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 Salento/Una cantora tra impegno sociale e pensiero libero
 
 Intervista con Ninfa Giannuzzi
 C'è un sottile filo rosso(nero) che lega i protagonisti 
                  e i temi di “A” rivista anarchica, incroci, trame, 
                  congiunzioni che mettono in connessione storie, luoghi e vicende 
                  che hanno urgente bisogno di trovare spazio e di essere raccontate 
                  da queste pagine di ostinata e contraria informazione.Leggevo le missive nella rubrica 
                  Casella Postale di “A” 
                  416 (maggio scorso) e ho trovato quella a firma di 
                  Egidio Marullo, presidente dell'associazione Amo per Amo di 
                  Calimera (Lecce), attraverso la quale denunciava l'ennesimo 
                  furto e svendita di terre alle mafie (locali e internazionali) 
                  che porta il nome di Gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline) 
                  che prevede gas in arrivo dall'Azerbaigian con impianto previsto 
                  a San Foca, marina di Melendugno, tra Lecce e Taranto, e che 
                  soprattutto prevede l'espianto di migliaia di ulivi.
 Negli stessi giorni avevo sentito Ninfa Giannuzzi, voce e 
                  anima salentina nonché voce e anima dell'associazione 
                  Amo per Amo, per preparare il nuovo viaggio de “la terra 
                  è di chi la canta”.
 Eccolo dunque il filo rosso(nero) che raccoglie l'urlo d'amore 
                  di Ninfa Giannuzzi e lo destina a coloro che sono affamati di 
                  quiete e bellezza. Ninfa è sicuramente una “cantora” 
                  autentica, oltre che compositrice e autrice di pagine poetico-sonore 
                  di rara bellezza, ma è soprattutto una desueta e rara 
                  opportunità per meglio accogliere e comprendere le fonti 
                  primarie della tradizione popolare: la condizione dell'essere 
                  e lo stato d'animo.
 Gerry Ferrara - Ninfa, cominciamo a raccontare l'agire 
                  sociale e culturale (e quindi politico) di Amo per Amo.
 Il nostro pensiero politico è impolitico Ninfa Giannuzzi - Sono avida di scontri e di pensieri 
                  nuovi, purchè svelino le mie contraddizioni e mettano 
                  a nudo forze e debolezze. Rifiuto ogni forma di autorità 
                  coercitiva e credo che la conoscenza potrà cambiare il 
                  futuro e renderci liberi.Non si può ottenere attenzione in un presente fatto di 
                  totalitarismo amorfo, frutto della globalizzazione e maneggiato 
                  ad arte da pochi potenti che lo fanno detonare su uno sfondo 
                  finto, maldestramente placcato di esistenza.
 In Amo per Amo conserviamo la sensibilità e raccontiamo 
                  alle generazioni future la realtà, il rispetto e l'empatia.
 Il nostro pensiero politico è impopolare.
 
 La vostra esperienza e il vostro impegno sul campo mi 
                  ricorda la fertile stagione di Aramirè e dello straordinario 
                  lavoro svolto dal suo mentore Roberto Raheli, puntualmente innestato 
                  sulla linea di confine tra canto e impegno sociale, produzioni 
                  editoriali e denuncia.
 Nel 1954 arrivarono nel Salento Alan Lomax e Diego Carpitella, 
                  viaggiavano su un pulmino Volkswagen bianco e verde. Nel 1959 
                  arrivò Ernesto De Martino, insieme a Carpitella. Questi 
                  ricercatori restituirono dignità alla nostra tradizione. 
                  Preservarono i nostri canti in un momento in cui era cresciuto 
                  nelle coscienze il meccanismo di rifiuto che legava le tradizioni 
                  alla sfortuna e alla povertà.
 Successivamente al passaggio di quelli che furono soprannominati 
                  “i professori d'america”, si innestò un nuovo 
                  sentimento popolare di appartenenza, precipuo del territorio, 
                  che si è andato consolidando nelle generazioni future.
 Quello che ne è seguito è stato un periodo pregno 
                  e significativo per la rinascita e la cura delle tradizioni 
                  del Salento. Aramirè e Ghetonia hanno camminato in lungo 
                  e in largo per il territorio ascoltando gli anziani, cantando 
                  con loro e registrandoli, riconsegnando dignità alla 
                  tradizione musicale.
 Insieme a questo risveglio è cresciuto il desiderio di 
                  rivendicare la forza di un pensiero libero e proletario, come 
                  se la sofferenza cantata dai contadini dovesse rimanere una 
                  cicatrice da esibire e attraverso gli stessi canti si potesse 
                  assurgere alla speranza riparatrice del futuro.
 Oggi io vedo uomini che rifiutano il pensiero creativo e sono 
                  protesi esclusivamente verso la realizzazione di desideri materiali. 
                  Viviamo un nuovo Medioevo e l'umanità su cui poggiarsi 
                  è poca per lottare.
 
