Rivista Anarchica Online


sport

Sovversivi anche nello sport

di Felice Fabrizio


Uno sguardo anarchico sulle attività motorie del primo dopoguerra.
In specifico, un articolo apparso sul quotidiano anarchico “Umanità Nova” del 23 agosto 1921. Interessante per lo sguardo critico e soprattutto perché in quegli anni è stato l'unico intervento anarchico sulla tematica sportiva. Perlopiù trascurata, non solo allora.


Germogliato negli ultimi trent'anni del XIX secolo nelle realtà urbane più evolute, lo sport italiano evidenzia tre caratteristiche che ne contraddistinguono lo sviluppo fino alla presa di possesso da parte del regime fascista.
La prima e più marcata è una natura composita che rispecchia una sostanziale carenza di originalità. Nel modello sportivo nazionale allo stato nascente confluiscono la ginnastica e il tiro a segno, finalizzati all'addestramento alle armi, antiche arti accademiche quali la scherma e l'equitazione, giochi tradizionali pilotati dal popolarissimo gioco del pallone, l'ippica e la caccia, svaghi prediletti dalle classi dominanti, discipline a sfondo agonistico importate dalla Gran Bretagna tramite la mediazione francese.
La seconda va individuata nel ruolo marginale assunto dalle attività fisico-sportive nell'ambito del discorso nazionale. Prive di un centro propulsore in grado di imprimere indirizzi unitari, mancanti di autorevoli padri fondatori alla De Coubertin, esse sono trascurate tanto dai governi e dalle amministrazioni locali quanto dalle uniche istituzioni, la scuola e l'esercito, in grado di attraversare l'intero corpo sociale.
I significati sociali e culturali del fenomeno sportivo sfuggono infine all'attenzione del mondo intellettuale, incapace di elaborare schemi interpretativi idonei a rendere conto del suo progressivo inserimento nel costume nazionale.
Ne è un segno evidente l'approccio alle tematiche sportive da parte del movimento operaio. Permeato da un politicismo che circoscrive la militanza al lavoro teorico affidato ai circoli e alle sezioni, insensibile all'affiorare tra i ceti popolari di esigenze di partecipazione e di ricreazione legate a quelle che Filippo Turati chiama “le altre otto ore”, il socialismo italiano si attesta sulle posizioni di un intransigente antisportismo che segue la linea Acciarito-Mussolini.
Pietro Acciarito, l'anarchico che nel 1897 tenta di accoltellare Umberto I, diretto ad un'importante riunione ippica romana, in sede processuale motiva il suo gesto dichiarandosi indignato di fronte ad un sovrano disposto a spendere 24.000 lire per l'acquisto di un cavallo mentre il suo popolo muore di fame. Dal canto suo il futuro “primo sportivo d'Italia” non esita ad incitare i giovani socialisti a cospargere di chiodi le strade percorse dal Giro d'Italia, indicando nello sport un nuovo e potente oppio dei popoli.
Trincerandosi nella riprovazione di ciò che viene letto alla stregua di consumo vistoso e superfluo, delle fatiche disumane richieste dalle pratiche agonistiche ad un proletariato abbrutito dalla fatica, di un professionismo sportivo misconosciuto nella sua funzione di strumento di emancipazione sociale ed economica, il movimento operaio ottiene un duplice effetto.
In primo luogo abbandona a loro stessi i temerari che, a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, hanno creato dal nulla, nelle cantine, nelle osterie, in microscopiche società di quartiere, i primi sport in cui si esprime appieno la cultura operaia, il podismo, la lotta, il sollevamento pesi, caduti in breve tempo nelle mani di spregiudicati impresari che li trasformano in spettacoli commerciali.
Il disimpegno finisce per di più con il consegnare per intero lo spazio delle attività motorie alle forze reazionarie: i cattolici, che nei circoli giovanili e negli oratori si servono dell'esercizio fisico come meccanismo di adescamento e di formazione dell'elemento giovanile; il “vario nazionalismo” che, utilizzando come cassa di risonanza la stampa sportiva, identifica le prime affermazioni internazionali dello sport nazionale come altrettanti segnali dell'impetuosa riscossa della Terza Italia e della Grande Proletaria. Questa corrispondenza di amorosi sensi troverà espressione compiuta nel sostegno generalizzato offerto dal sistema sportivo alle tesi interventiste.
L'inerzia sul piano delle realizzazioni effettive ed il deficit accumulato sul versante culturale si rivelano ancora più anacronistici e perniciosi negli anni convulsi del primo dopoguerra, caratterizzati dall'irruzione sulla scena di masse alla ricerca di un coinvolgimento diretto nelle vicende quotidiane, dal delinearsi di inedite modalità di lotta politica affidate all'azione diretta ed allo scontro fisico con gli avversari, dalla crescente importanza assunta da due settori strategici, il mondo giovanile e quello operaio, il cui controllo acquista un peso decisivo.
Il totale mutamento degli scenari non vale tuttavia a scuotere dall'immobilismo le forze progressiste, lacerate da profondi contrasti, ma accomunate dalla sottovalutazione del pericolo mortale rappresentato per le libertà democratiche dal fascismo. Alla frammentarietà e alla fragilità delle iniziative fa riscontro invece il perfezionamento degli strumenti di lettura della realtà sportiva, esercizio in cui si cimentano leader carismatici, intellettuali organici, militanti di base appartenenti a tutte le correnti ideologiche, riformisti e sindacalisti, massimalisti, terzinternazionalisti e comunisti.
I numerosi interventi in materia ospitati dai giornali del movimento operaio seguono in genere uno schema fisso. Viene posta in evidenza l'origine anglosassone dello sport, espressione di una civiltà capitalistica che esalta i valori borghesi della prestazione, della concorrenza, del successo. Se ne denuncia l'uso a fini politici intrapreso dalle classi egemoni. Si stigmatizzano gli aspetti degenerativi, a partire dalla commercializzazione e dalla professionalizzazione delle pratiche. Si deplora il ritardo accumulato dai partiti di sinistra. Si formula il fermo proposito di recuperare al più presto il tempo perduto. Si abbozza un'ipotesi di sport “proletario” largamente debitrice alle esperienze sovietiche.

