Rivista Anarchica Online





Antispecismo/
La caduta degli dèi

Siamo dèi che si sono fatti da sé, a tenerci compagnia abbiamo solo le leggi della fisica, e non dobbiamo render conto a nessuno. Di conseguenza stiamo portando la distruzione tra i nostri compagni animali e sull'ecosistema circostante, in cerca quasi solo del nostro conforto e divertimento, senza peraltro essere mai soddisfatti.
Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?

Con queste righe si conclude un poderoso libro che, in poco più di cinquecento pagine, segue un percorso di centinaia di migliaia anni, quello compiuto da noi, specie umana, per arrivare dove siamo adesso.
Con linguaggio facilmente accessibile e senza mai essere semplicistico Yuval Noah Harari (docente presso il dipartimento di Storia della Hebrew University di Gerusalemme, specializzato in Storia Mondiale) autore di Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità (Milano, Bompiani, 2016, pp. 540, € 16,00), ci riporta alle origini della nostra specie – e ancor prima, alle origini della vita sulla terra - per attraversare, passo passo, le tappe cruciali che hanno causato le grandi trasformazioni che ci hanno modellato e attraverso le quali a nostra volta abbiamo dato forma ai vari habitat in cui ci siamo insediati.
È risaputo, eravamo animali tra gli animali, con caratteristiche molto simili a ciò che ancora siamo, facemmo la nostra comparsa sulla terra due milioni e mezzo di anni fa e quei nostri antenati, che vivevano in Africa Orientale, amavano, giocavano, formavano amicizie, erano in competizione tra loro... esattamente come facevano scimpanzè, babbuini, elefanti. Poi, un giorno, alcuni maschi e femmine di quegli umani arcaici partirono da lì e incominciarono un viaggio. Si riprodussero, popolarorono il Nord Africa, l'Europa e l'Asia, nacquero altre specie distinte, alcune delle quali sopravvissero per ben due milioni di anni.
Abbiamo un sacco di parenti, perduti a ritroso nel tempo, che ci conducono fino a quella specie che abbiamo chiamato uomo intelligente, uomo che sa, homo sapiens: l'unica specie umana rimasta. L'animale caratterizzato da un cervello straordinariamente sviluppato.
Di questa immensa epopea non viene saltato alcun passaggio, dalla scoperta del fuoco attraverso le grandi rivoluzioni che determinarono le trasformazioni nel percorso di evoluzione del nostro modo di vivere sul pianeta: quella cognitiva con la nascita del linguaggio, quella agricola con l'addomesticamento di animali, piante e la costruzione di insediamenti fissi e quella scientifica che comprende al suo interno anche quella industriale. Coinvolti in questa meravigliosa e terribile avventura umana leggiamo i fatti della storia: i primi regni, le prime forme di scrittura e di moneta, le religioni politeiste. Poi gli imperi, dal primo, quello Accadico di Sargon, a quello Persiano, quello cinese degli Han, quello Romano nel Mediterraneo. Quindi il Cristianesimo, l'Islam, il Buddhismo dell'India. Con la rivoluzione scientifica i parametri si modificano in maniera sostanziale, la conoscenza cessa di essere patrimonio divino, la specie umana ammette la propria ignoranza e incomincia ad acquisire un potere senza precedenti.
Siamo a cinquecento anni fa, a questo punto le date sono più facili da tenere sotto controllo, ci si raccapezza meglio e si individuano con più facilità anche le pecche di un libro che – ad ogni buon conto - offre la possibilità di comprendere come è avvenuto il concatenarsi dei fatti a partire proprio dal principio, da quando materia, energia, tempo e spazio emersero da quell'evento straordinario che la fisica – che studia queste nostre caratteristiche fondamentali – chiamò Big Bang, la grande esplosione. Un dipanarsi consequenziale di fatti che affascina e appare come uno svelamento.
Libro poderoso dicevo che, quando si avvicina alla contemporaneità, forse per abitudine a osservare le grandi ere, guarda ai fatti storici in maniera un po' affrettata, omettendo componenti - come le importanti trasformazioni avvenute in conseguenza della volontà di ribellione di interi gruppi sociali – di non scarsa rilevanza e che qualcosa raccontano.
Un testo importante non perché fornisca risposte o soluzioni ma perché mai, come nei periodi di spaesamento, l'osservazione passo per passo degli accadimenti del passato può venire in aiuto nell'orientarsi, cercando nuovi percorsi, frutto di intrecci culturali sempre più stretti, usando la conoscenza di quel che è già stato per stare nel presente con consapevolezza e decisione.
Poco oltre la metà possiamo leggere così: “Allora, perché studiare la storia? A differenza della fisica o dell'economia, la storia non è un mezzo per fare previsioni accurate. Noi studiamo la storia non per conoscere il futuro ma per ampliare i nostri orizzonti, per capire che la nostra situazione presente non deriva da una legge naturale e non è inevitabile, e che di conseguenza abbiamo di fronte a noi molte più possibilità di quante immaginiamo. Per esempio, se studiamo come è successo che gli europei sono arrivati a dominare gli africani, possiamo forse capire che non c'è niente di naturale o di inevitabile in merito alla gerarchia razziale, e che il mondo potrebbe essere ordinato in modo differente.”
E ancora: “Non esiste alcuna prova che la storia operi a beneficio degli umani perché noi non disponiamo di una scala oggettiva su cui rapportare tale beneficio. Culture differenti assegnano una definizione del bene che è differente (...) I vincitori, naturalmente, credono sempre che la giusta definizione di bene sia la loro. Ma perché dovremmo credere ai vincitori?”
C'è chi dice che la storia dell'Homo Sapiens stia per giungere al termine. Alcuni parlano di sesta estinzione (cfr. Elizabeth Kolbert, La sesta estinzione, Beat, 2016), con la differenza che le cinque precedenti non accaddero per alterazioni profonde della vita sul pianeta causate dal comportamento di una specie, come sta succedendo ora. Se così fosse noi apparteniamo a una delle ultime generazioni. Vogliamo lasciar perdere tutto e tirare a campare oppure domandarci quale strada percorrere e come vogliamo diventare?
Tentare di influenzare la direzione che stiamo prendendo è anche il suggerimento che, discretamente, attraverso l'analisi di tutte le ere ed epoche storiche, l'autore del libro ci fornisce. Come a dire: le cose sono andate così, avrebbero potuto anche andare diversamente, molto è stato frutto di scelte umane. Anche oggi. Anche oggi quella parte di umanità di cui poco o nulla si parla sui libri di storia, quella considerata non vincente, quella delle rivolte, che il libro trascura, quella è l'umanità che già da tempo ha scelto di invertire la rotta, che sta provando a opporsi cambiando scelte di vita e che - vogliamo fortemente crederci - può diventare sempre di più.