 Come nasce il tuo rapporto con il territorio, con la sua 
                  storia, con le sue ricorrenti fascinazioni di “sviluppo 
                  moderno e contemporaneo” e con le sue ataviche e rischiose 
                  mistificazioni del passato.
 Dopo aver preso di pancia le distanze dalle “mistificazioni 
                  rischiose” le ho osservate con distacco ed ho realizzato 
                  che non si può rifiutare un fenomeno di massa perché 
                  risponde ad un bisogno.
 La tradizione contiene in sé il tradimento, ma dobbiamo 
                  conoscere a fondo i luoghi da cui proveniamo.
 La musica tradizionale è l'archivio da cui attingo per 
                  capire la nostra storia. Mi regala una serie di informazioni 
                  che non hanno nulla da invidiare alla poesia, alla letteratura, 
                  alla prosa, al teatro, al cinema; è concreta, è 
                  la visione cruda che sta dalla parte del popolo, la perfetta 
                  descrizione dei sentimenti e degli avvenimenti.
 Io continuo a cercare queste storie, con occhi attenti e lungimiranti, 
                  per farle affiorare e consegnarle ad ascoltatori sensibili che 
                  non appartengano alla “massa passiva” o “maggioranza” 
                  ma alla forza attiva del processo culturale.
 
 Come nasce, invece, questo tuo impulso al canto che evoca 
                  in modo perentorio e dolce al tempo stesso il disagio dell'anima 
                  ormai sempre più anestetizzata da bisogni indotti e da 
                  meschine macchinazioni che portano inevitabilmente alla deriva, 
                  all'aridità, e quindi, alla bruttura che ci circonda.
 Parlare e cantare in griko Il mio rapporto con il canto è sciamanico, e quando 
                  cerco di decodificarlo vengo colpita da immagini violente.Come se fossi nata nel deserto.
 Come se avessi attraversato tutti i cuori del mondo. Come se 
                  avessi chiamato a raccolta tutte le mie madri ed avessi pianto 
                  con tutti i miei figli.
 Come se fossi riuscita a morire infinite volte e a gridare vendetta.
 Ancora per ogni viaggio aprirò gli occhi solo quando 
                  finirà il canto.
 
 È stato sempre naturale per te parlare e cantare 
                  in griko?
 Quali sono stati i punti di riferimento (letterari, musicali 
                  e prima ancora umani) che ti hanno ispirato?
 Che tipo di approccio e che tipo di evoluzione hai dato alla 
                  conoscenza del tuo territorio e della sua meravigliosa lingua 
                  madre, il griko, per poterne fare veicolo dei tuoi mondi interiori 
                  e megafono delle istanze sociali che quelle terre rivendicano.
 Nonna Matilde mi ha sempre parlato in Italiano. Ho imparato 
                  le canzoni in griko dagli anziani della mia famiglia, dalle 
                  “commari” e dai “compari” che mi intrattenevano 
                  con “Cunti, giochi e filastrocche”.
 Mia nonna traduceva seriosamente tutto in italiano, sfoggiando 
                  un tentativo di impeccabile dizione. Lei è stata una 
                  “Tabacchina”, ha avuto quattro figli, e solo con 
                  il primogenito, mio padre, parlava il griko, contrariando evidentemente 
                  mia madre che nel '68 si è trasferita da Verona a Calimera 
                  per amore. Con gli altri figli parlava dialetto.
 In quel periodo il griko era sinonimo di povertà, e la 
                  rivincita doveva passare attraverso l'oblio dei significanti 
                  contadini.
 Io canto la bellezza di questa lingua e mi prendo la mia rivincita 
                  recuperando piano la capacità e il coraggio di parlarla. 
                  Credo in quello che trovo, tengo gli occhi bene aperti e l'ascolto 
                  vigile. Lo stupore mi costringe ad origliare alle porte.
 
 Anni fa ero di cammino nelle terre calabro-aspromontane 
                  (Bova, Gallicianò) dove ancora oggi si parla il greco 
                  antico, da quelle parti lo chiamano grecanico, e mi resi conto 
                  dell'ennesimo paradosso tutto italiota: dalla Grecia continuano 
                  ad arrivare studiosi del greco antico e dei riti ortodossi ancora 
                  in vigore a dispetto di tutti coloro, locali compresi, che nulla 
                  conoscono di questa storia meravigliosa. Succede anche nella 
                  tua Calimera o comunque in quella parte di salento?
 A casa mia sono passati tantissimi giovani studiosi ad intervistarmi 
                  e a registrare il mio canto: nessuno di loro parlava la mia 
                  lingua.
 
