Rivista Anarchica Online


salute

Scelte terapeutiche e soggettività

di Chiara Gazzola


Una riflessione sul potere normativo della medicina e sulle libertà individuali, sulla percezione del malessere e sull'importanza del contesto relazionale e della solidarietà.
La salute si può coniugare con l'autogestione?


Quando sentiamo che il nostro corpo non risponde più come vorremmo – a causa di un malessere, di un dolore, di un'invalidità – ci sentiamo costretti ad interrompere le nostre abituali attività per rivolgerci a qualcuno che sappia diagnosticare e proporre una terapia. Sembrerebbe una banalità, ma nel momento in cui ci troviamo a prendere le decisioni che la rottura dell'equilibrio (perdita della salute) ci impone, entrano in gioco molteplici varianti. Dall'esigenza di una spiegazione concepiremo un lessico di sintomatologie, cause e rimedi possibili, distinguendo l'emergenza, la cronicità, le situazioni transitorie.
Quando si parla di filosofia della medicina, non sempre si valuta quanto i diversi approcci diagnostici e terapeutici, diversi dal punto di vista culturale e tecnico, siano condizionati dalle persone che li interpretano. In medicina si instaura un rapporto tra le tecniche utilizzate, le sofisticate tecnologie e il sistema di valori che le persone coinvolte trasmettono. La competenza del medico è calibrata anche sulla fiducia, su una soggettiva o istintiva percezione della sua “umanità”: è la persona tramite la quale accettiamo di prendere consapevolezza del nostro non star bene mentre elaboriamo i significati che sentiamo più consoni. Le scelte individuali sono il riflesso di condizioni socioeconomiche, ciononostante non dovremmo escludere che qualsiasi spiegazione, anche se accertata da strumenti oggettivi, potrebbe essere stravolta da altri approcci di valutazione e linguaggio.

Eutanasia, aborto, elettroshock...

La filosofia della medicina abbraccia una vasta gamma di riflessioni proprio perché molteplici sono i riferimenti culturali e le varianti umane che si instaurano nell'incontro fra individualità, quelle predisposte a fornire un aiuto e quelle che lo richiedono. Ci si avvale di tecniche che in alcuni casi possiamo considerare oggettive, ma le reazioni soggettive – fisiologiche e psicologiche – daranno al percorso curativo esiti inaspettati. Fra le tante scuole di pensiero esistono ancora anche quelle che considerano il corpo umano come un insieme di funzionalità meccaniche, tanto che sostengono che una data sostanza reagisca sempre in maniera univoca a contatto con i nostri sistemi anatomici.
D'altro canto, pur quando si ammette che la medicina non sia una scienza esatta, si faticano ad individuare possibilità terapeutiche differenti da quelle sancite dal sistema sanitario nazionale sia a causa di una carenza di opportunità, sia per ritrosie culturali che vanno poi a sancire il pensiero unico della deontologia medica spesso debitrice delle medesime commissioni bioetiche che vietano l'eutanasia, annullano dagli ospedali il servizio di interruzione della gravidanza e incrementano l'uso dell'elettroshock. (L'accostamento di questi due ultimi esempi non è casuale, il ripristino in larga scala della TEC – terapia elettroconvulsiva – ha applicazioni preferenziali sulle “crisi” femminili, come il rifiuto della gravidanza o la cosiddetta “depressione postpartum”). Se così non fosse, perché periodicamente si lanciano campagne allarmistiche per criminalizzare quella minoranza di terapeuti che sollevano dubbi sulla bontà della “medicina ufficiale”?
Attualmente si è riscatenata l'offensiva sui soggetti contrari all'obbligo vaccinale: si sminuisce la probabilità dei danni alla salute, si censura il dibattito su additivi e metalli pesanti, si minacciano gli operatori sanitari di radiazione dall'albo, si ricattano i genitori. Ad esempio si sostiene che sicuramente non vi sarebbe alcuna relazione fra autismo ed effetti collaterali dei vaccini, ma si dimentica di dire che l'Organizzazione Mondiale della Sanità descrive l'autismo come una probabile forma di intossicazione e allora perché troppo spesso si affida la “cura” a neuropsichiatri che danno per scontata la causa genetica della patologia? Perché si liquida ogni proposta di approfondimento sull'argomento?