Ciclisti fascisti

Ma su Umanità Nova...

Dal dibattito è quasi del tutto assente il movimento anarchico, che sta vivendo una delle pagine più tragiche della sua tormentata storia. Il 1921 segna in questo senso un'autentica cesura. Il sanguinoso attentato compiuto il 23 marzo nel teatro Diana comporta la decapitazione della dinamica Unione Anarchica Milanese e l'incendio della sede del quotidiano “Umanità Nova”, costretto a trasferire a Roma la redazione chiusa definitivamente nel 1922.
L'unica eccezione, a quello che mi è stato dato di riscontrare, è rappresentata da un articolo apparso su “Umanità Nova” il 23 agosto 1921 sotto il titolo pitigrilliano di “Cocaina sportiva”.
Ne è autore Nello Papini, un “giovane anarchico” sul quale le storie e i dizionari biografici del movimento operaio non forniscono alcuna informazione. La natura estemporanea di un contributo che non avrà altro seguito è compensata dall'ampiezza e dalla perspicacia della ricognizione.
Chiunque esso sia, qualunque sia il suo angolo geografico di visuale, Nello Papini, a differenza di molti censori improvvisati, conosce da vicino ciò di cui parla.
Ho enucleato i quattro concetti chiave dell'articolo cercando di verificarne la corrispondenza alla realtà fattuale.

1 - L'apoliticità dello sport

Si ha un bel dire da parte dei magnati delle varie federazioni e società: lo sport è apolitico. Nossignori. Non è vero. Se certe società non sono sorte unicamente a scopo di propaganda nazionalista, coll'andare del tempo tale propaganda diventa conseguenza diretta dei loro atteggiamenti”.

Nulla è più vicino al vero. Negli anni compresi tra la fine della Grande Guerra e l'instaurazione della dittatura la mobilitazione degli individui e delle masse abbraccia, con un'intensità senza precedenti, tutti i settori della vita politica e sociale.
Alla chiamata alle armi rispondono entusiasticamente anche le attività motorie. Per limitarci al contesto milanese, che è quello da me meglio conosciuto, la promozione di associazioni sportive, ricreative, paramilitari impegna l'Associazione Nazionale Combattenti, i futuristi, l'Associazione Arditi d'Italia, i nazionalisti, i cattolici, l'arcipelago liberale, i radicali, i repubblicani. (Per un'analisi più approfondita del tema rimando al mio saggio, di imminente pubblicazione presso la casa ditrice milanese Sedizioni, “Battaglie sportive. Politica e attività motorie a Milano dal 1919 al 1927”).
Il dogma dell'agnosticismo sportivo, proclamato con solennità dagli statuti federali e societari, viene quotidianamente contraddetto, dimostrando una volta per tutte il suo carattere mistificatorio.

