Rivista Anarchica Online


terremoto

Ricostruzione e comunità

di Adriano Paolella


Il modello new town tipo L'Aquila non sarà ripetuto. Bene. Si parla di ricostruzione legata al luogo, alla comunità. Benissimo. Ma occorre non lasciare “il pallino” ai tecnici né tantomeno ai politici. È la comunità locale che deve attivarsi, vigilare ma soprattutto fare. Perché il vero cemento sono le relazioni umane e da lì bisogna ripartire. Il parere di un nostro collaboratore, architetto, che subito dopo il terremoto dell'Aquila scrisse su “A” un articolo quasi profetico sulle sciagurate scelte di allora.


Con Linda passiamo lunghi periodi in un piccolo comune montano dell'aquilano, Calascio. Per questa ragione si è percepito il terremoto di L'Aquila e osservato il dopo terremoto con una partecipazione e vicinanza maggiore rispetto ad altri. Abbiamo sentito, bene, nelle nostre antiche case in pietra, il terremoto di Amatrice e abbiamo vissuto lo sgomento di chi già terremotato ha avuto sensazioni profonde e spesso, anche per loro, inimmaginabili. Perché il terremoto ha trasformato le persone, ha costituito ricordi pesanti e paure che stanno lì, per sempre, emergendo improvvisi e ingestibili.
Se le abitazioni non fossero costruite male, se non fossero abbandonate senza manutenzione, se non fossero oggetto di adeguamenti sbagliati non crollerebbero o almeno non crollerebbero con tanta facilità.

Gli abitanti? Esclusi dalla gestione

E non essendo possibile parlare di case senza parlare di abitanti i danni del terremoto sono l'esito anche di quell'esproprio delle capacità tecniche degli abitanti, che non permette loro di gestire adeguatamente le proprie abitazioni.
Molti degli abitanti non sanno più costruire le proprie case ma peggio non hanno la capacità di interpretare i segni di compromissione strutturale delle stesse e non riescono a discernere gli interventi inadeguati.
Gli abitanti sono stati esclusi dalla gestione dei loro insediamenti attraverso una delega ad amministratori e tecnici.
Questa condizione non è specifica di Amatrice ma si riscontra ovunque in quanto la cultura tecnica del costruire non è più una cultura diffusa. La cultura settoriale e specialistica ha espropriato gli abitanti di qualunque possibilità di intervenire, ha marginalizzato l'azione diretta da questi praticata, acquisendo una delega che non vuole condividere con chi negli edifici abita.
In tale maniera si è perso un presidio che poteva contribuire ad individuare fenomeni di alterazione e indicare ambiti di intervento o poteva intervenire direttamente ma adeguatamente per la messa in sicurezza almeno parziale degli edifici.
Quando si dice che gli edifici crollano perché non usano le soluzioni tecniche adeguate si dovrebbe aggiungere, e lo dimostrano i molti edifici costruiti con tecniche povere e antiche ancora in piedi dopo il terremoto, che se le scelte del sistema costruttivo (muratura portante, telai in cemento armato, ecc.) sono importanti, la qualità della costruzione e della manutenzione è fondamentale.
Quanto visto ad Amatrice, con le specificità del caso, sono situazioni già riscontrate altrove: prima del terremoto, negli edifici in pietra la malta era erosa e sgretolata permettendo alle pietre, quando sollecitate, una autonomia di movimento che ha inficiato profondamente la resistenza delle murature (non si comportano come un elemento coeso); le teste dei solai in legno non erano più adeguatamente ammorsate e quindi si sono sganciate facilmente dalle murature aumentandone la possibilità di oscillare e quindi di crollare (quelle immagini terrificanti dove si vedono i solai con sopra mobili e armadi e senza più le pareti esterne); le fondazioni, le chiavi delle volte, le architravi, le aperture, gli spazi interni sono stati trasformati senza una corretta considerazione delle modificazioni comportate alla capacità strutturale degli edifici.
Molti degli interventi di messa in sicurezza hanno contribuito negativamente alla stabilità degli edifici. I più diffusi sono i tetti e i solai in cemento armato ritenuti più resistenti ma sicuramente molto più pesanti che hanno gravato sulle murature contribuendo al loro collasso, ed in generale le soluzioni aggiunte in modo incoerente all'esistente che hanno prodotto non organismi edilizi, ma una sommatoria di parti con caratteristiche diverse e tra esse scollegate.
Ad Amatrice, rispetto a L'Aquila dove il tessuto residenziale era continuativamente utilizzato, si è aggiunta anche la sfavorevole condizione dell'uso temporalmente limitato delle abitazioni. Un tessuto insediativo “povero” e per gran parte composto da seconde case ha ridotto il presidio degli abitanti che ha comportato interventi manutentivi più sporadici ed un minore interesse a gestire la casa in maniera adeguata e continuativa.
E anche in questo caso risulta evidente come non si possa parlare di abitazione senza parlare di abitanti.

