresenti il vertice dell'evoluzione e l'unica specie in grado di far parlare la natura tramite, ovviamente, i suoi attributi specie-specifici (razionalità, linguaggio, arte ecc...)
  4. Cfr. S. Best, Liberazione totale, Ortica Editrice, Aprilia, 2017, pp.165-169
  5. Cfr. M. Piracci, Anarchia verde. Murray Bookchin e John Zerzan a confronto, Edizioni Bepress, 2016, p.98
  6. Ibidem, p.100
  7. Ibidem, p.101
  8. Ibidem, p.105
  9. Ibidem, p.105


Antropologia/
I mille modi dell'abitare

Il ricco ha il tetto doppio. Così recita un detto andino, ricordandoci come spesso coloro che una casa la sanno costruire non hanno mai avuto un tetto proprio sulla testa; al contrario di altri, che invece ne possiedono una insensatamente grande. Realtà inconfutabile, e non solo nelle periferie sovrappopolate di una delle tante megalopoli latinoamericane. Sembrerebbe infatti esistere una tendenza inarrestabile a trasformare le città in anonimi spazi densamente urbanizzati, funzionali più alla perpetrazione di logiche di controllo e profitto che alla vita dei loro abitanti. Da un lato periferie cementifere, sovrappopolate e malsane; dall'altro, edifici lussuosi, giardini verticali e tutte le comodità concesse dal privilegio. Eppure, a dispetto di tale nocività, le città crescono costantemente e la maggior parte della popolazione mondiale vive o gravita intorno alle periferie di un grande insediamento urbano.
Uno scenario che sembra presagire una tendenza all'omogeneizzazione, all'isolamento, alla naturalizzazione di precise forme abitative, il più delle volte imposte. Discorso chiuso? Non esattamente. Esistono infatti realtà, dentro e fuori le città, che sovvertono queste logiche e intaccano l'idea di una presunta – e per molti auspicabile – uniformità, anche all'interno dei muri dell'Occidente benestante. Ciò avviene attraverso l'appropriazione di spazi collettivi, la creazione di esperienze abitative autonome e la valorizzazione di luoghi complessi che sfuggono alla ripetizione seriale, perché espressione di coloro che vi abitano.
Sono proprio queste realtà, veri e propri «avamposti d'ipotesi sociali», che Andrea Staid indaga nel suo libro Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente (Milieu edizioni, Milano 2017, pp. 182. € 14,90); e lo fa servendosi di una sensibilità etnografica che dialoga con i protagonisti, restituendo al lettore le voci di quanti oggigiorno animano esperienze che rifiutano l'omologazioni e disinnescano le pressioni normalizzanti.
Se l'abitare non è semplicemente l'atto di risiedere in un luogo, bensì un processo attivo di sperimentazione, allora la volontà di occupare e condividere uno spazio che chiamiamo casa – come raccontano alcuni occupanti a Milano, Barcellona e Berlino – oppure l'esperienza di autocostruzione usando mani e creatività – come per Lauren e Logan al Black Butte Center For Railroad Culture in California – acquistano una carica rivoluzionaria che si scontra con la cultura dominante sull'abitare.
Certo, non tutti i margini però sono uguali. E Staid lo precisa lucidamente, senza indulgere a facili romanticismi; bensì evidenziando come esista una distinzione fondamentale tra chi questi luoghi marginali li vive per scelta e quanti, invece, vi si trovano costretti, in attesa di attraversare una frontiera o confinati per necessità in un campo, come nella Jungle di Calais o nel Ghetto di Foggia.
Nonostante questa importante distinzione, sembra però esistere un comune e insopprimibile desiderio di autodeterminazione che avvicina realtà spesso diverse tra loro, e che si traduce nella costruzione condivisa di spazi significativi in grado di rinnovare continuamente se stessi, rifiutando in modo radicale la cristallizzazione e sovvertendo ogni ordine formale.
É Sandy, che risiede in un campo rom e sinti a Pavia, a spiegare con estrema efficacia come l'animato dibattito circa le strategie più efficaci di inclusione sociale non possa prescindere da una ridefinizione del concetto stesso di abitare. La vita del campo mette spesso in luce criticità e problematiche legate alle condizioni precarie o alla esiguità dei servizi, delle quali un certo tipo di immaginario si è costantemente alimentato per rifiutare una realtà assai più complessa, fatta di villaggi ed esperienze di costruzione autogestita. Se la retorica del superamento del campo è da molti suoi abitanti vista con diffidenza, è proprio perché questa nega il diritto di costruirsi da sé una casa, di risiedere in spazi aperti e di viverli in comunità.