La soggettività del male

In ogni campo la libertà di scelta terapeutica si riduce, e per pazienti ed operatori diventa sempre più difficile distanziarsi dai rigidi protocolli sanitari formulati per dequalificare ogni altro approccio, sia alle diagnosi che alle cure. La soluzione dovrebbe essere cercata all'interno delle valutazioni che la persona sofferente attribuisce al proprio “sentirsi male”. A volte vengono consultati diversi specialisti; la scelta cadrà sulla situazione che offre maggiore convinzione o su quella economicamente più vantaggiosa. Sembra paradossale e razionalmente inspiegabile che vi siano tanti pellegrini che trovano guarigione dopo aver pregato in un santuario! Si grida al miracolo, ma in realtà la Chiesa ne comprova una minima parte; nonostante ciò le testimonianze comunicano una soddisfazione più diffusa... si potrebbe liquidare il discorso relegandolo all'ambito delle illusioni o si dovrebbe spostare l'analisi su quanto possa essere importante la percezione soggettiva di un malessere o sulle differenti motivazioni che le persone possono avere per descrivere se stesse come sofferenti o sul giovamento tratto dalla condivisione sociale di un'esperienza. Del resto molti individui convivono con mali cronici, terapie costanti e dicono di star bene: hanno trovato una spiegazione, una positiva accettazione di un deficit di salute che dà nuovi significati all'esistenza.

Il condizionamento della religione

In medicina trovano concretezza tutte le riflessioni che coinvolgono gli studi delle scienze umane, dalla sociologia all'antropologia, dalla criminologia alla psicologia, dalla storia delle religioni alla filosofia. Si potrebbe anche appurare quanto, in campo medico, qualsiasi tecnica incontri la vitalità dei corpi: corpi che sono persone e quindi corpi in grado di agire, pensare, scegliere; tecniche che stabiliscono il confronto di menti ed energie: quelle di chi soffre, quelle qualificate a dare aiuto, quelle che offrono il necessario supporto. Vi sono scuole di pensiero totalmente condizionate dall'impostazione cristiana che valuta ogni male/malattia come un'aggressione di agenti esterni, nei casi estremi la colpa ricade sul diavolo che induce a peccare, in tutti gli altri viene considerata una conseguenza di “cattivi comportamenti” (sempre riconducibili a peccati giudicati da un dio che punisce) o di qualcosa che penetra nel corpo per farlo soffrire.
Questa impostazione prevede che le cure tolgano quella presenza indesiderata, perciò lungo la storia si è ricorso alle purghe, ai salassi, alla chirurgia o a farmaci che annientano o fanno espellere la causa del male. François Laplantine in Antropologia della malattia, fra altre interessanti riflessioni, propone la contrapposizione fra i modelli terapeutici additivi e quelli sottrattivi, conseguenti alle differenti spiegazioni sulle cause delle malattie: al corpo viene meno qualcosa o il corpo è stato attaccato da qualcosa di estraneo che lo manda in tilt. Nella cultura islamica per moltissimo tempo non si sono praticati interventi chirurgici, si è evitato di procurare perdita di sangue o di linfa in quanto la malattia veniva giudicata come una mancanza o un'assenza, mentre la cultura cristiana protende al modello esorcistico dell'espulsione del male. Nella contrapposizione però entrambi i sistemi culturali si reggono su una prevenzione basata sul digiuno, sul sacrificio, sull'espiazione: corpi e anime unite nella rassegnazione. Il limite fra rimedio curativo e veleno è sempre stato labile, fin dalle antiche attribuzioni del termine phármakon!
La riflessione si inoltra sempre più nell'ambito prettamente filosofico. A titolo di esempio, si può citare la psicosomatica in quanto scuola che offre un approccio solitamente non invasivo e molto distante da quello elaborato dai positivisti: i disturbi fisiologici originano diverse reazioni psicologiche, ma il malessere psicologico può a sua volta scatenare dolori e patologie organiche; quanto meno si apre un'estrema variabilità di cause e reazioni soggettive.
Come traduciamo nella nostra esperienza il concetto di salute? Come il rimanere vicino ai parametri previsti da tabelle convenzionali, come assenza di sintomatologie o come una forma di equilibrio soggettivo? Le tre opzioni non sono completamente in contrapposizione: abbiamo bisogno di un riscontro oggettivo, ma allo stesso tempo rielaboriamo un senso del benessere appreso con l'esperienza, unica e irripetibile, che in certi casi coincide all'emancipazione dai condizionamenti del passato. Vi sono persone, invalidate da patologie molto serie, che riescono non soltanto a comprendere e accettare la propria condizione, ma anche a scoprire in se stesse una volontà sconosciuta. Per altre è invece difficile superare la rottura di un equilibrio, abbandonare vecchie convinzioni e prendere consapevolezza dei cambiamenti dovuti all'età o ad una malattia e la crisi che ne consegue è più psicologica che fisiologica. Sarebbe una violenza giudicare il senso di angoscia, di disperazione o di apatia attraverso ulteriori categorie patologiche e una parte della psichiatria si è proprio specializzata in questo: nel medicalizzare, attraverso diagnosi che sintetizzano un giudizio negativo sancito su un comportamento, ogni reazione valutata come anormale anziché offrire strumenti di consapevolezza o di supporto accessibili soltanto ai cosiddetti ceti abbienti. È una modalità medica che offre la sponda ad ogni politica repressiva e di controllo sociale, si fortifica sull'alibi di conoscere che cosa sia la normalità, senza per altro saperla spiegare: da quando esiste, la psichiatria classifica le proprie nomenclature a seconda del vento più vantaggioso, fornendo spiegazioni approssimative e imponendo cure invasive.