Silvia Papi


Perugia/
Storia di un'edicola che vuole proteggere la fiamma

Edicola 518 è uno spazio di cultura indipendente e libertà, editoria e rivoluzione, sulle scalette di Sant'Ercolano a Perugia. “Quattro metri quadrati di spazio infinito” amano definirlo i fondatori, artisti, giornalisti, scrittori e studenti, che sotto il nome di Emergenze (il loro collettivo artistico) hanno aperto questo spazio alla cittadinanza lo scorso 1 giugno. Abbiamo già dedicato loro una terza di copertina “pubblicitaria” (“A” 410 ottobre 2016). Per approfondire il discorso, abbiamo loro proposto un'auto-intervista, realizzata da Antonio Brizioli, che ha accettato senza esitare.

Come è nata l'idea di riaprire un'edicola?
Come collettivo Emergenze da ormai due anni ci dedichiamo corpo e mente ad azioni che lambiscono il campo dell'arte e dell'editoria senza risolversi totalmente in nessuno dei due. Pubblichiamo una rivista, “Emergenze” appunto, di cui sono usciti al momento cinque numeri e grazie alla quale ci siamo fatti conoscere prima nella città di Perugia e poi in tutto il paese. La rivista ha un formato atipico, una distribuzione missionaria e delle forme piuttosto ardite. Per chiudere il cerchio di un progetto che curiamo totalmente (ideazione, realizzazione, stampa e distribuzione), volevamo uno spazio nostro, dal quale rilanciare quotidianamente la nostra sfida artistica e politica.

E quindi, perché proprio un'edicola?
Non ci piaceva l'idea di aprire una libreria o uno spazio d'arte, perché come detto, essendo noi un ibrido difficilmente identificabile e per sua definizione ambiguo, non ci sentiamo rappresentati da proposte già canonizzate e oltretutto costose in termini di soldi, energia e burocrazia.
Così vedendo quel baracchino abbandonato in uno dei luoghi più belli della nostra città, di fronte alla chiesa del patrono Ercolano (un santo combattente che ha difeso la città dalle invasioni barbariche ed è stato spellato vivo e decapitato da Totila) ci siamo documentati sul mondo delle edicole. In Italia ogni anno ne chiudono a centinaia e solo nella nostra Perugia ce ne sono una decina abbandonate in punti davvero strategici del centro storico. Così, quasi istintivamente, abbiamo compreso che quella era la cosa da fare.