Barcellona - Casa occupata

I temi dell'autocostruzione e della gestione condivisa che caratterizza ecovillaggi e comuni, esperienze nate da un profonda riflessione critica circa il sistema economico neoliberista e i suoi effetti a livello sociale e ambientale, dimostrano tutto il loro valore anche in contesti di emergenza, come ci insegna l'esperienza di Mina e di altri che, come lei, dopo il sisma emiliano hanno creduto nella ricostruzione autonoma organizzata collettivamente.

Berlino - Teepee land
(foto di Francesca Cogni)

Tutti questi esempi ci parlano in modo estremamente diretto: ognuno di noi contribuisce con la propria specificità alla costruzione, tanto fisica quanto sociale, del luogo che abita. Riconoscere questo fondamentale apporto significa non rinunciare alla diversità e a tutto il potenziale di trasformazione che fa dell'abitare un processo mai concluso.
Proprio questo, forse, è uno degli spunti di riflessione più efficaci che emerge dallo straordinario arcipelago di vite ai margini descritto da Andrea Staid, esperienze che non hanno rinunciato alla spontaneità, alla costruzione diretta di soluzioni concrete e alla conflittualità che si cela in una processo meravigliosamente instabile. Come trattò di evidenziare con il proprio lavoro l'architetto Giancarlo de Carlo, è proprio la scintilla del conflitto che il discorso egemonico sull'abitare ha provato a spegnere. L'obiettivo, perseguito tenacemente, è di pacificare, limitare o reprimere l'appropriazione di spazi collettivi, che si alimentano del confronto costante tra gli attori coinvolti e la cui forza dimora in una irriducibile complessità.
Ma qual è allora il modo migliore di abitare una città, un territorio, un luogo? Come per una casa, anche in questo caso la risposta migliore non può essere prefabbricata – e il libro di Andrea Staid ce lo dice chiaramente! – ma si costruisce attraverso una discussione collettiva e nell'esplorazione di tutte le risorse offerte dal disordine e dalla spontaneità.

Emanuele Fabiano


Alabastrai a Volterra/
“Ostenta un fiocco nero svolazzante”