Come si ricostruisce?

A ottobre del 2009 pubblicammo con il numero 347 di A un dossier dal titolo “Ricostruzione post-terremoto: analisi delle soluzioni adottate” in cui si analizzò il progetto delle new town e in assenza di dati (solo sulla base delle poche informazioni disponibili nell'immediatezza del sisma) si operarono delle critiche alle scelte di privilegiare nuove costruzioni per L'Aquila lontano dai luoghi di residenza degli abitanti piuttosto che concentrarsi sull'immediata ricostruzione del patrimonio distrutto o danneggiato.
Per Amatrice questo rischio non sussiste, almeno da quanto emerso dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio e dal Commissario. Una posizione che fa piacere e al contempo, vista l'attuale estesa condivisione nel mondo dei tecnici e degli operatori, fa chiedere che opinioni avessero costoro, o come mai i media non li hanno intervistati, nel 2009 quando l'ipotesi new town non trovò una significativa opposizione.
Partendo da questa positiva acquisizione è però importante capire come si ricostruisce.
Infatti gli abitanti sono i massimi artefici (o dovrebbero essere) dei lori spazi; in particolare per questi piccoli centri sono coloro i quali hanno conservato i manufatti, che hanno vissuto in una contemporaneità non fatta di acciaio, vetro e higth tech, come quella che caratterizza il mondo globale, ma hanno impostato le loro attività e la loro esistenza in un mondo più lento, più prossimo, meno apparentemente perfetto ma più identitario, di quello proposto dal modello corrente.
È proprio questa condizione che è necessario salvare. Un modello economico e sociale differente e spesso in contrasto con il modello dominante fatto di piccoli imprenditori, di relazioni sociali, di prodotti di qualità, di orgoglio della propria attività e del proprio paese.
Ma questi paesi, come quasi tutti i piccoli insediamenti appenninici, si riempiono d'estate proprio per questa caratteristica; perché i turisti occasionali vanno a respirare un'atmosfera che dà loro piacere, i residenti stagionali cercano quella modalità di vita che non possono praticare in città, gli emigrati incontrano componenti della loro famiglia e antichi conoscenti.
Ma la cosa che tutti cercano e sono soddisfatti nel ritrovare ogni anno sono le relazioni con gli altri e quelle con i luoghi, il rapporto con l'ambiente e con la capacità di produrre e di vivere in maniera connessa con i luoghi. In sintesi cercano la comunità e quel tessuto di relazioni ambientali e sociali indispensabili per la vita di una persona.
È un modello diverso delicato costruito in autonomia dagli abitanti e dagli ospiti in cui tutti si danno reciproca soddisfazione e si sostengono al di fuori dalle imposizioni formali e commerciali del mercato.
Ed allora l'attenzione alle strutture ed alle forme dell'insediamento ed alla sua ricostruzione è finalizzata alla conservazione, al sostegno, alla riqualificazione di un modello insediativo caratterizzato e specifico e l'opera di ricostruzione deve perseguire le scelte che consentano il mantenimento di tale tessuto.
Il principale esito negativo delle new town a L'Aquila, quasi pari ai diffusi danni ambientali in termini di consumi di energia, di materiali, di suolo e di aumento delle emissioni, è stato quello di avere interrotto le relazioni tra gli abitanti sparpagliandoli in siti diversi, e così facendo di avere destrutturato le comunità. Proprio quelle comunità che utilizzavano gli spazi della città per risiedere e produrre, in sintesi che l'avevano conservata.