Perugia, via Sant'Ercolano 42/A - La mitica Edicola 518
foto: Matteo Valentini

Ma noi abbiamo rovesciato la piramide

Qual è la causa della chiusura delle edicole? L'avvento dell'online immagino...
Questa è la motivazione più banale e quella che prevale nell'opinione comune, ma in realtà si tratta soltanto di una concausa. La motivazione principale è legata alla struttura piramidale dell'editoria italiana, che ha relegato l'edicolante al ruolo di passivo intermediario fra l'editore e il cliente, senza possibilità di ricerca, selezione del prodotto e personalizzazione del proprio punto vendita.
Questo tipo di struttura è rimasta in piedi finché si riuscivano a vendere centinaia e centinaia di quotidiani al giorno, ma è crollata con la crisi della carta stampata. Una crisi che, a ben vedere, non è dovuta soltanto all'imperversare dell'online, ma anche e soprattutto alla perdita d'interesse dei contenuti, alla mancanza di un'evoluzione grafica, all'incapacità di rinnovarsi e proporsi a un pubblico giovane. Non a caso vi sono prodotti che, in controtendenza rispetto a tale crisi, vendono tantissime copie cartacee proprio in virtù di un diverso approccio rispetto a queste problematiche, penso ad esempio a “L'internazionale”, che conta migliaia di abbonati under 30.

Quindi qual è la vostra ricetta? E quale il vostro criterio di selezione dei prodotti?
Noi abbiamo ribaltato la piramide editoriale che illustravo sopra, diventando gli unici edicolanti d'Italia a selezionare ciascuno dei titoli in vendita nel proprio spazio. Questo è potuto avvenire grazie ai rapporti attivati in questi anni di grande lavoro nel campo dell'editoria indipendente e grazie a un lavoro di ricerca quotidiano e instancabile. Prendiamo la maggior parte delle nostre riviste e dei nostri libri (perché siamo anche una piccola libreria di strada) direttamente dagli editori, o in alcuni casi da piccoli distributori con i quali è possibile operare in maniera sana e collaborativa.
Abbiamo invece rifiutato categoricamente la grande distribuzione che serve tutte le altre edicole, rinunciando alla vendita dei quotidiani italiani e delle riviste di largo consumo. Una rinuncia tutt'altro che dolorosa, a dire il vero...

Nello specifico, cosa si può trovare in Edicola 518?
Quotidiani, settimanali e riviste da tutto il mondo, che danno allo spazio un respiro internazionale in linea con la vocazione storica della città di Perugia, sede della più antica Università per stranieri d'Italia. Dedichiamo particolare attenzione alle riviste d'arte, architettura, grafica, moda, design e viaggio. Di alcuni magazine, siamo gli unici rivenditori in tutta Italia. A livello di libri distribuiamo piccoli e medi editori indipendenti con cui abbiamo un rapporto diretto e confidenziale, come Elèuthera, Johan & Levi, Abscondita, Humboldt, Lazy Dog Press, Archive Books ed altri. Infine abbiamo riportato a Perugia, dopo anni d'assenza, la mitica “A Rivista Anarchica”, che con nostro grande piacere sta trovando seguito anche e soprattutto fra i giovani. A uno dei ragazzi che ha recentemente acquistato la Rivista ho detto scherzosamente: “Ne sto vendendo tante, l'anarchia sta tornando di moda”. E lui mi ha risposto: “Effettivamente, oggi come oggi è molto più accattivante della democrazia”.

E poi ci sono le vostre pubblicazioni...
Sì, come accennavo prima la rivista Emergenze è mezzo fondamentale di diffusione del nostro messaggio, rilancio delle nostre battaglie e autofinanziamento del nostro movimento. L'investimento di Edicola 518 è stato messo in atto solo e unicamente con i ricavi della vendita della rivista, che nella sua prima stagione ha contato più di 600 abbonati. Oltre alla rivista, abbiamo da poco pubblicato “Perugia nascosta”, una guida psicogeografica della città che rimpiazza la descrizione didascalica dei luoghi con una serie di derive d'ispirazione situazionista. Un bell'esperimento, che per nostra fortuna sta andando a ruba.

Al centro della vita sociale

A quanto ne so avete proposto anche eventi in edicola. Come riuscite a offrire una programmazione di questo tipo in soli quattro metri quadrati?
La sfida dei “quattro metri di spazio infinito” è proprio questa: dimostrare che non servono grandi spazi o grandi budget per mettere in piedi una programmazione di alto livello, servono piuttosto grandi idee.
Durante tutto il periodo estivo e poi autunnale abbiamo proposto una programmazione settimanale di eventi culturali a tutto tondo nei quali la sfida imposta agli artisti e intellettuali coinvolti è stata proprio quella di esprimersi nella ristrettezza spaziale dell'edicola: sono venute fuori discussioni spontanee e senza regole nello spazio pubblico (penso a quella con Giulietto Chiesa o a quella con la nutrizionista Anna Villarini), la proiezione a cielo aperto sulle pareti della chiesa del docu-film “Io sto con la sposa” con il regista Antonio Augugliaro, un reading poetico leggendario curato dall'attrice Ilaria Drago e dall'attore Marcello Sambati direttamente da dentro l'edicola e tanto altro ancora.
In una città che sperpera budget e maltratta spazi pubblici, Edicola 518 è diventata in breve tempo il centro della cultura contemporanea e della vita sociale.