Le vicende di cui si occupa questa recensione si può dire che siano tornate alla luce anche grazie ad “A-rivista anarchica”, quando un paio d'anni fa pubblicò un articolo sull'anarchismo a Volterra (“A” 400, estate 2015).
Quell'articolo fu letto da Viviane, nipote di Erminia Del Colombo e Guelfo Guelfi, che prese poi contatto col Collettivo Distillerie, associazione volterrana che da anni si occupa della riscoperta e valorizzazione del mondo degli alabastrai, con particolare attenzione alla loro spiccata vocazione libertaria.
A quel contatto sono seguite lettere, telefonate, scambi di foto e documenti, incontri che hanno portato ad iniziare un progetto di ricerca sull'anarchico volterrano Guelfo Guelfi, alabastraio e scultore, e sulla sua compagna Erminia Del Colombo, in cui elemento centrale è stato il viaggio a Bruxelles del Collettivo Distillerie per incontrare e conoscere direttamente la famiglia Guelfi, le tante opere di Guelfo e i luoghi dove Erminia e lo scultore dal fiocco nero avevano trascorso la maggior parte della loro vita. Del non facile riassunto di queste vite militanti si è poi fatto carico Duccio Benvenuti, ampliando e proseguendo le ricerche e concretizzandole nel volume qui recensito Storia di vita e d'anarchia. Guelfo Guelfi e Erminia Del Colombo fra Volterra e Bruxelles (Edizioni Distillerie, Volterra 2016, pp. 72, € 10,00).
Non lo si consideri un lavoro di mera storia locale, perché leggendo questa ricerca ci si ritroverà ad attraversare l'intero novecento e le vicende cruciali che hanno segnato tutta l'Europa nel secolo breve. E, attraverso la vita della famiglia Guelfi, si avrà anche una preziosa e originale testimonianza delle attività del movimento anarchico nelle lotte sociali e antimilitariste di primo novecento, nell'opposizione al nascente fascismo, nella prosecuzione delle lotte contro il regime di Mussolini nell'esilio antifascista all'estero, nell'impegno nella Rivoluzione libertaria della Spagna del '36, nella Resistenza al nazifascismo e nella ripresa delle attività nel secondo dopoguerra. La militanza libertaria per Guelfo Guelfi inizia nel Gruppo Germinal di Volterra, le carte di polizia ci parlano di questo giovanissimo che “sempre ostenta al collo un fiocco nero svolazzante”, mentre diffonde Volontà o distribuisce manifestini antimilitaristi contro la Prima Guerra mondiale e in solidarietà coll'anarchico Masetti, che aveva rivolto il fucile contro i propri ufficiali.
L'arrivo del fascismo e il consolidarsi del regime costringono Guelfo ad espatriare in Belgio, dove trova lavoro come scultore e dove Erminia e i figlioli lo raggiungeranno. Duccio Benvenuti ha saputo rendere bene al lettore l'atmosfera della capitale belga di quegli anni, in cui i Guelfi si vengono a trovare e con cui iniziano ad interagire nelle sue diverse dimensioni, quella politica del fuoriuscitismo antifascista, quella dei lavoratori immigrati, ma anche quella artistica e culturale. C'è un luogo che ben riassume tutto ciò ed è la Maison du Peuple o Maison des huit heures (la durata della giornata lavorativa), lì si incontrano gli anarchici e i socialisti, si organizzano raccolte di fondi, momenti di convivialità e di solidarietà, si ragiona di politica e si preparano iniziative antifasciste.
La Bruxelles di quegli anni è un crocevia di militanti antifascisti e libertari italiani ed europei, da Camillo Berneri ad Hem Day, vi si stampa anche un giornale anarchico in lingua italiana, Bandiera nera. Tante e diverse sono le figure di compagni con cui la vita militante di Erminia e Guelfo si incrocia e che frequentano la loro casa nel quartiere di Schaerbeek: Mario Mantovani, Vittorio Cantarelli, Pietro Montaresi, solo per citarne alcuni. Nomi che ritroviamo nei racconti della figlia Ovidia e che Benvenuti fedelmente riporta, con particolari che magari nelle schede di questura non avremmo trovato, come la grande passione di Montaresi per la bicicletta. Segue poi il triste racconto della separazione di Guelfo dalla famiglia nel 1941, arrestato dai tedeschi e ricondotto in Italia, incarcerato a Volterra. Ma la famiglia, fortunatamente, poi si ricongiungerà.

Opera di Guelfo Guelfi al cimitero
monumentale di Schaerbeek – Bruxelles

L'attività artistica di Guelfo Guelfi dà prove straordinarie ad esempio nelle opere che si trovano nel cimitero monumentale di Schaerbeek e delle quali Benvenuti riporta anche le interpretazioni psicanalitiche di Luc Richir. Ma Guelfi mise la propria arte anche al servizio del movimento anarchico e operaio. Prova ne sono la lapide di Nestor Machno al Père-Lachaise di Parigi o quella di Francisco Ferrer a Volterra. Quest'ultima viene apposta nel 1969, su iniziativa del Gruppo anarchico Germinal, con una manifestazione popolare ed unitaria a cui parteciperà Umberto Marzocchi. E quella sarà l'ultima volta che Guelfo rivedrà la sua città natale. La narrazione di quella memorabile giornata verrà riportata sull'intera terza pagina di Umanità Nova (Francisco Ferrer ricordato a Volterra nelle sue opere e nel suo sacrificio, «Umanità nova», n. 38, 25 ottobre 1969, p. 3).