L'importanza delle relazioni

Solo la forza e la tenacia degli abitanti permette ancora di ipotizzare che appena disponibili gli spazi si ricompongano le relazioni. Ma comunque quelle insensate scelte hanno sottoposto gli abitanti ad ulteriori evitabili difficoltà: si pensi alle ulteriori difficoltà che le attività commerciali dovranno affrontare al rientro dopo otto anni nel centro storico per confrontarsi con le abitudini degli abitanti ad utilizzare i centri e le aree commerciali, situate nelle nuove periferie, proliferate e consolidatesi nel dopo terremoto, quando il centro era silenziosamente e coercitivamente svuotato.
Se la ricostruzione sul posto è quindi elemento fondamentale per garantire la qualità del recupero è comunque fondamentale rispondere alle esigenze degli abitanti (anche singolarmente) così da configurare soluzioni condivise e “sentite”.
I tecnici, come in alcune altre occasioni è avvenuto, debbono essere vicino ai cittadini; ascoltare, capire, interpretare, informare, divenire essi stessi parte della comunità così che la consapevolezza delle soluzioni possa divenire cultura comune, un legame questo indispensabile per il mantenimento delle comunità e al contempo garantire agli abitanti di intervenire direttamente a monitorare e riparare, adattare contribuendo così a consolidare quello stretto legame con gli altri, con i manufatti e con i luoghi.
In quest'ottica la ricostruzione fisica degli insediamenti, proprio per essere attuata con la partecipazione attiva degli abitanti, può essere lo strumento per il mantenimento o la ricostruzione delle comunità.

Adriano Paolella



Dopo L'Aquila

di Adriano Paolella

Il terremoto dell'Aquila – o meglio la scossa più distruttiva – avvenne il 6 aprile 2009. Sei mesi dopo, noi di “A” uscimmo con un articolo di Adriano Paolella. Ne riproduciamo qui di seguito alcuni stralci.

A L'Aquila nella ricostruzione si è proceduto in maniera diversa da quanto precedentemente fatto. No containers, no alloggi di emergenza, no abitazioni temporanee, ma vere e proprie abitazioni in new town infrastrutturate e dotate di un tessuto viario asservito.
Queste scelte, molto onerose sia in termini economici che ambientali, hanno distratto l'attenzione e i finanziamenti dalla ricostruzione del centro storico ed hanno comportato molte fatiche e disagi agli abitanti resi inattivi nella ricostruzione ed in particolare per quelli di L'Aquila allontanati dalla loro abitazioni e collocati in insediamenti lontani dal centro e pedonalmente irraggiungibili.

Assoluta mancanza di progetto collettivo

La scelta fatta è stata quella di evitare insediamenti temporanei e puntare verso edifici definitivi temporaneamente utilizzati; ovvero quella di costruire edifici caratterizzati da livello tecnico e caratteristiche propri di un edificio duraturo ma farli occupare per un tempo limitato dalle popolazioni in attesa del recupero degli edifici esistenti e danneggiati. Una scelta economicamente ed energeticamente molto impegnativa, la più impegnativa tra quelle praticabili. [...]
La superficie direttamente occupata dagli edifici è di 63 ettari; se a ciò aggiungiamo le aree libere intorno agli stessi, e le infrastrutture necessarie per raggiungerli, possiamo quasi triplicare le superfici: la quantità complessiva di suolo consumato è intorno ai 200 ettari. I nuovi insediamenti sono 20. Le nuove case, tutte collocate fuori del tessuto urbano consolidato, collegano tra loro aree insediate diverse, divenendo congiunzione tra ambiti insediativi precedentemente lontani; attraverso di esse si conforma una città estesa che ingloba insediamenti storici precedentemente limitati. [...]
Contemporaneamente molte attività, uscite dal centro storico o dalle zone maggiormente colpite, si sono collocate lungo le principali strade di maggiore traffico o in edifici pubblici disponibili, costituendo così nuovi poli commerciali, amministrativi, produttivi. Già l'inattività del centro e di parte delle periferie consolidate per un periodo più o meno lungo avrebbe cambiato l'assetto urbano ma questo, unito agli interventi nuovi ed all'assoluta mancanza di progetto complessivo, trasforma l'intero territorio e definisce la vita dei cittadini (aumento mobilità, pendolarismi, congestione, dequalificazione degli insediamenti) senza alcuna condivisione da parte degli stessi. [...]
Le nuove abitazioni hanno un numero compreso tra 5 e 6000 unità. Se ad esse si aggiungono quelle già non utilizzate situate nel comune, si ottiene un patrimonio edilizio di 7.200 abitazioni in eccedenza; dal momento che le abitazioni esistenti a L'Aquila sono circa 30.000 si costituirebbe un fondo di abitazioni libere pari a circa il 25%. Nel momento in cui le persone rientrassero all'interno delle proprie abitazioni, un quarto della città sarebbe comunque vuota.