Per concludere, vorrei chiederti come si colloca Edicola 518 all'interno del panorama artistico nazionale?
Ad essere sincero non trovo il panorama nazionale così stimolante. Non mancano certo delle iniziative interessanti, ma la maggior parte del fermento culturale si muove entro recinti ben definiti, all'interno dei quali anche il dissenso rischia di diventare un compiacente strumento di comodo. La grande possibilità offerta dall'operare oggi in questo paese è proprio dettata dalla totale assuefazione dei cittadini a meccanismi culturali ripetitivi e passivi, che rende di fatto un progetto come il nostro travolgente.
La gente non è più abituata a sentirsi parte di un processo culturale, a transitare dalla fruizione passiva dell'evento a una condivisione continua e rigenerante di stimoli e energie. Uno dei nostri più grandi punti di riferimento è l'artista, filosofo, politico tedesco Joseph Beuys, che per altro tenne un'importante conferenza a Perugia il 3 aprile 1980, illustrata in sei lavagne oggi contenute a Palazzo della Penna (a pochi passi da Edicola 518). Nel suo ultimo discorso pubblico Beuys disse “Proteggi la fiamma, perché se non la si protegge, prima che ce ne rendiamo conto il vento la spegnerà, quel vento stesso che l'aveva accesa. E allora povero cuore sarà finita per te, impietrito di dolore.”
Noi siamo qui per questo, per proteggere la fiamma. Gli incendi saranno portati dall'improvviso innalzarsi dei venti.

Antonio Brizioli
www.emergenzeweb.it


Integrazione o libertà/
Appunti per una critica antiautoritaria all'oppressione delle donne romnì

Intervento di Martina Guerrini in occasione della presentazione del libro di Anina Ciuciu Sono rom e ne sono fiera. Dalle baracche romane alla Sorbona (Edizioni Alegre, Roma, 2016, pp. 208, 15,00), promosso dall'Associazione donNesi/Corea di Livorno.