Da sinistra, in senso orario: Guelfo Guelfi (a sinistra) apprendista a sedici anni;
Guelfo Guelfi ventenne; Guelfo Guelfi, foto segnaletica dell'arresto del 1941

Erminia e Guelfo sarebbero di certo contenti nel vedere come quella lapide sia ancor oggi viva, dato che da qualche anno gli anarchici e i libertari volterrani sono tornati a festeggiare il 1° maggio, colle loro bandiere e le loro canzoni, recandosi ad apporre un mazzo di garofani rossi a fianco dell'immagine del pedagogo e rivoluzionario catalano.

Pietro Masiello
reclusvod@gmail.com


Massimo La Torre/
Trent'anni di studi su anarchismo, diritto, liberalismo

L'ultimo lavoro di Massimo La Torre, filosofo del diritto e studioso del pensiero anarchico e antiautoritario (Nostra legge è la libertà. Anarchismo dei moderni, DeriveApprodi, Roma 2017, pp. 288, € 20,00) ci propone una cavalcata attraverso il “canone” dell'anarchismo dei moderni, avvertendo però il lettore come di canone in senso stretto non si possa correttamente parlare (pp. 13-14), dato che il pensiero anarchico sviluppatosi sul finire del secolo dei Lumi si articola attraverso molteplici declinazioni, a volte fra loro distanti, che ritrovano un comune denominatore non certamente nell'ossequio ad una linea di pensiero predefinita (quella sorta di ipse dixit che caratterizza ad esempio la prospettiva marxista), piuttosto in un radicale “dubbio metodologico cartesiano” (p. 225). Attraverso questo spettro è possibile collegare pensatori distanti sia da un punto di vista cronologico (dalla fine del Settecento sino al Novecento inoltrato), che contenutistico (dall'individualismo stirneriano al comunismo bakuniniano per giungere, attraverso Proudhon e Kropotkin, ad analizzare il controverso rapporto fra Malatesta e Merlino volgendo lo sguardo verso l'anarchismo attualista di Berneri).
Un volume d'interesse, sia per la precipua ricostruzione della prospettiva anarchica, che per un ricco e non sempre usuale apparato bibliografico con ampi riferimenti alla letteratura straniera.
La Torre raccoglie, rielabora e ricollega in questo volume una serie di studi apparsi nel arco di più di un trentennio presentando al lettore il pensiero anarchico in tutta la sua complessità ed in tutte le sue (principali) sfaccettature; e lo fa (anche) con un intento giustamente polemico nei confronti della letteratura accademica ufficiale, che o non menziona affatto l'anarchismo quale dottrina politica da annoverarsi tra le prospettive di pensiero occidentali, oppure ne offre delle rappresentazioni alquanto pittoresche o, ed è questo il caso della storiografia marxista, del tutto strumentali e fuorvianti.