Esercitazioni nel campo sportivo di Forlì

2 - Sport e fascismo

Sovversivi fascisti partecipano a gare che mettono in palio trofei commemoranti fascisti uccisi”

Nello Papini coglie qui uno degli aspetti più appariscenti della marcia del fascismo proteso all'espugnazione della cittadella sportiva. La precoce attenzione evidenziata dal movimento fascista nei confronti delle attività fisico-sportive risponde a motivazioni di natura strumentale ed ideologica. Le palestre, i poligoni di tiro, i campi sportivi assumono la funzione di punti di raccolta e di preparazione degli squadristi. L'associazione sportiva diventa la copertura ideale delle finalità eversive delle bande armate.
La crescente popolarità del fenomeno sportivo offre inoltre una chiave di accesso a strati sempre più ampi della popolazione.
In questo settore infine i fascisti possono contare su una schiera di fedeli alleati e di utili compagni di strada: dirigenti, atleti, giornalisti. Al tempo stesso appare lampante il nesso esistente tra i principi che sorreggono il sistema sportivo ed il nucleo delle suggestioni culturali alle quali il fascismo attinge per predisporre una piattaforma dottrinaria: i deliri nazionalisti, il dinamismo futurista, l'enfatizzazione delle forze istintive, del vitalismo, della fisicità, della concezione agonistica della vita.
Il graduale processo di fascistizzazione degli ambienti sportivi, frutto di strategie non sempre lineari e coerenti, segue un duplice itinerario. Il primo si concretizza nella fondazione di società e di commissioni sportive fasciste e nella promozione di eventi riservati alle camicie nere. Il secondo prevede l'infiltrazione di elementi fidati negli apparati federali, nei consigli direttivi delle società “apolitiche”, nelle redazioni dei giornali.
In entrambe le direzioni si persegue l'obiettivo di presidiare territori scoperti mediante il varo di istituzioni operanti in tutte le sfere della vita quotidiana, un aspetto non sempre tenuto nella debita considerazione dagli storici, preoccupati soprattutto di sottolineare i caratteri violenti e sopraffattori del movimento.
Coglie dunque nel segno Hannah Arendt quando, a proposito del totalitarismo, parla di “infallibile istinto per tutto ciò che la normale propaganda di partito e l'opinione pubblica passano sotto silenzio” e di eccezionale rilievo conferito “ad ogni cosa nascosta o ignorata, a prescindere dalla sua importanza”.

3 - Cocaina sportiva

Nel campo dei gregari la politica è cocainizzata dallo sport. Difatti noi vediamo dei giovani i quali ad una questione politica di materiale interesse o alle questioni sociali in genere antepongono l'esito di una gara sportiva (…) E i lavoratori si prestano come automi al giuoco degli avversari e si pongono in stridente contrasto con i loro ideali”.

Nell'opinione di Papini la regista neppure troppo occulta dell'operazione è “La Gazzetta dello Sport”, la “formosa balia di tutti gli sports, dalle mammelle turgide e capaci. La quale Gazzetta dello Sport fa della politica e della politica filofascista”. Ed è proprio sulle pagine della “formosa balia” che nel 1920, l'anno in cui la conflittualità di classe tocca l'apice con l'occupazione delle fabbriche, prende avvio una lunga ed interessante diatriba che pone al centro il tema dei gruppi sportivi operai. La loro promozione ed il loro coordinamento rientrano nelle politiche di paternalismo aziendale attraverso le quali i padroni del vapore intendono appropriarsi dell'intera esistenza dei lavoratori all'interno e al di fuori delle fabbriche.
Il movimento operaio, risoluto nel deplorare l'intento di “disviare la gioventù operaia dall'interessarsi alle proprie condizioni di asservimento al capitale”, non predispone alcuna contromisura adeguata. In assenza di organismi di classe, i generosi mecenati e i “interessati” benefattori sono lasciati liberi di dare vita a circoli al cui interno i proletari non hanno alcun potere decisionale sugli indirizzi programmatici e sulle strutture direttive.
Altrettanto miope si rivela l'approccio all'universo giovanile da parte delle forze progressiste, convinte che per contrastare l'azione delle Avanguardie, delle legioni di Balilla, dei Gruppi Universitari Fascisti siano sufficienti le federazioni giovanili, che non godono di margini reali di autonomia e sono impegnate a scimmiottare la politica politicante dei fratelli maggiori, ed il drappello dei ricreatori laici proletari.
Questi ultimi, costituiti sulla falsariga dei ricreatori laici di ispirazione massonica in antitesi agli oratori cattolici, si configurano come entità fragili, prive di sedi autonome e perciò costrette ad utilizzare attrezzature scolastiche delle quali le amministrazioni locali, al primo mutare del vento, si affrettano a negare la concessione.