Quelle di seguito sono, più o meno, le questioni che avrei voluto proporre per riflettere, non tanto sul libro, quanto a partire dalla condizione più generale delle donne romnì oppresse in Europa.
Come sapete, a Livorno ho proposto nelle mie lezioni di formazione alle volontarie e ai volontari un approccio di analisi delle condizioni delle comunità rom di tipo “intersezionale”. Una parola difficile che vale la pena di spiegare brevemente.
Con intersezionalità si intende uno specifico approccio teorico nato dal tentativo di superare i limiti di un'analisi centrata sull'asse prioritario della differenza di genere in cui il sessismo viene considerato come isolato e/o disgiunto da altri rapporti di dominio (razzismo, classismo, eterosessismo).
In poche parole, significa che, nel caso delle donne romnì, nessuna di loro ha mai sperimentato sulla propria pelle una discriminazione che fosse semplicemente legata all'essere “donna”, ma anche all'essere “rom” e “povera”. In realtà questa è una semplificazione, perché immaginate cosa può sperimentare una donna romnì di orientamento omosessuale in un mondo come il nostro, che non rispetta minimamente i diritti di nativi gay, lesbiche o trans. È evidente che nel caso delle donne romnì c'è qualcosa in più, e quel qualcosa è il razzismo e l'oppressione di classe che esse scontano, vivendo forzatamente nei campi, senza lavoro e prive di scolarizzazione.
Evidentemente, e il caso molto emozionante di Anina Ciuciu lo testimonia, poter studiare permette alle donne romnì di trovare una possibile (ma non scontata) via d'uscita dalla condizione in cui sarebbero destinate a vivere. Si potrebbe discutere ore sui motivi per i quali – pur lamentandosene – le istituzioni italiane, ma quelle europee non fanno eccezione, non dispongono di alcun piano di sostegno alla scolarizzazione delle giovani romnì e dei giovani rom. Per fare un esempio a tal riguardo, la femminista romnì Alexandra Oprea, nata in Romania e ormai newyorkese, molti anni fa metteva chiaramente in evidenza la questione, riferendosi al caso ormai noto della sposa-bambina Ana Maria Cioaba. Era il 2003 e Alexandra scriveva: “Un esempio significativo a riguardo: la BBC ha riferito che “il caso [di Ana Maria Cioaba] ha spinto il Commissario degli Affari Sociali della UE Anna Diamantopoulou a dire alle comunità rom di non implorare aiuti nella lotta anti-discriminazione finché continuano ad abusare dei diritti delle loro stesse comunità”.
Oprea denuncia che né l'Unione Europea né la Romania hanno mai disposto un piano di scolarizzazione per le bambine romnì, pur sapendo benissimo che il diritto allo studio è l'unico mezzo per evitare i matrimoni precoci che tanto li scandalizzano.
Appare quindi quanta ipocrisia e malvagità sia nascosta dietro alle dichiarazioni dell'Unione Europea dell'epoca: le comunità rom sono patriarcali e non conoscono i diritti umani, perché mai dovremmo aiutarle e non discriminarle?
Il “giochino” – se posso chiamarlo così – delle istituzioni è sempre il medesimo: utilizzare un'oppressione contro l'altra, in questo caso la discriminazione di genere contro quella “etnica”, ovvero sostenendo che poichè i rom violano la libertà delle bambine e delle giovani adolescenti romnì, non hanno alcun diritto di pretendere rispetto per la propria “cultura”.
Alexandra Oprea si ribella giustamente al fatto che non si può pretendere di scegliere tra il proprio genere e la propria appartenenza ad una comunità etnica, e che si debba capire cosa favorisce l'emergere di molteplici oppressioni. Né la Romania, né la UE escono da questa circostanza immacolate, perché niente hanno fatto affinché le donne romnì potessero intraprendere e completare un percorso di scolarizzazione – inferiore, superiore, di alto livello – esattamente come tutte le altre bambine dei paesi europei.
Non vorrei dilungarmi su questo, sappiamo bene che l'Italia si comporta esattamente nello stesso modo, e che la Francia ha recentemente espulso una giovane studentessa romnì di origine kosovara, Leonarda Dibrani, impedendole di continuare gli studi, e chiedendole ciò che paventava Alexandra, ovvero di abbandonare i genitori rimpatriati in Kosovo per diventare una “brava francese”. Di nuovo, il bivio è quello di essere rom o di scegliere la libertà delle donne che gli stati europei si vantano di difendere.
Anche, qui, un inganno in piena regola! Non fosse che per il fatto che la libertà non è mai calata dall'alto, ma praticata individualmente, e la storia del mondo (non della sola Europa!) racconta storie piuttosto sanguinose circa la guerra dichiarata dagli stati e dai governi contro la oggi tanto sbandierata “libertà delle donne”!
Ma torno al punto.
Quel che vorrei mettere in evidenza è che esiste chiaramente uno stereotipo incredibilmente negativo cucito letteralmente sulla pelle delle comunità rom. In esse, le donne sono l'elemento più oppresso - e ripeto, è così in ogni società capitalistica o semi-capitalistica, noi non facciamo alcuna eccezione - ma esse sono anche l'esempio creativo di come si può cercare una via di fuga, opporre resistenza, fregare l'oppressore con i suoi stessi mezzi.
Di questa capacità incredibile delle donne romnì, le femministe italiane e europee non hanno capito niente, continuando a ritenerle delle povere ingenue che subiscono vessazioni senza ribellarsi.
Qualche esempio assai simpatico a riguardo lo riporta di nuovo Alexandra Oprea, e cito di nuovo le sue parole: “Ho visto le mie amiche ribellarsi contro genitori autoritari rifiutando di sposare lo sposo prescelto e sotto altri aspetti tentare di fregare il sistema utilizzando le sue stesse regole. Numerose amiche hanno pianificato la loro fuga per adeguarsi a sposare il compagno scelto dai genitori soltanto per separarsene entro due mesi o un anno, dopo di che, non più vergini, erano di fronte a minori restrizioni.