 “Àspro” è stato il tuo personale 
                  omaggio al griko, tanto “violento” (nell'accezione 
                  positiva del termine) da importi il silenzio e l'ascolto, e 
                  tanto profondamente delicato e dolce, una carezza, un seme, 
                  una pace, che custodisce l'elisir di bellezza e le istruzioni 
                  per ripotare il mondo, e la propria esistenza, a quote più 
                  umane... il resto scrivilo tu di seguito.
 Àspro (2014) è Bianco in griko e urla disperatamente 
                  che la bellezza di questa lingua non venga totalmente dimenticata.
 Una danza propiziatoria al ritorno della passione popolare collettiva 
                  che apre la strada ad una “rinascita comunitaria” 
                  rivolta al futuro. Non previsto e non prevedibile, tessuto nelle 
                  trame dell'essenzialità.
 Nato in collaborazione con Valerio Daniele, vanta la direzione 
                  artistica di Desuonatori (etichetta indipendente salentina). 
                  Insieme a noi Giorgio Distante.
 Nelle notti del rimorso Ti ho conosciuto attraverso uno dei tuoi primi lavori, 
                  Tis Klei, una sorta di viaggio, di momento apotropaico, 
                  attraverso varie lingue che esploravano e riverberavano, mediante 
                  la tua voce, un unicum espressivo di una forza dirompente. Raccontaci 
                  quel diario di viaggio.Tis Klèi (2007) è un viaggio che porta il mio 
                  nome. Un respiro in gola sospeso attraverso mari, sponde e popoli, 
                  “raccontati” già nell'essenza delle lacrime 
                  stesse, salate come il mare che unisce e restituisce leggende.
 Ci sono tradizione e modernità, atmosfere scaldate dal 
                  sole e anfratti pervasi di storia; in un unico mare per un'unica 
                  ragione.
 
 De Andrè sosteneva che il “canto, nelle cosiddette 
                  etnie primitive ha il compito fondamentale di liberare dalla 
                  sofferenza, di alleviare il dolore, di esorcizzare il male”. 
                  Ti ritrovi in questa riflessione?
 La citazione faberiana mi permette anche di esortarti a parlare 
                  del tuo ultimo lavoro sulla voce, anzi, sulle voci, “Rosamarino” 
                  con la bravissima Rachele Andrioli, il soprano Simona Gubello 
                  e la cantante albanese Meli Hajderai (testimonianza efficace 
                  di un altro secolare scambio culturale con la comunità 
                  arbreshe).
 Ogni volta che canto mi libero, non sento il dolore e credo 
                  che il mondo sia un posto meraviglioso.
 Rachele, Simona e Meli sono ideali compagne di viaggio. Ci accomuna, 
                  la grande passione per le tradizioni del mondo, il bisogno di 
                  cantare e l'incredulità che oggi il mare sia diventato 
                  la tomba delle civiltà che cantiamo.
 La musica unisce, si assomiglia nei temi e nei modi.
 Lavorare in polifonia è magico, consente di creare una 
                  voce unica che contiene la forza di tutte e quattro. Rosamarino 
                  è un ponte tra passato e futuro, fra tradizione e contaminazione 
                  in assenza di compromessi.
 
 Per tornare ad Egidio Marullo e alla vostra sana complicità 
                  poetico-musicale, non possiamo non parlare di un capitolo del 
                  tuo cammino molto particolare, intenso, un cammino dove la voce 
                  e il suono si fondono in un armonioso e fertile delirio ruvido 
                  e avvolgente. Sto parlando, ovviamente, di “Funzione preparatrice 
                  di un Regno”. Anche la grafica e le arti visive hanno 
                  un ruolo fondamentale in quell'opera.
 “Funzione preparatrice di un Regno” (2011) è 
                  l'idea folle di un regno nuovo e impossibile impostato in una 
                  funzione matematica. Un'opera intima, un testamento convulso, 
                  un epitaffio. Si muove in un insieme di stanze emozionali che 
                  conservano e raccontano le inquietudini profonde di un'esistenza 
                  sull'orlo del baratro.
 Il disco è pensato come un'opera d'arte e non come semplice 
                  espressione del repertorio di un'interprete. L'impaginazione 
                  e la scelta delle opere hanno quindi il compito di completare 
                  l'album evitando per quanto possibile l'approccio didascalico.
 
 Chi ci legge, cara Ninfa, potrebbe essere (o essere stato) 
                  nelle “terre del rimorso” affascinati e ammaliati 
                  dalle notti tarantolate che sono diventate, a mio parere, una 
                  cartolina esotica che non permette di guardare con distacco 
                  e lucidità la forza e le contraddizioni, la bellezza 
                  e i contrasti di questa terra, le molteplici facce della “quistione 
                  meridionale” che cantava la pungente Rina Durante. A proposito, 
                  ironia amarissima della sorte, Rina Durante era di Melendugno 
                  dove, come dicevamo all'inizio, approderà il gasdotto 
                  Tap... tratteniamo gli ulivi finchè siamo in tempo...
 Risponderò con dei versi di Rina Durante:
 
                   [...] Ma la mia patria vera,è su questo quadrato di terra
 da tutti abbandonato,
 dove mormora un vento di ninnananne
 non mai dimenticate
 nelle notti estasiate di primavera.
 Questa è la mia patria,
 la mia povera terra
 così assetata
 che nessuno più la cura,
 [...]
 Questo è l'eterno silenzio
 denso di rumori che nessuno ascolta,
 la quiete febbrile, animata
 di parole arcane,
 bisbigli del vento
 fra i picchi delle scogliere.
 Questa è la mia terra
 chè tra le mani a clessidra
 lentamente mi scorre
 con lo stesso ritmo del sangue
 che palpita nelle mie vene.
  Gerry Ferrara |