Giro d'Italia 1935

4 - Anarchia e sport

È tempo che noi anarchici esprimiamo chiaramente il nostro pensiero sullo sport”, afferma Papini avviandosi alle conclusioni.
Nell'affrontare una serie di punti cruciali il “giovane anarchico” non si discosta dall'ottica in virtù della quale tutti i partiti di sinistra rinviano la soluzione dei problemi all'indomani dell'imminente rivoluzione.
Nella società anarchica avvenire tutte le brutture e le imposture che attualmente sono nello sport dovranno scomparire”.
L'eliminazione dei giochi al massacro deformanti ed alienanti, della deriva affaristica che trasforma i campioni in “miserabili cartelli-réclame avvezzi ad ogni sorta di inganni”, del monopolio borghese sulle associazioni e sulle attività, dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo è dunque legata ad una radicale trasformazione dei rapporti di classe: “non ci potrà essere uno sport veramente libero se non in un libero stato operaio”.
Se nella società anarchica esercitazioni sportive occorreranno veramente per rinvigorire i muscoli, a questo scopo basterà la sola ginnastica da camera, la cosiddetta ginnastica svedese, che si può fare in ogni momento e senza una grande perdita di tempo”.
Si tratta in definitiva di forgiare una “massa quanto più numerosa di uomini in grado di ottenere il massimo rendimento delle loro capacità psico-fisiche”, di “preparare per il futuro generazioni più sane”, di “elaborare un sistema razionale di educazione fisica come parte integrante del programma di preparazione rivoluzionaria”.
Che i sovversivi che ingrassano le file delle società sportive aprano finalmente gli occhi e buttino a mare i presidenti delle loro società e federazioni gridando sul loro muso: basta, non ci turlupinate più! Coloro che poi vorranno coltivare altri rami dello sport potranno unirsi in libere associazioni le quali, senza dipendere da nessuno, potranno organizzare gare con altre società del genere”.
Nello Papini tocca qui tre nodi nevralgici mai completamente sciolti dal movimento operaio: la fisionomia sociale delle associazioni sportive, l'opportunità di predisporre un ente regolatore, le relazioni con il sistema sportivo.
In merito alla prima questione il confronto si apre tra i riformisti fautori di sodalizi interclassisti estranei agli apparati partitici ed i sostenitori di sodalizi costituiti sulla base dell'appartenenza di classe. A farsi interpreti della linea intransigente sono le due entità più solide promosse dalle forze progressiste sul terreno delle attività motorie, l'Associazione Proletaria per l'Educazione Fisica (A.P.E.F.) e l'Associazione Proletaria Escursionisti (A.P.E.), fondate a Milano tra il 1920 ed il 1921. L'A.P.E.F. ammette nelle sue file solo gli iscritti al Partito Socialista, alla Federazione Giovanile Socialista, alla Confederazione Generale del Lavoro, l'A.P.E. “tutti coloro che si trovano nelle direttive della lotta di classe e che esplicitamente dichiarano di aderire a queste direttive”.
Coerentemente con il pensiero anarchico Papini rifiuta con fermezza l'ipotesi di assoggettamento ad una struttura centrale, che costituirà per contro l'obiettivo dichiarato e mai ottenuto per il persistere tra le diverse correnti ideologiche di irrevocabili veti incrociati dell'A.P.E.F., dell'A.P.E., della Confederazione Generale del Lavoro e soprattutto della rivista milanese “Sport e Proletariato”, la cui effimera esperienza si consumerà nella seconda metà del 1923. L'appello alla rottura netta dei rapporti con l'organizzazione sportiva nazionale lanciato da Papini riflette infine l'atteggiamento prevalente tra le file del proletariato che ha come unica eccezione significativa la scelta adottata dall'A.P.E.F..
La solida polisportiva milanese si affilia alle federazioni nel tentativo di introdurvi i propri principi ideologici, si inserisce nel circuito dei principali eventi agonistici, oppone ai campioni della borghesia i suoi “Ercoli proletari”, uno dei quali, Giuseppe Tonani, si aggiudicherà nel 1928 ad Amsterdam la medaglia d'oro nel sollevamento pesi, a dimostrazione di come, “pur combattendo il campionismo, si possa raggiungere il campione dei campioni, selezionato e coltivato razionalmente”.
Noi siamo sovversivi e come tali vogliamo dare le nostre forze non allo sport, ma alla causa della rivoluzione. Lo sport, se mai, lo faremo dopo: a rivoluzione compiuta”.
Nella fiera dichiarazione di intenti di Nello Papini è compendiata l'irresolutezza dei partiti di sinistra, facile bersaglio di un penetrante intervento di Vittorio Varale apparso su “La Gazzetta dello Sport” del ventitré giugno 1919. “Voi predicate la lotta e intanto esaltate lo spirito della lontananza da ogni manifestazione che insegna ed allena divertendo ad essere forti, svelti, pronti per l'appuntamento con le grandi giornate. Voi siete rivoluzionari da tavolino che lasciate agli altri l'onere e il pericolo di avanzare a testa alta nella lotta. Voi siete vecchi, siete imbevuti di dottrine e teorie che non hanno più corso. La parola è ai fatti e i fatti si osano con l'azione e l'azione scaturisce dal gesto potente mosso da una mente allenata a lottare. Forse la grande prova è vicina. E bisognerà provare che non si può essere giovani ed arrogarsi il diritto di cambiare il mondo se non si sente un'irresistibile brama ad arrischiare l'incolumità della propria carne per qualcosa di grande, di bello, di buono. Lo sport è una scuola, un'iniziazione a quella lotta. Chi vi passa esce rafforzato ed allenato nello spirito e nel corpo. Chi lo nega è un rivoluzionario all'acqua di rose incapace di scagliare una bomba e di arrampicarsi su una barricata”.