Psichiatria e repressione

L'obbligo di cura contraddistingue i protocolli psichiatrici, fino alle conseguenze più tragiche, ed estende questa metodologia ad ambiti che parrebbero avulsi dal settore dimostrando quanto questa disciplina sia sempre più al servizio del potere repressivo. In alcuni casi si constata quanto anche altre specializzazioni mediche siano condizionate da un determinismo implicito quando, nel considerare il paziente ignorante ed incapace di scegliere, offrono un'unica via di soluzione.
Nel dare senso alle responsabilità individuali e sociali entrano in gioco non soltanto la scarsa efficienza (disorganizzazione? negligenza? superficialità?) del sistema sanitario pubblico che obbliga l'utente a rivolgersi al privato o la carenza di strutture di riabilitazione, di sollievo e di supporto degne di questo nome, ma soprattutto i ritmi imposti dal sistema di sviluppo che inibiscono la solidarietà che un tempo si avviava spontaneamente. L'era tecnologica ha trasformato il rapporto con la malattia e la cura in un problema dell'individuo: per quanto possa trovare condivisione, qualsiasi problematica ne derivi, ad affrontarla sarà soltanto chi ne è investito personalmente, tanto il mondo continuerà a correre e a produrre per i fatti suoi anche quando viene comprovato che la causa di una malattia è ambientale o riconducibile a forme di tossicità dalle responsabilità ben definite. Come per qualsiasi altra esperienza, anche nell'affrontare una malattia è, invece, fondamentale la qualità delle relazioni che si instaurano: soltanto questa può contribuire a scelte differenti da quelle imposte e allo stesso tempo si rinnoverà grazie al reciproco coinvolgimento.
Le problematiche che riguardano la salute sono innumerevoli e perché non cominciare ad individuare nuove possibilità per farci carico, in senso autogestionario, anche di progetti che possano trasformare le esigenze della senilità, delle cronicità e della sofferenza, in esperienze qualitativamente vitali?

Chiara Gazzola