Rivista Anarchica Online





Prezzi d'avanguardia


1.
Un sogno recente che ho diligentemente annotato al mattino: sono in una cucina sconosciuta, cerco nelle mensole alte, dove di solito si può trovare scatolame. Apro un'anta e constato che è perfettamente pulita e che contiene soltanto due scatole metalliche – hanno la loro etichetta, ma anche senza leggerla le riconosco. La grafica è quella: non ho bisogno di leggere “Contenuto netto gr. 30 Conservata al naturale Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961” per sapere che si tratta di due scatolette di “Merda d'artista” di Piero Manzoni.

2.
Pochi giorni dopo, in una piovigginosa domenica mattina, sono andato a vedere la mostra delle opere di Emilio Isgrò che il Comune di Milano ha allestito a Palazzo Reale. Prima di riferire delle condizioni in cui l'ho visto, sarà bene che dica qualcosa di quel che ho visto. Isgrò è diventato noto per le sue cancellature: su checchessia poteva esser ridotto a “testo” – romanzi, saggi, partiture musicali, pitture, carte geografiche, scritti vari, pagine e volumi interi – lui vi apporta rigacce nere e, ogni tanto, vi lascia sopravvivere qualche parola. Nulla di straordinariamente originale, beninteso, ma qualcosa che sembrerebbe perfettamente in linea con tanta parte del movimento artistico del Novecento – come, per esempio, i baffi che Duchamp aggiunge alla Gioconda nel 1919. Gran parte della produzione artistica di Isgrò consiste in questa operazione cui lui e chi per lui, ovviamente, conferiscono grande e significativa rilevanza. È così che si sente dire, allora, che questa sua sarebbe una “nuova poesia” che “vuole essere un'arte generale del segno” o che “la parola è morta” – affermazioni il cui senso mi sfugge (la quantità di cose dichiarate metaforicamente “morte”, come “Dio”, le “ideologie” o il “romanzo”, rappresentando altrettante raschiature del fondo del barile del mercato culturale delle élites, va al di là della mia sopportazione) – o che, di fronte alla cancellatura dell'Enciclopedia Treccani, si dovrebbe comprendere la contestazione del “simbolo di una cultura imbalsamata e nozionistica”. Tutto all'opposto, però, lui dice di non aver mai “cancellato”, ma di aver “rappresentato un mondo che cancella” – “che cancella le diversità, che cancella le culture” – di non aver nulla da spartire con quella Mente che cancella realizzata da David Lynch nel 1977, insomma – e che la cancellazione dei Promessi sposi, per esempio, “è risultata alla fine una delle imprese più difficili e faticose” da lui affrontate. Sulla scia “magrittiana” di “Ceci n'est pas une pipe” – roba all'incirca del 1928 –, poi, – va detto anche questo –, nel 1971, Isgrò realizza un'opera il cui titolo è “Dichiaro di non essere Emilio Isgrò” e che, quarant'anni dopo – dopo chissà quale macerazione intellettuale – troverà la sua complementare in “Dichiaro di essere Emilio Isgrò”. Basta così: ne ho a sufficienza per giustificare quanto poco mi piacciano i discorsi su questa produzione artistica – reazionari in quanto misticheggianti, irrazionalistici e più e meno artatamente privi di senso – e per dire che, invece, i risultati estetici sono spesso notevoli e che la mostra, complessivamente, mi è piaciuta. Vale per Isgrò, dunque, quel che vale per Mondrian o per Rothko: in certi casi, se riuscissi a dimenticare ciò che hanno detto e scritto nonché le basi teoriche da cui han preso le mosse e il marciume mercantile che c'è dietro, ne sarei addirittura entusiasta.
All'ingresso ritiravano gli ombrelli – potrei cominciare da lì per introdurre alle modalità con cui la mostra poteva essere visitata e recepita. Illuminazione perfetta, temperatura sotto rigido controllo, teche protettive, un guardiano – solerte e guardingo - per ogni stanza; “ultimo ingresso” consentito un'ora prima dell'orario di chiusura. E anche questo mi basti.