Esistono molti tipi diversi di resistenza. Essa non si verifica sempre nell'estremo pacchetto “abbandona la comunità, non tornare mai più”, sebbene alcune romnì “scelgano” altresì questa strada. Ovviamente, queste scelte devono essere osservate criticamente nel loro contesto, e non possono essere considerate vittorie complete. Il risultato può difficilmente essere considerato un trionfo, quando una donna è costretta a scegliere tra separare se stessa dalla gente che ama (e affrontare un mondo razzista e sessista da sola) e soccombere ai test di verginità e ai matrimoni precoci”.
Cerco di concludere.
Capisco che di fronte a uno stereotipo tanto insidioso, pervasivo e, purtroppo, popolare, l'obiettivo possa essere quello di opporre un'immagine delle comunità rom diversa e positiva. Niente da aggiungere: nella guerra dell'immaginario ci sta, ed è forse necessario, come immediato e più rapido “intervento di primo soccorso”, affinché si interrompa l'emorragia di fantasiose denunce, sottrazioni ingiuste e ingiustificate di minori dai campi, aggressioni, pogrom, assassinii.
Tuttavia, non tutto è semplice come appare e mi pare ci siano degli scivolamenti, dei rischi, in questo approccio, che forse non sono intravisti o sono sottovalutati.
In primo luogo, ricordiamoci che lo stereotipo negativo non è nocivo solo perché descrive i rom e le romnì come la feccia della società, ma perché inchioda questa immagine al loro corpo, cioè rende lo stereotipo negativo universale, valido per tutti e tutte, ed è in questa sua pretesa totale e totalitaria che si insinua il suo potere.
Se si oppone ad esso un immaginario diverso, opposto, migliore, positivo, che scivola pericolosamente verso il compatibile, l'inserito, il legalitario... io qualche problema ce lo vedo. E lo vedo esattamente nello stesso potere di raccontare tutti e tutte nello stesso modo, quando sappiamo benissimo che ci sono comunità rom che desiderano essere nomadi e alle quali non importa niente di avere una casa, oppure che non vorrebbero di certo andare a lavorare in fabbrica, se l'alternativa offerta dal mondo gagio è passare dagli espedienti o dai lavori di sussitenza all'esercito di schiavitù salariata, come la definiva Marx ormai moltissimi decenni fa.
Allora il problema, di nuovo, siamo noi.
Nell'estrema generosità che risiede nel tentativo di difenderli dall'orrore che ogni giorno subiscono, pensiamo di spingerli a costituire una “quota d'azione” di un mondo e di un sistema – e qui certamente non tutti saremo d'accordo – che a me personalmente non solo non piace affatto, ma ogni giorno con le mie miserabili capacità e contraddizioni, mi sforzo di cambiare il più radicalmente possibile. Perché se penso che il salario sia tempo estorto da un padrone, debbo ritenerlo una soluzione per i rom? Perché se penso che l'esercito vada abolito, dovrei favorire l'arruolamento dei rom? Perché se penso che quando lo stato si fa chiamare patria seguirà una scia di morti, debbo chiedere ai rom di amarla e servirla?
E ancora, perché se io posso muovermi in (quasi) tutto il mondo, con un semplice timbro su di una carta, e vivere in una roulotte nel deserto girando il mondo a far fotografie, i rom debbono rinunciare al loro nomadismo, se non lo vogliono, e prendere casa, pagando l'affitto e entrando in quel frenetico e alienato meccanismo “produci-consuma-crepa” che era al centro delle lotte dei movimenti antiglobalizzazione nei quali ho militato per anni?
Sto anche provocando, naturalmente, ma fino a un certo punto. Io che non vorrei una borghesia ad opprimere una classe subalterna, non chiederò mai ai rom di tentare la scalata sociale per tirar su tutti gli altri, in primo luogo perché questo non avverrà (non è mai avvenuto: Obama non ha migliorato la condizione degli afro-americani negli Usa, come sottolinea il movimento Black Lives Matter), in secondo luogo perché la liberazione di una comunità non può avvenire a scapito dell'oppressione di classe degli altri e delle altre, o ci ritroveremmo a parlare e far politica esattamente come ha fatto la Romania nel 2003.
Come scriveva un mio caro amico e appassionato sostenitore della causa rom, Lorenzo Monasta:
“Cosa intendiamo con “integrarsi”? Non facciamo confusione. Non vuol dire assimilarsi. Se per un attimo prendiamo in considerazione il fatto che in una società integrarsi significhi convivere civilmente ed essere rispettati nella propria diversità, allora può andare bene. Purtroppo le società aperte a questo tipo di integrazione sono rare. Pur essendo ottimista e considerando l'integrazione possibile in una società aperta, quando sostengo che i rom e i sinti vogliono integrarsi provo sempre un forte disagio dovuto alla tristezza che aleggia in colui o colei che pone la domanda, e in chi risponde. Proviamo anche solo un momento a dircelo da soli: “Sono integrato”, “Sono un integrato”, “Mi sento integrato”, “Mi sento pienamente integrato”. Deprimente. Non è bastato essere ottimisti”.
Concludo con un esempio attualissimo per spiegare i rischi legati all'assimilazione di classe delle comunità rom in una società capitalistica.
L'autoproclamato re dei rom, Dorin Cioaba, ha sostenuto pochi giorni fa di voler costruire lui il muro di Trump contro il Messico, e di poterlo fare a prezzi concorrenziali rispetto alla forza-lavoro gagé.
Ecco, pur nella sua eloquente e kitsch improbabilità, questo è un esempio di come una borghesia rom non sia d'aiuto né a proletari gagi né a proletari rom.

