Rivista Anarchica Online





Il signor Gianni e gli invisibili

Questa storia risale a qualche anno fa, ed è forse significativo che io l'abbia scoperta – per colpevole distrazione più che per scarsità di notizie – solo in tempi recenti, leggendo un testo di Sandro Mezzadra, studioso e attivista che sul concetto di confine e sulle migrazioni lavora da tempo. È una vicenda di invisibilità che comincia il 25 marzo 2011 a Tripoli, sulla costa, quando un barcone con a bordo 72 “migranti” (ma il termine è imperfetto, semplificatorio e fuorviante) abbandona la Libia nel tentativo di raggiungere Lampedusa. Dopo una ventina di ore di mare, il 27 marzo, il barcone finisce il carburante. Anche le provviste si esauriscono abbastanza in fretta. Soprattutto l'acqua è una riserva preziosa che ben presto rappresenta la differenza tra la vita e la morte. L'imbarcazione riesce a mandare una richiesta di aiuto, che ha come esito l'invio di un elicottero (non si sa da parte di chi, perché poi tutti negheranno di averlo mandato). Da quello, arrivano alcune bottiglie d'acqua, pacchetti di biscotti e la confortante rassicurazione che presto sarebbe giunto un battello di salvataggio. Nei giorni successivi, più di un'imbarcazione si avvicina ai migranti in difficoltà, ma nessuno li aiuta.
L'epilogo è prevedibile: dopo 16 giorni alla deriva, il barcone viene spinto dalle correnti di nuovo sulle coste della Libia. Solo 11 persone, al momento dell'attracco, sono ancora in vita, ma una muore subito, l'altra nelle prigioni di Gheddafi, dove i migranti sopravvissuti vengono chiusi subito dopo l'approdo.
Dei 72 viaggiatori partiti, 47 erano etiopi, 7 nigeriani, 6 ghanesi e 5 sudanesi. 20 erano donne e 2 erano bambini. 72 persone che sono risultate tragicamente invisibili, troppo ingombranti, necessariamente, come chiede con insistenza qualcuno, da “rimandare a casa loro”.

Facciamo un salto di 5 anni e arriviamo a oggi, a un momento in cui, cioè, la situazione dei flussi migratori si è fatalmente aggravata, nonostante le operazioni di salvataggio, nonostante la solidarietà tra profughi, nonostante i mille tentativi di far fronte all'emergenza. In questo oggi, solo qualche mese fa, guardo per caso - io che non sono mai stata troppo televisiva - una trasmissione condotta da un giornalista accreditato e famoso, per quanto singolarmente attratto, come molti, dall'allestimento di risse verbali delle quali è difficile comprendere il senso. Nel dibattito sulle procedure di accoglienza, il giornalista in questione dà la parola a un tal “signor Gianni”, un signore in evidente difficoltà, che vive in una roulotte con moglie e figlia, senza luce né acqua, e che lamenta che lo stato non si prenda cura di lui e invece alloggi in prestigiosi alberghi persone che arrivano dall'Africa.
Tornerò sulla questione (e sulla trasmissione) in altra sede, però una frase in particolare mi interessa: a conclusione del suo enfatico reclamo contro lo stato italiano, il signor Gianni dice: “In Africa non c'è la guerra. La guerra è qui da noi.” L'affermazione, immediatamente popolare con la maggior parte degli ospiti dello studio, non viene messa in discussione dal giornalista. Rimane appesa nell'aria e viene insabbiata subito dopo, sommersa nella rabbia colpevolmente incoraggiata dalla struttura di una trasmissione che si propone come “giornalistica”.
E questo è il nodo che mi interessa: abbiamo delle convinzioni - “In Africa non c'è la guerra” – assecondate da un sistema di pensiero che si consolida attraverso un meccanismo di diffusione delle informazioni atto a selezionare preventivamente quel che è importante e quel che non lo è. E non siamo abituati a verificare ciò che ci viene detto. Per capire anche sommariamente che cosa sta accadendo ormai da decenni in Etiopia, Nigeria, Ghana, Sudan (per limitarci alle persone che abitano la storia da cui sono partita) basta fare un giro sul web, farsi due domande, trovare risposte convincenti e sostenute dai fatti: anche pochi “fatti” bastano a rendersi conto della differenza tra vivere in una condizione di guerra e abitare un mondo in cui la condizione bellica è immaginaria, e immaginativamente alimentata da certi media.
Ma la rabbia del signor Gianni è più potente, più energica, automaticamente “vera”. Le sue argomentazioni ci fanno sentire italiani e ci assolvono. Ci regalano risposte che non prevedono la verifica delle domande. Così, ecco, facciamo finta di non vedere. La storia dei 72 viaggiatori in cerca di asilo rimbalzati decimati sulle stesse coste da cui erano partiti (e prontamente imprigionati) mi colpisce per questo: sedici giorni di invisibilità in mare, una morte senza nome e senza ricordo, un silenzio assoluto. E, semmai, una considerazione finale: ecco, signor Gianni, ha visto? Questi li abbiamo rimandati a casa. Lei sta meglio, ora?

Nicoletta Vallorani