Quel dibattito tra Malatesta e Merlino

L'anarchismo preso sul serio implica, come La Torre sottolinea, il collocarsi al centro della modernità politica e giuridica ed in particolare problematicizzare “le pretese di comando dell'autorità politica”, porre in radicale discussione la legittimità dell'ente Stato, così come si è venuto concretamente a costituirsi dalla rivoluzione francese in poi. Il libro offre dignità scientifica alla nostra corrente di pensiero che non è teorizzazione di caos antisociale, né vano richiamo ad idilliache e bucoliche utopie, ma precisa e coerente problematizzazione del potere e della gestione sociale su questo fondata. Un pensiero che sin dal suo sorgere ha posto in discussione ogni assioma di domino, primo fra tutti – ed è questo il caso di Godwin – il domino dell'uomo sulla donna. Un pensare anarchico proteso irresistibilmente verso la libertà; Nostra legge è la libertà, titola il volume.
Certo la prospettiva anarchica non appare lineare, molte volte quando si incarna nella realtà sociale offre delle risposte non soddisfacenti – si leggano in proposito le pagine dedicate allo scontro fra Malatesta e Merlino vuoi sulla questione elettorale, vuoi sulla questione criminale. Qui l'autore pare esca dal ruolo di osservatore non partecipante, di puro ed obiettivo testimone degli avvenimenti, per assumere (forse involontariamente) i panni del polemista, schierandosi di fatto con uno dei contendenti: l'avvocato partenopeo.
Vi è una tensione sotterranea che offre energia al lavoro di La Torre, una tensione data dalla ricerca, all'interno dell'intelligente riproposizione del pensiero anarchico classico, d'una via verso l'anarchia possibile, più che un'esaltazione dell'anarchia completa. Un percorso questo che necessariamente per l'autore passerebbe attraverso l'opera di Merlino.
La ricerca di risposte alla nodale questione: “è possibile un anarchismo politico che [...] possa pensare alla società come a una struttura retta da norme?” (p. 228), deve avvenire nel terreno solcato da Merlino, il quale (se l'anarchismo si rifà alla tradizione della democrazia classica – l'isonomia ateniese in buona sostanza, p. 200) “più che una revisione dell'anarchismo ne rappresenta piuttosto la restaurazione «repubblicana». Invece di un «tradimento» – come si affettano a sentenziare i puri di «partito» – è la riconferma di antiche dimenticate fedeltà. [...] La morale merliniana è così ricerca delle norme, non rivolta contro queste, volontà di limite, non di potenza” (p. 201 e 204). Si intravvede pertanto nel pensiero di Merlino una necessità, pienamente colta (e, forse, accolta) da La Torre, di dialettizzarsi con le istituzioni politiche, al fine di organizzare in autonomia la vita sociale. La politica non è insolubilmente legata alle dinamiche di potere, “è piuttosto discorso o prassi, dibattito o controversia e anche lotta ovviamente, intorno alla produzione e alla applicazione delle norme di una comunità e più in generale intorno alla determinazione dei contenuti della «buona vita» di questa (altrimenti detto bene collettivo)” (p. 218).