Martina Guerrini


Il quartiere pisano del Riglione/
Uno spaccato di umanità e vita sociale

Ogni grande o media città europea, che abbia subito le trasformazioni traumatiche epocali novecentesche ridefinendosi magari in area metropolitana onnicomprensiva, ha spesso fagocitato e inglobato nel proprio grembo paesi del circondario, vecchie comunità nate dai mestieri e dagli esodi, e identità antropologiche culturali significative, rendendo infine tutto livellato e irriconoscibile. E questo sembrava anche il destino del borgo di Riglione, oggi inghiottito dal tessuto urbano di Pisa, situato a sei chilometri appena dalla torre pendente, posto sull'asse viario per Firenze. (Massimiliano Bacchiet, Riglione. “Questa centrale e laboriosa borgata”. Vita sociale e politica 1861-1948, BFS edizioni, Pisa, pp. 242, € 18,00) ci racconta una bella storia toscana di paese, come quelle di una volta; scritta meglio però si direbbe. Antico luogo di transito, ha sviluppato naturalmente una propria vocazione all'accoglienza che si esplicitò inizialmente nelle attività di stallaggio e in osterie approntate per i viandanti e per i barcaioli dell'Arno.
Eventi sociali e politici in dimensione micro si intrecciano, donne e uomini del popolo escono dall'anonimato facendosi protagonisti del nascente movimento operaio, tra sovversione socialista, anarchismo e repubblicanesimo, fra preti e fascisti. Apprezzabile, e decisamente innovativa, la scelta delle cesure: il classico e necessario 1861 come terminus a quo, ma in particolare il 1948 come terminus ad quem.
Lo scenario nazionale oltrepassa di conseguenza il limite formale della seconda guerra mondiale, inserendovi per intero il “decennio della crisi”, ossia la lunga transizione globale dall'età dei fascismi a quella della guerra fredda. La storia locale come genere e approccio alla ricerca ha fatto certamente il suo tempo, almeno in quella accezione subordinata con cui è stata interpretata per una buona parte del secolo scorso, ma oggi si deve piuttosto parlare di una dimensione “spaziale”, indispensabile per cogliere in una prospettiva epistemologica un campo d'indagine ridotto al fine di una comprensione totale di ogni aspetto. È polvere di storia e, per dirla con Delio Cantimori, storico d'altri tempi: sono piccoli fatti che, ripetendosi, si affermano come realtà seriale; ciascuno di essi attesta per migliaia di altri che attraversano in silenzio lo spessore del tempo e durano... Sono le vicende di un microcosmo culturale toscano viste sul lungo periodo, analizzate e verificate negli snodi e nei cambiamenti epocali salienti: unificazione nazionale, industrializzazione e nascita del movimento operaio.
Alle origini di tutto ci sono le passioni della modernità che incombe e le nuove attività economiche che rimodellano territori e persone. Nel pisano, come altrove del resto, l'identità contadina e il sistema mezzadrile erano prevalenti. Una folta classe di braccianti o “pigionali” popolava i sobborghi ed il tessuto economico iniziava a caratterizzarsi per la presenza di piccole manifatture soprattutto nei settori tessile, vetrario e laterizi. Nascevano inedite culture del lavoro e, insieme, nuovi stili di vita e identità comunitarie. La tipica sociabilità e il mutualismo di marca operaia iniziavano così a manifestarsi tra le classi subalterne, con un forte impronta sovversiva, preludio a un'epoca che sarà consacrata alle azioni dirette.
Il volume, suddiviso in dieci capitoli in scansione cronologica, è corredato da un apparato iconografico di straordinaria bellezza, fra cui emerge lo stendardo nero con frange rosse del Gruppo anarchico “Demolizione” di Riglione. È proprio il caso di dire che c'è davvero “Un'altra Italia nelle bandiere dei lavoratori”. Una parte importante del libro è dedicata all'anticlericalismo che, insieme all'antiautoritarismo e alle lotte sindacali, costituisce la cifra otto-novecentesca dei movimenti popolari: nel nome di Ferrer e Giordano Bruno, nel nome di Galileo Galilei.
Dall'albero della libertà inneggiante alla repubblica il filo narrativo prosegue sostenuto: con “gli opranti che escono dai telai” e la diffusione dei “pensieri ribelli”, con la lotta al prete e l'apostolato laico, con anarchici, clericali e la lontana guerra europea, con Arditi del popolo e camicie nere, con la nuova guerra mondiale e le speranze della ricostruzione.
“In questa complessa storia c'è, lo ricordiamo, – ha scritto il prefatore Mauro Stampacchia – il nucleo essenziale della storia del paese Italia. Un cammino di ascesa, della parte di popolazione confinata senza speranza a un ruolo marginale e non rilevante nella società e nella politica, che si rovescia nel suo contrario e cioè nella realizzazione di un percorso di emancipazione.”
Lo storico locale, una volta, era una figura con un preciso cliché: parroco, farmacista, maestro o comunque figura di riferimento nel paese che si prefiggeva unicamente di illustrare memorie civiche e di rinverdire le glorie del campanile.
Poi è stata la volta dei testimoni/protagonisti dei grandi eventi novecenteschi, spesso militanti politici, tutti tesi ad inserire il proprio vissuto nell'epopea nazionale. Infine siamo approdati a studi di questo tipo, basati sulla compulsa di un'ampia gamma di fonti, condotti da autori che hanno messo insieme due elementi che sono ormai indispensabili: passione e ferri del mestiere. È una lettura questa, adatta anche ai non-pisani.