L'Atalanta della stagione 1913-14

Minacciosi proclami e truculente promesse

Tra il 1919 ed il 1922 il cammino del movimento operaio italiano è costellato di mancati appuntamenti con le grandi giornate. Basti pensare alla riflessione, tutta teorica, sulla legittimità della lotta armata intrapresa da capi e da seguaci intrisi di un pacifismo prampoliniano e di un antimilitarismo oltranzista che paralizzano ogni possibilità di ribattere colpo su colpo le bravate di arditi, futuristi, fascisti, teorizzatori della violenza quale levatrice della storia.
Avviene così che mentre tutti i movimenti politici ed ideologici si affrettano a predisporre strutture paramilitari che coniugano preparazione fisica e addestramento alle armi, l'Avanguardia cattolica, i Sempre Pronti nazionalisti, le brigate delle camicie cachi liberali, le squadre giovanili radicali, le Avanguardie repubblicane, i “proletari senza rivoluzione” devono accontentarsi di minacciosi proclami e di truculente promesse.
L'Associazione Arditi del Popolo, fondata a Roma nel giugno del 1921 da elementi di estrazione eterogenea, tra i quali numerosi anarchici, che hanno per unico elemento coagulante l'appartenenza di classe, soccomberà infatti sotto il fuoco incrociato dei socialisti, che “guardano molto più lontano della lotta armata”, e dei comunisti che ironizzano sull'“improvvisazione sportiva” di uno slancio senza indirizzi unitari non regolato dalla disciplina di partito.
Dorme sulla collina il compagno Nello Papini. E tuttavia la piccola pietra recata dal “giovane anarchico” all'edificazione di un'ideologia sportiva proletaria meritava di essere sottratta ai polverosi sotterranei della storia.

Felice Fabrizio