Per la comprensione del pensiero anarchico

In questo vi sarebbe una stridente incompatibilità con una prospettiva romantica, incarnate ad esempio da Bakunin, che vedrebbe, all'incontrario, nella politica l'esplicazione del domino. Prospettive divergenti, quindi non accomunabili sotto un unico canone, che non sia, come già osservato, la radicale problematizzazione della legittimità del potere. Il lettore (anarchico) è indotto a riflettere sui nodi centrali ponendolo di fronte a ineludibili domande e, a volte, a sorprendenti – nel senso di inusuali – tratteggi. Si veda il riferimento (esplicito) al pensiero classico (aristotelico, direi), quanto si argomenta intorno all'idea di giustizia in Merlino (e, implicitamente, nell'anarchismo – stessi riferimenti si riscontrano nelle parti dedicate a Proudhon): “il giusto per il Nostro ha a che fare con la questione della convivenza. È ciò che rende possibile il bene, la persecuzione dei piani di vita individuali e collettivi e la realizzazione di ciò che individui e gruppi ritengono essere la loro «buona vita»” (p. 210).
Un contributo importante quello offerto da La Torre alla comprensione (ed alla diffusione) del pensiero anarchico, che pur tuttavia lascia un inquietante dubbio.
L'anarchismo dei moderni è o meno di schietta derivazione liberale? Ovvero, fermo restando il sorgere dell'anarchismo nella modernità politica (l'era che vede l'imporsi della forma Stato quale unico modello di gestione sociale), questo è pensiero politico moderno alla stessa stregua del liberalismo e del socialismo (che concorrono a fondare – sia pur in diverso modo – l'assolutismo dello Stato), oppure si colloca in una prospettiva diversa, quindi non riconducibile a quella modernità politica che si coagula intorno al binomio politica-potere?
La Torre pare optare per la piena complementarietà del liberalismo e dell'anarchismo; di fatto apre e chiude il suo lavoro argomentando a favore della stessa (“il liberalismo annuncia l'anarchismo [...] il liberalismo è il punto di arrivo di motivi anarchici”, p. 15; “l'anarchismo è [...] in misura eminente critica e superamento del liberalismo mediante il liberalismo stesso”, p. 242), e nel bel mezzo rileva come “si è detto talvolta che gli anarchici sono solo dei «liberali impazziti». Ora, se quell'«impazzito» lo si intende come «estremo» o «radicale», non potrebbe esservi una valutazione più acuta dell'anarchismo” (p. 70).
Però è lo stesso autore a suggerirci come “per il liberalismo, a differenza dell'anarchismo, il potere è un dato, non un problema, una necessità, non una eventualità. Si può discutere della sua giustificabilità, ma la sua struttura ontologica è assunta come perenne, niente affatto capace di destrutturazione o di riforma” (p. 26), per cui, “i princìpi liberali valgono per le relazioni tra privati [...] ma dentro il recinto del potere politico [...] essi decadono. In quest'àmbito rimane vigente il principio di autorità” (p. 25). Infatti, “la filosofia politica liberale, quella eminentemente moderna, ha uno spinoso problema da risolvere. Come rendere possibile che il potere politico sia soggetto al diritto [...] l'ostacolo contro cui urta è la concezione del diritto come comando, e comando di un superiore politico [...] che non riconosce superiori a lui superiori” (p. 228). Ecco comparire l'idea di sovranità che pervade e qualifica tutta la modernità politica, ma che non intacca in alcun modo l'anarchismo. Pare dunque che anarchismo e liberalismo si collochino su orizzonti diversi, collegati solo da una dimensione temporale.
Pertanto, nel delineare i rapporti fra anarchismo e liberalismo, quindi tra il primo e la modernità politica è bene procedere con cautela al fine di evitare quelle Blendungen che hanno fatto perdere al povero sinologo Kien (p. 45) l'intera biblioteca in un autodafé! Ma questa è questione che riguarda tutti i lettori dell'ottimo libro di La Torre.