Giorgio Sacchetti


Cernobyl' e Fukushima/
Dimenticare, perché il nucleare continui

Arkadij Filin non è il nome dell'autore, ma lo pseudonimo scelto dalle tre persone che hanno scritto questo libro Arkadij Filin – (Dimenticare Fukushima, Istrixistrix, pp. 208, € 10,00) per rendere omaggio a uno dei cosiddetti liquidatori di Cernobyl' (quelli che hanno materialmente cercato di mettere in sicurezza e di ripulire il territorio, morendo come mosche) e stabilire in questo modo una continuità tra quelli che sono i due eventi determinanti nello svelamento delle recondite meraviglie dell'energia nucleare.
Il disastro sovietico appartiene a un mondo antico, nel quale Ucraina e Bielorussia – destinatarie della gran parte delle radiazioni – erano semplici regioni dell'Urss, tirannico impero notoriamente dotato di tecnologie arretrate e di incompetenti apprendisti stregoni che mettevano le mani in un obsoleto quanto pericoloso giocattolo che scoppiò loro tra le mani. La centrale Lenin in quel lontano 1986 sparse in giro per l'Europa e per il mondo intero gli effetti collaterali di uno sviluppo energetico che si voleva e si vuole progressivo e illimitato, suscitando una diffidenza diffusa che portò in alcuni paesi come l'Italia al blocco della costruzione delle centrali e in altri, come la Francia – da dove provengono gli autori del testo – all'allestimento di un potente apparato persuasivo volto al sostanziale oblio della catastrofe, anche grazie all'occultamento di dati, per riempire il proprio territorio di reattori “puliti e sicuri”.
Dopo venticinque anni anche i poveri nuclearisti nostrani avevano rialzato la testa ed erano ormai proiettati verso un rilancio della politica atomica quando un brutto giorno di marzo del 2011 a un terremoto si aggiunse un maremoto che investì la centrale di Fukushima sulle coste del supertecnologico e democratico Giappone. Tra l'altro i sei reattori gestiti dalla Tepco, una società giapponese, erano di costruzione della General Electric, quindi macchinari americani, roba della quale ci si può fidare. Quello che avvenne nell'impianto non è in fondo particolarmente degno di nota, essendo la semplice conferma del fatto che se ci si affida a una tecnologia scarsamente controllabile questa prima o poi andrà fuori controllo.
Molto più interessante è ciò che avvenne – e avviene ancora oggi – fuori dall'impianto. L'idea di gestione del disastro emerse nitidamente nelle parole e nelle azioni degli uomini del governo giapponese, della Tepco, dell'informazione, di tutti gli uomini di potere. Le notizie sulla gravità della situazione vennero sistematicamente minimizzate e agli abitanti della regione non fu consentito di sapere quali rischi correvano, se fosse necessario, opportuno, inopportuno o impossibile andare via da lì, quali sarebbero stati gli effetti sui bambini e sulle future generazioni. Nelle duecento pagine di questo volume il quadro viene dipinto in maniera sufficientemente dettagliata mettendo in luce aspetti che se non fossero tragici potrebbero rientrare nelle spirali comiche di un cabaret dell'assurdo. Voglio solo citare la questione della “radiofobia” tirata in ballo dal vicerettore della Facoltà di medicina il quale il 20 marzo 2011 dichiarò pubblicamente che: “Chi sorride non patirà danno alcuno dalla radioattività, questa colpirà solo chi sarà preoccupato. Se affrontate la situazione, per quanto difficile possa essere, ecco che la radioattività non vi colpirà. Ad ogni modo 100 µSv/ora non rappresentano un pericolo per la salute.” Per poi precisare in un'intervista successiva: “Grazie alla sperimentazione sui ratti sappiamo chiaramente che gli animali stressati sono quelli più colpiti dalle radiazioni. Lo stress non fa per niente bene a gente che sia stata soggetta a radiazioni. “D'altronde uno stato mentale di stress indebolisce il sistema immunitario e di conseguenza può favorire l'insorgere di alcune malattie cancerogene e non.”
Ritengo che ogni commento sia superfluo.
Oggi la parola d'ordine è, come recita il titolo – Dimenticare. Un oblio necessario per non mettere in discussione un'idea di benessere dove produzione e consumo di energia possano essere illimitati e soprattutto diretti dall'alto da tecnici dall'indiscutibile competenza. Il tutto fino alla prossima centrale che salta, chissà dove.

Giuseppe Aiello