3.
Non mi dilungo sul nesso tra il sacro e l'artistico; lo do per assodato. Gran parte della storia dell'arte registra la Chiesa come committente e come padrona dell'arte – dalle scelte dei soggetti alle scelte stilistiche: dipinti, sculture e musiche apparentemente più invadenti della letteratura devozionale. L'estetico è stato manipolato e sottomesso alla funzione di viatico della fede. E anche quando la Chiesa non c'entrava o c'entrava meno, l'espressione artistica doveva sottostare a regole: canoni precisi, misure, metriche, luoghi deputati alla fruizione. Va da sé che, in ogni tempo ed in ogni Paese – correndo non pochi rischi –, qualcuno abbia tentato di ribellarvisi – si pensi ad un'opera come il Gargantua e Pantagruele di Rabelais o alla Vita e opinioni di Tristram Shandy gentiluomo di Sterne. Orbene, a queste “avanguardie” in genere ascrivo volentieri una funzione liberatoria: dalle catene imposte da un'Autorità indiscutibile, dai valori e dai linguaggi che li veicolano – entrambi precostituiti, dati da subire nell'obbediente alienazione di sé. È così, pertanto, che riconosco l'utile funzione sociale di movimenti culturali come il futurismo, il dadaismo, il surrealismo, le nuove avanguardie della seconda metà del Novecento, etc.: nel mostrare le contraddizioni dei diktat in ordine all'estetica, fanno emergere anche le contraddizioni del sistema sociale che li alimenta; nel far svanire l'aura di sacertà che committenza e mercato hanno costruito intorno all'opera d'arte, aprono nuovi spiragli per relazioni umane più sensate offrendo margini di libertà maggiori.
Purtroppo – storia alla mano –, questo riconoscimento però me lo devo ringoiare. Il futurismo italiano – nei suoi rappresentanti più significativi - fluisce in mistica fascista come buone porzioni di surrealismo francese si adattano alle liturgie più codine e vili del comunismo; l'avanguardia, prima o poi, viene fagocitata dal mercato; la merda d'artista “vale” molto più oro di quei trenta grammi che pesa. E non posso neppure ritenere – Isgrò, artista vivente, alla mano – che questi artisti siano stati strumentalizzati, perché presumo che Piero Manzoni, vivo, avrebbe fatto carte false o anche imbrattate di cancellature pur di far salire le quotazioni delle sue opere – alla faccia di qualsiasi premessa contestataria.
L'ideologia dei consumi governa il mondo delle arti esattamente come quello delle altre merci. Ma, nel caso delle arti, sembra di trovarsi di fronte ad una ciclicità ineludibile: allo svelamento del fasullo – allo sfatamento, alla dissacrazione – segue una risacralizzazione. Quella liberazione è durata un attimo, manco abbiamo fatto in tempo a gioirne che ci siamo ritrovati avvinti alle solite catene.

4.
A Palazzo Reale – nei giorni in cui erano esposte le opere di Isgrò – le mostre erano due. A lato, c'era anche una mostra di opere dell'olandese Maurits Cornelis Escher (1898-1972). Ho avuto modo, allora, di annotare due differenze: la prima, da Escher c'era la fila e da Isgrò non c'era nessuno; la seconda, da Escher si pagava un biglietto d'ingresso e da Isgrò si entrava gratis. Il che indurrebbe ad ulteriori riflessioni – non meno amare delle precedenti –, ma me la caverò con un altro aneddoto più o meno personale.
Dunque: da sedici anni a questa parte, mia moglie Anna ha aperto una piccola libreria in un quartiere di Milano che mi piacerebbe poter chiamare “popolare” se fosse ancora facile definire “popolare” qualcosa di Milano. Trattandosi di una libreria, senza neppure aggiungere che è tutta dedicata a piccoli e disperati editori, sarebbe pleonastico specificare che, dal lato economico, sopravvive a malapena alla fame e agli stenti. Bene, previo cauto sondaggio a prima vista incredibile, nei mesi scorsi questa libreria è stata oggetto-meta di visita guidata per un folto aggregato di turisti. In un piovoso sabato pomeriggio, una quindicina di persone accompagnate dal loro cicerone sono entrate in libreria e, ombrelli sgocciolanti, naso all'aria e curiosità antropologica rappresentata dalla mimica più opportuna, si sono fatti spiegare la rava e la fava – o lo spirito e la materia – della locale realtà libraria. Anche qui ho avuto due osservazioni da fare: la prima è che questa gente pagava una quota e la seconda è che, fra gli altri, c'era perfino gente del quartiere, ovvero persone che, gratuitamente, in sedici anni, in libreria non ci aveva mai messo piede.
Diceva Simmel che il denaro ha la facoltà di trasformare la qualità in quantità – e qui diciamo che, per l'appunto, è servito ad asetticizzare l'eventuale relazione umana che si avrebbe potuto istituire, come il costo dell'opera d'arte e la sua risacralizzazione sono serviti ad esorcizzarne l'eventuale portata rivoluzionaria –, ma, in questo caso – come nel caso del far la fila da Escher, il denaro è servito preventivamente, affinché di qualità neppure si potesse parlare.

Felice Accame