Marco Cossutta


Agricoltura/
Salerno, la Piana del Sele, ricordando Danilo Dolci

Il saggio di Gennaro Avallone, Sfruttamento e resistenze. Migrazioni e agricoltura in Europa, Italia, Piana del Sele (Ombre Corte, Firenze 2017, pp. 136, € 13,00), partendo dalla constatazione che «l'agricoltura neoliberale si muove in spazi transnazionali e si articola attraverso enclave globali di produzione inserite in catene di trasformazione e distribuzione definite da specifici rapporti di potere al loro interno», si propone di indagarne le caratteristiche e i problemi relativamente all'area europea in generale, a quella italiana in particolare e alla zona della Piana del Sele, nel Sud Italia, in modo più diretto e partecipato, con una ricerca sul campo.
Precisando, della sua analisi, che «l'agricoltura è stata osservata concentrandosi sulla produzione, cioè sui rapporti sociali tra gli uomini e le donne che all'agricoltura danno corpo, assumendo l'idea, teorica e metodologica che è il lavoro che fa l'agricoltura, è il lavoro in carne ed ossa che produce il cibo, prima che venga assorbito dal marketing e subordinato ai super profitti delle grandi imprese nazionali o multinazionali finanziarizzate», Avallone punta l'attenzione sul lavoro dei migranti, tanto determinante nella produzione agricola e nel profitto che ne deriva quanto volutamente misconosciuto e brutalmente sfruttato. Il cambiamento, sempre più marcatamente globalizzato e capitalistico del lavoro agricolo, che ha dissolto le antiche e piccole forme di conduzione familiare dei campi, ha favorito la formazione di grandi aziende che producono localmente per un mercato globale, il cibo essenziale alla vita.
Ma per quanto queste siano ultrameccanizzate e ipertecnologizzate, hanno bisogno di una rilevante quantità di manodopera: oggi, questa è costituita in gran parte da migranti, perché ha un costo bassissimo dato che sfrutta la loro condizione di clandestini, la loro necessità di avere una retribuzione, seppure insufficiente e iniqua, la loro speranza di ottenere, un giorno, cittadinanza e diritti, in quanto uomini, indipendentemente dal loro “stato” economico. Avallone indaga i meccanismi della produzione, della distribuzione e del consumo dei beni che provengono dall'agricoltura, diventata ormai mondiale e ormai migrante. E, a paradigma di tale assunto, Avallone pone al centro del suo testo e al centro della sua ricerca, le risultanze dell'indagine, condotta in pesa diretta, nel salernitano, nella Piana del Sele.
La realtà e le caratteristiche dello sfruttamento e dell'illegalità (lavoro nero e sottopagato, assenza di diritti e tutele, anzi... minacce e soprusi) che regna sovrana, in quest'ampia pianura, a sud di Salerno, vengono fuori dalle parole degli stessi migranti, intervistati da Avallone, che, alla maniera di Danilo Dolci (quando, negli anni '50 andava ad osservare e faceva conoscere la miseria e la sofferenza dei contadini siciliani), ha voluto raccogliere dalla loro viva voce, i dati e le notizie sulla loro vita e la loro storia, sulle condizioni del loro lavoro e sulle aspettative, i desideri e i sogni che li hanno spinti, spesso a rischio della vita, a lasciare terre lontane (India, Marocco, Ucraina, Romania) per venire disumanamente smistati e impiegati - spesso dal caporalato, che nella Piana del Sele impera - nelle aziende agricole e zootecniche che produrranno ortaggi e latticini - tra l'altro - che assicureranno tanta ricchezza a pochi e grandi proprietari e una mera e sempre precaria sussistenza a loro.
Il documentato saggio di Avallone, mostra e denuncia le politiche mondiali ed europee che tutelano e valorizzano, dell'agricoltura, i capitali e la terra e non gli uomini che la lavorano, togliendo doppiamente l'esistenza e l'identità ai migranti, non considerati come lavoratori, non riconosciuti come cittadini: costretti, quindi, ad una legittima difesa e resistenza, che, però, trovando solamente un debole e insufficiente aiuto e supporto organizzativo nei sindacati, si concretizza quasi esclusivamente nella “mobilità”, nell'abbandonare il campo, la terra, l'azienda dove lo sfruttamento diventa esasperante e insopportabile, per offrire la propria forza lavoro in altri luoghi, in altre campagne o allevamenti, ad altri padroni. La necessità, quindi, che i migranti occupati nelle campagne europee vengano aiutati a dare forma organica e strutturata alla rivendicazioni dei diritti, a loro negati in ragione del profitto o della xenofobia retriva e razzista, è attuale e urgente.
Anche in considerazione del fatto che, soprattutto nel meridione d'Italia, i migranti sono generalmente e “normalmente” considerati, ormai, «una sorta di bancomat delle società ed economie locali», un'utile riserva di «manodopera a basso costo» e di «consumatori redditizi di beni - quali, ad esempio, gli alloggi - altrimenti senza mercato o con mercato ridotto».

Silvestro Livolsi



convegno su educazione e libertà

domenica 22 ottobre • Castel Bolognese (Ra)
Teatrino del vecchio mercato, via Rondanini 19


sessione del mattino / ore 9.30-13

Andrea Papi
Primi passi: dal seme al fiore
Francesco Codello
L'educazione libertaria: dalla storia all'attualità
Giulio Spiazzi
Un cammino nell'educazione libertaria: dalla scuola autogestita alla comunità auto-educante non adulto-centrica
Raffaele Mantegazza
La scuola dei borghesi si abbatte e non si cambia. O no?

sessione del pomeriggio / ore 14.30-17

Filippo Trasatti
Mirabili contraddizioni: esperienze di libertà in uno spazio chiuso
Maurizio Giannangeli
L'educazione che ribolle: 10, 100, 1.000 scuole
Thea Venturelli
I fiori delle comunarde a Urupia

dibattito / dalle ore 17 ad esaurimento

info: papiandrea1221@gmail.com