Una città senza qualità

Il progetto delle nuove case è esito di scelte culturali. La ricostruzione del dopo-terremoto dell'Aquila è divenuto il meccanismo per giustificare, avviare o completare una serie di opere dimostrando come questo modello risponde alle diverse esigenze sempre alla stessa maniera: producendo oggetti nuovi, incrementando il mercato delle merci, operando con le grandi quantità.
Gran parte delle scelte ha aggiunto altre condizioni di profitto: costruzione di nuovi alloggi, nuovi terreni urbanizzati, aumento del valore immobiliare di estese aree agricole e modalità di attuazione autoritarie. Le decisioni sono state tutte centralizzate. Non vi sono state verifiche con la popolazione, non si sono sentiti né i pareri, né le richieste. [...]
Le nuove case, tutte collocate fuori del tessuto urbano consolidato, collegano tra loro aree insediate diverse, divenendo congiunzione tra ambiti insediativi precedentemente lontani; attraverso di esse si conforma una città estesa che ingloba insediamenti storici precedentemente limitati.
Contemporaneamente molte attività, uscite dal centro storico o dalle zone maggiormente colpite, si sono collocate lungo le principali strade di maggiore traffico o in edifici pubblici disponibili, costituendo così nuovi poli commerciali, amministrativi, produttivi.
Già l'inattività del centro e di parte delle periferie consolidate per un periodo più o meno lungo avrebbe cambiato l'assetto urbano ma questo, unito agli interventi nuovi ed all'assoluta mancanza di progetto complessivo, trasforma l'intero territorio e definisce la vita dei cittadini (aumento mobilità, pendolarismi, congestione, dequalificazione degli insediamenti) senza alcuna condivisione da parte degli stessi.

La qualità delle relazioni

Oggi non basta conservare i centri storici per garantire la qualità della vita dei cittadini. L'attenzione, lasciando come punto fermo ed inalienabile la conservazione dei centri, si deve concentrare sulla qualità dell'abitare, e non solo del costruito, degli insediamenti post-bellici. La qualità dell'abitare si ottiene con il raggiungimento di una efficienza tecnica, energetica ed ambientale delle abitazioni ma anche qualificando la qualità delle relazioni intercorrenti tra edificio e ambiente in termini di riduzione dei consumi di materiali, di occupazione di suolo e di inserimento ambientale e paesaggistico, e favorendo il tessuto di relazioni sociali, le stesse che con la loro sedimentazione qualificano la vita dei centri storici, condizione indispensabile per poter vivere in un insediamento e non in un dormitorio. [...]
Vi sarebbero state delle soluzioni alternative. Se si fosse concentrata l'azione sugli edifici danneggiati, si sarebbero potuto in questi mesi --- e avendo come obiettivo dicembre i mesi sarebbero stati nove - riparare una parte significativa degli edifici delle categorie meno danneggiate, che oggi giacciono nelle stesse condizioni in cui si trovavano la sera del 6 aprile.
Si potevano abbattere un numero significativo di edifici in cemento armato, quelli molto danneggiati, di recente costruzione e senza particolari valori storico-culturali, per fare posto in quei quartieri ad edifici antisismici qualificati e definitivi.
In particolare si sarebbe potuto operare con dei veri piani di intervento in cui trasformare interi quartieri esistenti in quartieri di più alta qualità con la sostituzione puntuale dell'edificato. [...]
Dare in uso temporaneo le case non occupate prima del terremoto che costituivano un significativo patrimonio in parte in buone condizioni. [...] Costruire gli edifici antisismici nelle aree non edificate ma prossime ed integrate con il costruito esistente e la periferia consolidata. [...] Le case temporanee si sarebbero potute localizzare in prossimità dei luoghi di residenza degli sfollati e quindi in prossimità dei quartieri e dei paesi dove ci sono stati i maggiori danni.

Adriano Paolella
ad.paolella@gmail.com

dal dossier Ricostruzione post-terremoto: analisi delle soluzioni adottate (“A” 347, ottobre 2009)

Questo “dossier Abruzzo”, uscito come supplemento del n. 347
(ottobre 2009) di “A”, si intitolava Ricostruzione post-terremoto: analisi
delle soluzioni adottate
e come sottotitolo aveva: Una dettagliata analisi
critica degli interventi urbanistici all'Aquila e dintorni
. Ne abbiamo trovate
alcune copie e le mettiamo in vendita a 5,00 euro l'una (spese di
spedizione comprese). Se no, potete leggervela gratis nell'an-archivio,
cioè l'archivio on-line, presente nel nostro sito